«Ero ma sono»
Franco Fortini
tra dissolvenza e resistenza

Franca Mancinelli

Siamo tutti eredi inconsapevoli di una grande ricchezza, quella del nostro Novecento poetico e, in generale, della nostra tradizione umanistica. È un’eredità aperta; sta a noi riconoscerla e conquistarla, come diceva Eliot, attraverso un duro lavoro per percepire il passato non solo in quanto passato ma anche nella sua presenza.1 Ereditare, scoprirsi a un tratto depositari di un bene, di una riserva di senso, apre alla gioia del riconoscersi parte di una famiglia più grande, in cammino in un comune orizzonte. Ereditare significa anche ricevere un compito.

Come avviene il passaggio tra le generazioni, come il lascito di una vita viene donato a un’altra: che cosa resta e che cosa svanisce, cosa è destinato a durare e cosa a dissolversi. Questo è un tema fondamentale per Franco Fortini: ha generato la sua più alta poesia, Composita solvantur, il suo libro testamento, ma anche Paesaggio con serpente, Questo muro, e altri testi e brani che si stagliano incandescenti nelle precedenti raccolte.

Fortini è un autore che ha avuto una chiara consapevolezza del proprio valore, e del compito che gli imponeva nei confronti del proprio tempo e, soprattutto, del futuro. Per questo il suo sguardo si è rivolto spesso ai giovani, confidando in una continuità possibile, in una effettiva utilità delle sue parole. La sua disponibilità a porsi in ascolto delle voci dei più giovani, ha depositato semi nelle pagine, uniti a quelli lasciati attraverso la sua scrittura poetica e saggistica. Interessante a proposito la testimonianza di Milo De Angelis:

Un uomo capace, anche di fronte a un ragazzo di diciotto anni qual ero io, di passare ore e ore a impazzire o a adirarsi per un verso. Io andavo lì, un pomeriggio alla settimana, in via Legnano 28. Erano famose le collere di Fortini su un enjambement zoppicante, su un aggettivo sbagliato o banale, o “immotivato” come diceva lui. Per lui da una falla, da una “pecca” […] sembrava che dipendesse non solo la fine del mondo, ma anche la felicità di chi passava fuori dalla finestra, come se ci fosse una relazione sotterranea tra la riuscita di un testo e la gioia del primo venuto. Questo creava una dimensione da fine del mondo. Quindi c’era timore ma anche grande ammirazione per questa capacità di penetrazione del testo: da un dettaglio si risaliva a un corpo vivente. Per me è stata una grande lezione di poesia.2

Questo legame tra la parola e una verità che attende di essere pronunciata, come rispondendo a un appello inderogabile, passa a De Angelis che riconosce in Fortini un «maestro letterale, sul foglio»,3 per poi ripensare questo rapporto, sottolineando in un’intervista più recente le profonde differenze ideologiche e di orizzonti letterari, e definirlo «un ottimo insegnante (soprattutto sul piano orale) […]. Ma non […] un maestro».4

Nei nostri anni l’eredità di Fortini si è polverizzata e dispersa. Ne siamo sfuggiti e ne stiamo ancora sfuggendo perché chiede un lavoro particolarmente duro e ci affida una responsabilità che mette in gioco tutta l’esistenza e implica una fede nella parola difficile da sostenere nel presente. È un’eredità così complessa e per certi aspetti schiacciante, che non ha lasciato epigoni, ma ha aperto alcuni sentieri. Tra i poeti contemporanei potremmo riconoscerla in Fabio Pusterla, nel suo seguire da rive e strade laterali, i segnali che portano oltre le macerie del Novecento, leggerla nello scenario ultimativo di Preparativi per la villeggiatura di Remo Pagnanelli, ritrovarla nell’impegno civile, senza retorica e ideologia, dei Discorsi in cucina di Marco Ferri, cercarne le tracce nei paesaggi percorsi da Andrea Gibellini, ne Le regole del viaggio e nella luce intermittente della sua Felicità improvvisa.

La consapevolezza del proprio valore e del proprio compito si accompagna in Fortini a una ferma volontà di restare. Nei suoi versi si interroga infatti più volte sulle forme e i modi per transitare oltre il presente, si sporge sul futuro, immagina lo sguardo dei posteri, si augura che le sue parole abbiano durata e resistenza, si vede come un insetto racchiuso nell’ambra, quasi a dire che dalla ferita aperta dalla storia si può generare una forma di bellezza in cui consistere: «Seguo il segno che una mano armata incide / sulla scorza del pino / e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile». Sono versi tratti da Il presente,5 poesia a cui appartengono anche le parole citate nel titolo di questo intervento: «ero ma sono».

