Pensando il 25 aprile
ovvero memorie civili
Mavì De Filippis

La mia vita passata mi è sempre presente fin nei particolari, chiara, direi attuale, almeno nella memoria, senza rimpianti. Mi tiene compagnia, talvolta con uno strano effetto, tra un passato/presente e un presente dell’oggi.

Per dire anche ad altri quanto ho vissuto fino a oggi ho scritto Copé hai il nonoso, una sorta di autobiografia, un racconto che dà spazio alla primainfanzia ma non solo. Il racconto si fa più difficile, meno chiaro se si parla di tempi recenti, una specie di ritrosia, di imbarazzo. Qualcosa ho scritto anche dopo: un ricordo di Roberto Calasso, qualche poesiola per ricorrenze, un ricordo di Ruth Leiser a venti anni dalla morte.

Da molto le pagine autobiografiche non le rileggo eppure ho la sensazione che vi si dica poco della mia passione per la Politica, per ciò che attiene alla Cosa Pubblica.

Fin da ragazzina sceglievo di schierarmi con le scelte di mia madre, per il suo attaccamento alla Francia, alla sinistra francese nel dopo guerra, avevo simpatia e affetto per i suoi amici francesi e in particolare per quel giovane prete che diceva di essere un prete comunisto. Nel suo italiano approssimativo pensava che il maschile non potesse terminare in “a”! Era, almeno in Francia, l’epoca dei preti operai. Mia madre, per quanto poteva, dava un’impronta “francese” alla mia educazione e formazione.

Poi col crescere continuavo a fare scelte di campo, cercando la coerenza e così per esempio discutevo animatamente con la mia insegnante delle medie, la moglie di Giorgio Candeloro, di Riforma e Controriforma. Ero convinta che la fede protestante fosse decisamente più coerente con il cristianesimo delle origini e a lei, comunista e napoletana che si dichiarava più legata al protestantesimo, obbiettavo che lei non poteva che essere cattolica. Una fede cattolica che consentiva accomodamenti personali di comodo ben lontani dal rigore protestante. Solo per fare un esempio partecipare alla messa solo per quella parte che rendeva la messa “buona” per il precetto.

Via via che crescevo le scelte si rendevano sempre più necessarie non solo perché dovevo votare. Persone come Ugo La Malfa e i suoi dibattiti con Ingrao e Amendola sono stati per me una scuola fondamentale. Sono stata fortunata a conoscere e frequentare queste persone. Certamente un ruolo fondamentale l’ha avuto Guido Calogero e sua moglie, Maria Comandini. Fra i tanti mi resta da ricordare la figura di Stefano Rodotà. Rossana Rossanda. E, certo non ultimo, Franco Fortini e sua moglie Ruth.

È per tutti questi ricordi, per la memoria che mi lega alle persone citate, a mia madre Franca che mi ha insegnato a essere una cittadina consapevole e non una suddita, che qui di seguito esemplifico questa mia passione politica con pochi esempi che mi paiono particolarmente significativi.

Mi resta ancora da dire che la ricchezza umana, culturale e civile di queste persone rende così sgradevole l’ascolto dei dibattiti politici televisivi. Così povero e squallido è il livello politico attuale, che con fatica non mi ritraggo in me stessa e cerco di conservare un senso alla parola Stato.

Non posso chiudere questa confessione senza esplicitare un interrogativo che mi assilla: come siamo finiti così in basso? Dove l’errore, se errore c’è stato? Dove sono finiti gli insegnamenti di tanti uomini e donne che hanno fatto politica colta? Come mai una persona come me interessata da sempre ai temi della politica oggi si ritrae? Lungo e forse pretenzioso dare una qualche risposta anche perché il problema non è solo italiano. Forse la comunità ha perso senso. Detto banalmente ognuno pensa avidamente più o meno a se stesso o al massimo al bene della famiglia che così viene assomigliando alle famiglie mafiose. L’altro è un estraneo, o forse addirittura un nemico da cui difendersi e oggi da più parti si soffia sul fuoco. Allora perché occuparsi ancora di politica?