In quale modo si resta? Come può il passato continuare ad agire nel presente? Secondo Eliot acquisendo una coscienza storica, «quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a fare il poeta dopo i venticinque anni»6 (ma in realtà per ognuno di noi). Fortini si era fatto pienamente erede della tradizione e insieme presente al proprio tempo. Poteva limpidamente riconoscere dalla «linea del fuoco» della guerra di trincea, alla resistenza, alla lotta seguita contro i poteri pervasivi della società di massa, quali sono le coordinate in cui ci troviamo, quale la posizione da mantenere, con lo sguardo fisso nel dopo storia di rovine e detriti, e la certezza che «Noi porteremo comunque a termine il compito vegliando» (301). Accogliere il compito che ci è consegnato, svolgere con rigore il proprio lavoro, essere utili agli altri: così il passato vive nel presente. È questa una risposta che Fortini si è dato, ma quella che lo guiderà nelle sue ultime raccolte e che lascerà più semi nelle generazioni future è: lasciando spazio, aprendosi oltre i confini del proprio io, in una forma di sparizione che è la sola destinata a persistere. “L’augurio-comando” che si ripete nel silenzio che segue e precede ogni verso di Composita solvantur è che “quanto è dissolto si componga”: questo il significato reversibile del titolo del libro che suggeriva Fortini.7 Al termine dei Consigli rivolti ai posteri Fortini scrive: «sono stato anch’io quei vuoti / dove ruota in fondo come mare / un elemento senza rumore / e senza morte / e quelle foglie verdi essenziali / e levigate che vi lasciano passare». Questa forma di esistenza spalancata è l’approdo di una lotta condotta contro i presidi del proprio io, gli schermi della sua profonda cultura, le armi della sua intelligenza e quel senso di responsabilità schiacciante che gli imponeva il compito che si era assunto.

Tra le foto che ritraggono Fortini ce n’è una in cui appare da una finestrella aperta tra due colonne di libri in primo piano. L’immagine di un uomo con i capelli bianchi e un maglione scuro, un libro aperto in mano, affiora come da uno spazio murato dalla letteratura. Così mi è apparso Fortini al primo incontro, un poeta che non si lascia guardare negli occhi: lontano e irraggiungibile, al riparo della sua vasta e stratificata cultura, della lucidità della sua consapevolezza, che raramente abbassa la guardia. Difficilmente nei suoi versi troviamo momenti di abbandono, di stupore di fronte alla bellezza. Sembra scrivere senza mai perdere il governo di se stesso, il rigore del proprio intelletto. Basta leggere le brevi pagine della sua Poetica in nuce, per rendersi conto di quanto millimetrica fosse la sua padronanza dei minimi ingranaggi della lingua. Di questi dieci punti stesi nel ’62, leggiamo, a esempio, parte del quarto:

Contro la mimesi veristica. Per l’astrazione e la omogeneizzazione.
Contro l’ampiezza del registro. Per la divisione all’interno della gamma.
Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici.
Ridurre l’escursione storica.
La lingua dev’essere riflesso-anticipo (e ironia) della unificazione neocapitalistica.8

C’è un nitore quasi glaciale, paralizzante. Qualcosa tra un testo normativo e la strategia di una battaglia. Un regime di alta sorveglianza governa le parole. Tra le ragioni che lo determinano c’è forse l’avvertimento di una colpa. Possiamo leggerla in relazione al suo particolare rapporto con il religioso, ma anche a quel sentimento di chi ha vissuto la Resistenza sentendo tutto il peso del sacrificio che altri hanno scontato con la vita. È anche per questo, forse, che la Parabola della propria esistenza può apparirgli quella di uno scampato al proprio compimento: «l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia / fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero / e che poi nella vigna / smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti» (145). La parola accoglie questa tensione a realizzare pienamente se stessi, e insieme a rendere conto della propria esistenza come assolvendo un debito. C’è poi quel senso di responsabilità che accompagna Fortini, verso il passato come verso il futuro: verso i morti, e in particolare quelli della Resistenza, che chiedono alla sua voce di farsi tramite del loro appello, e verso le generazioni a venire che, senza saperlo, ereditano la tristezza e il vuoto di valori seguito alla stagione degli ideali e della lotta. La consapevolezza di trovarsi in uno spartiacque fondamentale per la storia dell’Italia e dell’Europa accentua ancora di più il peso di questa responsabilità. È infatti un ruolo di testimone quello di Fortini: ha «letto negli occhi dei morti» (24) una richiesta di giustizia che non può essere dimenticata. È per loro che scrive ed è con i loro occhi che vede la vita che ricomincia, che si apre alla luce serena della primavera: «Vorrei che i vostri occhi potessero vedere / questo cielo sereno che si è aperto / la calma delle tegole, la dedizione / del rivo d’acqua che si scalda» (393). Questo custodire il passato per tramandarlo al futuro, porta a scolpire i versi come obbedendo a una verità che chiede di prendere corpo, di guidare le scelte e le azioni della vita. La conoscenza è per lui una forma di lotta necessaria, un dovere, prima che per sé, per gli altri, perché «tutto, se non si vince, ritornerà» (316). La forza che sprigiona questo verso attraversa la sua opera sorreggendo pagine di pensiero critico e di poesia. C’era una guerra da vincere a tutti i costi, e per questo Fortini si è armato con i più raffinati e aggiornati mezzi che aveva a disposizione, senza cedere a patti o arretrare, mantenendosi sempre nelle prime file, anche quando questo significava procedere solo. La posta in gioco era altissima: la possibilità della parola di essere depositaria del destino umano, di custodire il significato dell’esistenza. Su questa fede Fortini aveva costruito tutta la sua vita, attraverso lo studio accanito, la traduzione, il lavoro anche artigiano del verso, delle infinite varianti. Non senza la coscienza limpida di appartenere a una civiltà soggetta a poteri che l’avrebbero portata prima o poi al crollo. Poteva ancora vederla resistere, come una «gronda» sorretta da una trave marcita dalla neve: «un giorno, e non importa / se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente, quella volando via» (258). Se questo può essere pensato «con qualche gioia» è perché l’intelligenza non permette a Fortini di rifugiarsi in una visione nostalgica o attardata del reale, né di consegnarsi a un orizzonte di negatività, piuttosto lo porta a presentire quel travolgimento radicale con cui dovrà confrontarsi: «quel che ha compiuto la forma più cara di te / il lungamente maturato bene / c’è già fin d’ora chi lo getta via / senza un pensiero. Eppure / “la pietra spregiata sarà scelta dai costruttori” /diceva ad ogni tua morte per consolarti / pietoso inganno la voce del Custode» (415). Questa presenza-specchio che compare nei suoi versi, è un «custode» del bene che accompagna Fortini nei momenti decisivi, di incontro con una verità. Lo ritroviamo, sotto forma di «guardia / notturna» in Composita solvantur, mentre compie il consuntivo di tutta la sua vita (543). È la voce di quella direzione verso un orizzonte positivo, di possibile costruzione di senso, che non viene mai meno, per quanto lo sguardo affondi nella realtà e ne registri la corruzione e il disfacimento che sono arrivati a intaccare anche la natura; «il secolo atroce» ha infatti lasciato scorie e detriti tossici, che hanno compromesso per sempre le fonti della bellezza: «lo stagno detto delle libellule / è discarica assoluta» (448), il paesaggio stesso sembra implodere se non sostenuto dallo sguardo dell’uomo che continua a riconoscerlo come depositario di senso – anche se ormai non è più che un «mirabile inganno» (553), un «infame idillio» (555). Mentre «tutto sembra dirci una volta per sempre addio» (555), mentre ogni cosa sembra congedarsi, lasciando all’uomo un’esistenza di superstite, tra “minimi eventi” che potranno appena scalfire il destino o il corso delle cose, c’è un nucleo di forza vitale che resiste, e che Fortini non smette di registrare, nella coscienza del compito che gli spetta, di continuità oltre la distruzione.

C’è un testo che forse più di ogni altro può guidarci a incontrare Fortini oltre quella barriera di letteratura dietro cui si presenta, come da una personale trincea. È la Lettera a mio padre pubblicata nel ’48 su «L’Avanti», nel sessantesimo compleanno del genitore.9 Un testo importante per il tema dell’eredità e del passaggio tra generazioni, e per comprendere quanto Fortini fosse consapevole che la lotta che doveva condurre era prima di tutto contro quelle mura che gli appartenevano per lascito paterno e della classe borghese, mura in cui si era ritrovato barricato e protetto e che lui stesso aveva continuato a erigere. In questa lettera Fortini affronta un nucleo cruciale della sua identità e del suo destino di intellettuale e di scrittore. La forza di questo testo sta nella necessità che lo detta – il rischio che affronta è infatti quello di riconoscere il rapporto paterno in «immagini reciproche di fine, specchi di disfatta»: non ricevere nulla in eredità e non potere tramandare nulla, perdere la possibilità di generare, perdere la speranza del futuro. La necessità di scrivere questa lettera nasce dalla «disperazione» in cui lo getta il legame con il padre. Fortini scrive “per guardare l’altro in viso”, per raggiungere una conoscenza risolutiva, capace di trasformare questo rapporto. E forse l’origine della sua scrittura è proprio in questa necessità di contrastare la disperazione che si genera dalla mancanza di futuro, dall’interruzione del legame tra passato e presente. Questo tema torna in una poesia di Versi a se stesso (320); di fronte alla morte del padre, Fortini riconosce il rapporto con lui come una «piaga» aperta che può consegnarlo alla «vergogna» e al «rancore» fino ai suoi ultimi giorni. Ma il lascito paterno è anche «il seme» che resta «non ancora scaldato asciutto assoluto»: un seme doloroso che germina ancora, nella scrittura.

«Io ti guardavo, pensavo alle tue agende, alla tua vita che non avrei voluto avere», scrive Fortini nella lettera al padre, prima di iniziare a tracciare il bilancio della sua eredità. In questo testo torna più volte la centralità dello sguardo rivolto al genitore: statico rispecchiamento di una sconfitta, oppure possibilità di scoprire la realtà negli occhi dell’altro: «Per questo un giorno era necessario che tuo figlio prendesse in mano la penna per guardarti in viso […] perché quel guardarti dissolva le paure e le vergogne che accompagnano sempre figli e padri, senso della pietà e senso della morte». Attraverso lo sguardo passa «la risposta» che Fortini dà all’eredità paterna, come in questa poesia di Paesaggio con serpente: «Disteso sulla cassapanca del corridoio / per disperazione si contraeva. / Mia madre voleva consolarlo. Dino ti prego / non fare così c’è il tuo figliolo. // Contro i suoi che chiedevano perdono / gli occhi li ho avuti aperti sempre» (438). Affrontando gli occhi del padre in preda alla «disperazione», lo sguardo di Fortini infrange quel rischio di rispecchiamento di cui scriveva nella lettera, ed eredita la rigorosa tensione a conoscere che lo caratterizza. Da questa sua «risposta» alla disperazione paterna proviene la lucida determinazione che lo guida attraverso le rovine del Novecento, lo sguardo che affronta la realtà senza arrendersi al negativo. Il lascito di dolore non può comunque essere annullato: le «voci» infatti ora chiamano lui. La scrittura nasce come risposta a questa eredità, è un «vecchio pianto nel sonno», «confidenza della fine» (103).

Ciò che Fortini vuole tramandare a sua figlia e alle generazioni future, è proprio questo sguardo teso a conoscere il reale, per quanto tutto sembra travolto da mutamenti radicali, che minacciano la vita: «Gli alberi sembrano identici, / la specie pare fedele. / E sono invece portati via / molto lontano. Nemmeno un grido, / nemmeno un sibilo ne arriva. / Non è il caso di disperarsene, / figlia mia, ma di saperlo / mentre insieme guardiamo gli alberi / e tu impari chi è tuo padre» (367).

Leggiamo ora un brano della Lettera a mio padre in cui Fortini traccia il bilancio dell’eredità paterna: può riconoscere quanto gli deve, ma sotto una lente che definisce «curiosità» il suo desiderio di conoscenza, «credulità nel prossimo» e «impossibilità di essere cinico», la sua fede nell’uomo e nei valori. Poi individuerà altri lasciti: «la fiducia nel discorso, nell’intelligenza, nella logica formale», ma l’entità costitutiva di questa eredità gli appare risiedere sostanzialmente in un «nulla»:

Nulla era stato dato a noi in eredità, nessuna possibilità di contatto concreto col reale; il lavoro delle mani, operai, contadini, l’agilità del corpo, sconosciuto a noi cittadini del medio ceto; la forza degli imprenditori industriali, dei tecnici, il coraggio dei commercianti o degli avventurieri, ignoto alla città nostra, di albergatori, artigiani e studenti; la sensualità ricca di trionfo e di scherno, la scienza segreta del saper vivere, corrosa dal gusto di meditare; quasi impenetrabile il mistero delle chiese, dei paesaggi, dei morti del nostro paese, interposto lo strumento intellettuale fra le cose e noi. Persino tutta una dimensione della lingua ci era negata, confinati nell’italiano dei fiorentini che si disfaceva nel tuttofare di un raziocinio ciarliero, senza nerbo. Borghesi, e tu non avevi fatto che trasmettere a me le armi che erano state la tua difesa: la fiducia nel discorso, nell’intelligenza, nella logica formale. E anch’io non ho fatto che credere di poter riscattare tutte quelle nostre limitazioni e debolezze con la parola, e che l’espressione vincesse tutto. Così, del tuo figliuolo “bravo in italiano” è venuto su uno che scrive versi e prose ma che tutto il suo sforzo più duro lo deve mettere per non esser sempre, per non esser appena e senza speranza quel che tutto ha cospirato a farlo essere: un “letterato”.

Le armi del padre avvocato antifascista, sono ereditate dal figlio per condurre una lotta a non essere ciò che è. Una lotta a trasformare la propria condizione di intellettuale fondata su una radicale privazione di esperienza, costitutiva, come ha insegnato Gramsci, della stessa lingua e letteratura italiana. Ma questo «nulla» ereditato può avere un’altra valenza oltre a quella negativa che Fortini inizialmente registra. Come scrive nel seguito della lettera al padre, la strada che ha seguito di scegliere, è quella «senza clamori, difficile, dove nessuno ti aiuta», e dove, come da un’infanzia senza tempo, alla domanda «Che cosa vorrai diventare quando sarai grande?», può continuare a rispondere con orgoglio «Nessuno». È un’identità fondata sulla rinuncia alle «speranze di onore successo e fama», come su un’apparente preventiva sconfitta, un’identità che si costituisce per sottrazione, in negativo, accogliendo quel «nulla» che la sostanzia. Nella Lettera all’assemblea «per la libertà dell’informazione», scritta nel novembre del ’94, a poche settimane dalla sua morte, Fortini conclude e saluta definendosi «un intellettuale, un letterato, dunque un niente».10 Riconoscersi «Nessuno», «un niente», con coerenza, per tutta la vita, significa continuare a ripetere la risposta che era stata dell’astuto Ulisse, prigioniero nell’antro di Polifemo: mantenere quella posizione defilata, marginale, da cui è possibile non essere divorati dal potere, conquistare quella libertà che permette di salvarsi, restando «ospiti ingrati». Questo «niente» non è affatto nichilistico, è anzi la sola condizione per potere operare nell’esistenza, da un’identità aperta, che può farsi portavoce degli altri, e accogliere il transito generativo del passato nel presente. Nella poesia Il seme, riflettendo sul lascito della vita del padre, Fortini scrive: «In luogo di lui ci sono io / o mio figlio o nessuno». Questa congiunzione non ha solo, credo, valore disgiuntivo, ma anche esplicativo: «io / ovvero mio figlio ovvero nessuno». E il significato che possiamo dargli è nella direzione del superamento dell’identità individuale, per cui è possibile percepire ciò che siamo dentro una vastità che comprende quelli che sono stati e quelli che verranno. In un’intervista intitolata Ricordarsi del futuro, Fortini afferma:

Quanto alla memoria, devo dire che quel che oggi può aiutarci a uscire da una palude lunga quasi quindici anni è piuttosto il “ricordo” storico, interpersonale, fondato su documenti e ragionamenti. La memoria (proustiana) tende invece a ricondurre al presente esistenziale: fondamentale per l’esperienza soggettiva e per la radice religiosa dell’uomo ma insufficiente alla elaborazione storica ossia al pensiero del passato in vista di un futuro.11

Questa tensione verso una memoria interpersonale, anonima, che nasce dalla dissoluzione dell’identità individuale, ricomponendola dentro un’identità più vasta che comprende tutta l’umanità, è la stessa in cui operano alcuni tra gli artisti contemporanei più attenti al rapporto tra oblio e ricordo, tra memoria e presente, tra cui Christian Boltanski. I suoi Regards e i suoi Monuments sostituiscono alla memoria ufficiale delle piazze lo sgranarsi di foto senza nome, che chiamano a riconoscere un legame di appartenenza, a farsi custodi di ciò che svanisce, del silenzio in cui si deposita la storia.

Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
il mio verbo è al presente.
questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.

Torniamo a leggere la poesia di Questo muro da cui è iniziato il nostro intervento: «ero ma sono». Questo «ma» ne richiama altri: «nulla è sicuro, ma scrivi» con cui si conclude Traducendo Brecht; «Ma l’acqua buia oltre l’avvenire, / il lago fermo […] io l’ho saputo dire» (Secondo riassunto); «non è il caso di disperarsene, / figlia mia, ma di saperlo» (Gli alberi), e anche, con simile valenza, «Eppure / «la pietra spregiata sarà scelta dai costruttori» (Il Teatro di Asolo). Sono vettori di una forza contraria alla corrente che trascina verso la negatività. La tenacia di questo atteggiamento di resistenza, che nasce da una lucida coscienza del reale, è stata ereditata, tra i poeti contemporanei, da Fabio Pusterla: pensiamo all’armadillo, alla libellula e agli altri suoi animali-guida, fragili portatori di una forza che mantiene la rotta verso la vita, indicando, anche in condizioni avverse, una direzione di salvezza.

Come abbiamo visto, per l’eredità che ha ricevuto e il compito che si è assunto, Fortini non può abbandonarsi alla disperazione, né concedersi la fuga in una qualche illusione o nella roccaforte dell’ideologia. Le sue armi servono per agire nel presente, per continuare con le parole la lotta che risponde agli «occhi morti che hai visti vivi» (170), e a quelli che cercano una verità. Per questo le sue parole vogliono essere «legna e carbone, calore futuro» (149), riserva di bellezza e di senso, per l’inverno glaciale che aspetta le generazioni a venire. Questa lotta che Fortini concepisce come la dimensione stessa della sua scrittura e della sua possibilità di essere nel presente, a un certo punto del suo percorso va verso l’abbattimento della trincea che lo rende, come scriveva nella lettera al padre, «un letterato». A partire da Questo muro, inizia ad affiorare una tensione verso l’oltrepassamento del proprio io, che si farà sempre più esplicita in Composita solvantur. Questa fase coincide con quella che è stata riconosciuta come la maturità poetica di Fortini, il suo più alto lascito in poesia (De Angelis e Pagnanelli attingono da questo humus). È il ritrovamento di un’altra postura, di un altro modo di essere presenti a se stessi: deponendo le difese, facendo in sé uno spazio che accoglie: «Il verbo al presente porta tutto il mondo / […] Il verbo al presente mi permette di scomparire» (350), scrive in una sequenza de Il falso vecchio. Questo presente a cui Fortini aderisce e in cui riconosce, come abbiamo letto nella poesia da cui è tratto il titolo di questo intervento, il suo «verbo», ossia la sua possibilità di avere una parola creatrice, che agisce nella realtà, è un presente atemporale, in cui confluisce tutto il passato e sono raccolti i semi del futuro. Vediamo che cosa significa per Fortini questa possibilità di scomparire e dissolversi a cui giunge.

1. È la riscoperta, con l’avanzare degli anni, di una carica vitale (per questo può definirsi «falso vecchio»), attraverso il dialogo con una parte sepolta di sé che riemerge con la sua spontanea adesione al principio della vita – in questo senso il bambino che «parlò al vecchio come un amico» raccontandogli «come una favola» la sua esistenza (358) ha una funzione per certi aspetti simile a quella del «custode»: è la voce di questa forza positiva, di conservazione della vita, che si fa presente in lui: «Sono contento di essere ancora vivo» (356). Il bambino che si palesa alla fine della sequenza de Il falso vecchio, è probabilmente quel dio fanciullo «a cui ciascun uomo viene affidato in tutela al momento della nascita», Genius di cui parla Agamben in un suo omonimo saggio,12 riconoscendolo come il dio «più intimo e proprio» a cui «bisogna accondiscendere e abbandonarsi» e, insieme, «la personalizzazione di ciò che, in noi, ci supera ed eccede. “Genius è la nostra vita, in quanto essa non fu da noi originata, ma ci ha dato origine”». Genius è ciò che «impedisce di chiuderci in una identità sostanziale, […] spezza la pretesa di Io di bastare a se stesso. […] Genius non è solo spiritualità […] Tutto l’impersonale in noi è geniale, geniale è innanzitutto la forza che spinge il sangue nelle nostre vene o ci fa sprofondare nel sonno […] È Genius che oscuramente presentiamo nell’intimità della nostra vita fisiologica, là dove il più proprio è il più estraneo e impersonale, il più vicino il più remoto e impadroneggiabile».

2. «Scomparire» comporta l’attenuarsi di quello stato di alta sorveglianza che gli appartiene, per lasciare che la realtà entri oltre il suo io, dalle fratture e dagli interstizi dell’intelletto: «Nello spazio dove non esisto rema il barcaiolo» (347); «L’unità dell’intelletto non è mai esistita» (373); «Di chi sono le parole che dico?» (357), si chiede in uno di questi attimi di spossessamento.

3. Questa condizione permette a Fortini di percepire la storia da dentro, come una presenza-spirito che può ascoltare la voce nascosta nei giornali, tra i collage di notizie, dare corpo a fatti lontani nello spazio e nel tempo, intrecciandoli e sovrapponendoli. Ciò è possibile a partire da una prospettiva ultima, quasi da spettro: «Se i morti vedessero, vedrebbero come me» (321); «i rumori più piccoli si posano dentro i più grandi / poi attraverso i viventi vanno via» (348); «Di noi spiriti curiosi in ascolto / prima del sonno parleranno» (335).

4. Sparire significa per Fortini anche raggiungere uno stato di difesa ancora più forte e incrollabile di quello che poteva offrirgli l’io e l’intelletto con i suoi baluardi. È infatti da questa condizione che lo rende come postumo alla propria esistenza, da questa presenza che ha dimesso ogni confine, che può affermare: «a me più nulla può fare male» (321), così come ripeterà, con la certezza ultimativa di un’epigrafe, in Sopra questa pietra…: «Non può vedermi più nessuno qui, nessuno / mi farà male mai più» (552).

5. È a partire da questa condizione di dissolvenza che Fortini può «entrare nella voce di Brecht», come ha detto Gualtiero De Santi nell’intervento precedente, e sentire la traduzione come «voce che risuona dentro un’altra voce».

Questo movimento di abbandono della centralità dell’io si manifesta in Questo muro, ma ancora attraverso la volontà, come conseguenza di una consapevolezza sempre più nitida e perentoria: «Voglio sapere e so che l’unica forza / è la gioia brevissima / la certezza sensibile che viene dopo tutto» (355). È nel suo ultimo libro, Composita solvantur, che inizia un processo di trasformazione che porta la natura dentro a quei confini prima così presidiati e difesi. La certezza con cui Fortini sembra ribadirli ad apertura del libro, è in realtà la conferma di ciò che è destinato ad abbattersi: «di questo sono certo e fermo: // i globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me» (498). Il fronte della natura infatti avanzerà, rompendo le ultime resistenze del suo io, che si lascia invadere, come un rudere (così nella poesia Le piccole piante…, dove riconosce infine «vinte le innumerevoli armate che mi difendono»). In consonanza con l’ultima stagione di Carlo Betocchi, poeta per altri aspetti a lui lontanissimo, Fortini raggiunge una visione in cui ogni cosa è ricondotta al suo principio biologico, comune alla materia vivente. Da questo superamento della prospettiva antropocentrica può riconoscere «l’intelletto delle erbe e il nostro» (503), e affermare che «La profondità dei fiumi / è il luogo dell’intelligenza» (558). È così che ci appare Fortini nella postura più umile che abbia mai raggiunto, seduto sulle mattonelle al sole, ritrarsi per il suo settantacinquesimo compleanno, come una somma di frammenti del mondo naturale e animale: «Sei quel che allora un giovane non vide: / lo spruzzo del delfino, la dritta sterna bianca, / questa ira ostinata che ti stanca, / la gabbianella minuta che ride» (522). Questo completo mutamento di prospettiva, è avvenuto a partire dal suo sguardo che ha riconosciuto nella natura la possibilità di connettersi con una verità. Così, guardando le formiche che «nella stanza dove tutto è ordinato» «si agitano, avvisate / dei mutamenti celesti» (506), può accedere a una forma di percezione arcaica, di sapienza originaria, e affondare nel passato o proiettarsi in un futuro senza tempo, come l’«antenato che sono o divengo». È da questo avvertimento della natura come depositaria di verità, che Fortini può arrivare ad affidare lo sguardo direttamente a lei: «l’erba sporcata / li guarda passare pazienti» (483).

Quella trasformazione a lungo attesa, così centrale nella poetica di Fortini,13 sembra avvenire nelle ultime pagine di Composita, attraverso un rituale mistico e infantile, che porta a «ruotare su se stessi» (557), aderendo al movimento degli atomi e dei corpi celesti. Questo abbandono del controllo di sé condotto fino a «perdere i sentimenti e cadere», lo riconduce nella stessa postura in cui lo avevamo trovato nel suo settantacinquesimo compleanno: a terra, in contatto autentico con la vita. È qui che i suoi occhi possono vedere «la gioia» e «il vero per pochi attimi»: nel cortocircuito che si crea dall’incontro con lo sguardo degli animali, custodi del mistero della vita. Fortini che ha sempre esercitato lo sguardo come strumento conoscitivo, scopre così che la verità più che nel vedere sta nell’essere visti. Facendosi insieme Lazzaro e Messia può allora dire a se stesso: «Alzati e cammina», risvegliandosi in un’altra possibilità di esistenza.

La più alta poesia di Fortini è in questa capacità di aprirsi oltre l’io mantenendo insieme il proprio compito. L’appello con cui si conclude Composita solvantur («Proteggete le nostre verità») è pronunciato guardando i due ragazzi che gli camminano accanto, attraversando lo stesso vuoto del presente con gesti che, nella loro naturalezza, sembrano però lo specchio di due diverse inquietudini: quella del vecchio poeta in cui si agita ancora una ricerca – «rivolgo col bastone le foglie dei viali» – e quella dei due giovani in cui traspare una rabbia impotente, che si riversa sulle cose senza trovare sbocco («scalciano una bottiglia»). Sono i «giovani infelici» che Pasolini ha descritto nelle sue Lettere luterane. Anche Fortini li conosce bene, la sua vocazione pedagogica lo ha portato a camminare accanto a loro, a tenerli sempre nel suo pensiero. Sa come, travolti dagli eventi, «Hanno portato le tempie / al colpo di martello / la vena all’ago / la mente al niente» (Italia 1977-1993), sa quale «complicità» (167) lo lega alla loro condizione di tristezza. Ma sa anche come il passaggio dell’eredità, avvenga a volte anche oltre la coscienza, come continuità e perpetuazione del bene: «Ma un giovane anche per te senza saperlo ora scrive» (170). Per questo non può che riconoscere il suo cammino condiviso con loro, come nel verso di Machado in epigrafe a una poesia di Composita: «–Tu conmigo, rapaz? – Contigo, viejo» («Tu con me, ragazzaccio? – con te, vecchio») (541). Verso la fine di questo libro Fortini raggiunge, in compagnia del «custode», «l’esito, il residuo» di tutta la sua esistenza, e lo mostra, inerme, con una frase che ha il valore di un palmo aperto: «ho inteso soltanto la vita che mi era nemica / e non l’amore, che esiste». È da questa certezza che, di fronte al desiderio di sparizione come distruzione e disfacimento che appartiene ai giovani e al tempo presente, può condensare il proprio lascito:

Ma voi che altro più non volete
se non sparire e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.

Lo sguardo di Fortini è arrivato a riconoscere questa particella indistruttibile: è il principio della vita, a cui obbediamo insieme alla natura e all’universo. Basta questo minimo di bene a dare senso e significato a tutto, anche al male e alle tragedie della storia. Non è possibile dissolversi: questo attimo di bene resta, con la sua carica generativa. Non è possibile “ritirarsi”, da questo movimento di perpetuazione della vita. Il sì di Fortini è saldo e fermo. Radicato nella pienezza dei gesti quotidiani, che il suo Genius gli detta, come dopo La salita («pensa al ritorno per cena»), o nei Consigli con cui dona ai posteri il suo lascito, indicando una possibilità di resistenza: «mangiate ai tavoli delle pergole. / Meditate la storia / che diventa e la vittoria / che vi disperde entro di sé. Bevete / quel che vi piace e così via. Fermate l’auto / sulle costiere da dove si vede lo spazio».

Note

1 T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica, trad. it. di V. Di Giuro e A. Orbetello, Milano, Bompiani, 1985, pp. 67-73: p. 69.

2 Incontro con Milo De Angelis, a cura di M. Gezzi, gennaio 2006, in M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di I. Vicentini, Milano, La Vita Felice, 2008, pp. 122-123.

3 Ivi, p. 122.

4 Colloquio estivo con Claudia Crocco, in M. De Angelis, La parola data. Interviste 2008-2016, Milano, Mimesis Edizioni, 2017, pp. 71-98: pp. 84-85. L’intervista, uscita precedentemente sulla rivista «Semicerchio» (n. 2, dicembre 2014), è leggibile anche su «Le parole e le cose», 28/5/2015.

5 F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, p. 328. Tutte le citazioni delle poesie di Fortini fanno riferimento a questa edizione.

6 T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale, cit., p. 69.

7 F. Fortini, Tutte le poesie, cit., p. 581.

8 F. Fortini, Poetica in nuce [1962], in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 962-963: p. 962.

9 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1264-1269.

10 Ivi, p. 1755.

11 U. Stefani, Ricordarsi del futuro, in «Bresciaoggi», 26 febbraio 1986, in F. Fortini, Un dialogo ininterrotto: interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 411-414: p. 413.

12 G. Agamben, Genius, Roma, Nottetempo, 2004.

13 Vd. L. Lenzini, Introduzione, in F. Fortini, Tutte le poesie, cit., pp. V-XXXII: p. X.