Penso a tempi lontani, difficili e però coraggiosi, scelgo fra i miei ricordi per condividerli con chi li leggerà, senza alcuna pretesa di interpretarli.

***

Concetto Marchesi non giurò. Durante il primo anno di liceo al Tasso venne come supplente una giovane insegnante di nome Olga, sorella di Agata Apicella, anche lei insegnante e madre di Nanni Moretti. Olga era una brava insegnante, allieva di Natalino Sapegno, aveva capelli scuri e corti, dai tratti spigolosi, veloce. Un giorno venne in classe e durante l’ora di latino tirò fuori dalla cartella dei fogli, erano la lettera che Concetto Marchesi, anni prima, aveva scritto per spiegare perché non aderiva al fascismo e non accettava di giurargli fedeltà. In quel giorno Concetto Marchesi era morto e la nostra insegnante, per farci capire la sua grandezza, non solo come latinista, ci lesse questo testo.

Non tutta la classe apprezzò e approvò la lettura. Alcuni alunni erano apertamente fascisti, primo fra tutti, Borghese, figlio del Borghese della X Mas e del tentato golpe. Il mio compagno era assai fiero di suo padre e della sua stirpe.

Via Lovanio: referendum Monarchia o Repubblica. Mia madre era certamente per la Repubblica, mia nonna credo fosse incerta e forse per la Monarchia. Io ero piccola, ma per le idee ero già schierata con mia madre.

Quel giorno uscimmo di casa tutte e tre insieme, con il senso di andare a fare qualcosa di importante, di andare a compiere un dovere. Da casa a via Lovanio la distanza non era molta. Una volta giunti mia madre e mia nonna entrarono una alla volta, io aspettavo fuori. La città a quell’ora del mattino era deserta, camminando notavo qua e là fili spinati, edifici senza finestre abitati, si diceva, da sfollati.

Il pane per Felicioni. Di tanto in tanto uscivo con mia madre per qualcosa di misterioso, per il quale occorreva prudenza e astuzia, lo percepivo anche se non mi si diceva nulla. Mia madre in borsa aveva una pagnotta. Attraversato viale Parioli si prendevano delle stradine e non dovevano mai essere le stesse, portavano comunque dopo giri rigiri sempre nello stesso posto, un portone. Lì in qualche modo questo signor Felicioni riceveva il suo pane.

L’attentato a Palmiro Togliatti. Ero in vacanza a Piancastagnaio nell’Amiata in provincia di Siena. Nella piazza all’entrata del paese, nei giardinetti lì vicini gruppi opposti si fronteggiavano. La tensione era alta. Era la prima volta che mi trovavo in un clima simile. La gente correva, si rincorreva, gridava. Non sapevo cosa fosse accaduto e perché i comunisti fossero così preoccupati.

Si seppe dell’attentato a Togliatti e che lui poco dopo cercò di calmare gli animi affinché non si arrivasse alla guerra civile. Lì a Piancastagnaio si fu proprio vicini.

Le camionette nel secondo dopo guerra. A Roma, ma anche nel resto d’Italia, i mezzi di trasporto scarseggiavano, alcuni quartieri erano serviti meglio. Non di rado al posto di autobus ATAC, passavano le Camionette militari ricoperte da un telo, il conducente o un altro commilitone tirava fuori una scala di legno con cui far salire le persone che stavano aspettando e poi queste persone si andavano a sedere su panche di legno poste lungo il camion. I bambini si divertivano, gli adulti molto meno.

Il filo spinato. Era normale anche a guerra finita vedere spesso in tanti luoghi di Roma e di paesini un residuo, una sorta di “protezione” di un qualche luogo, che poteva essere una casa senza porte e finestre in cui la gente andava a dormire. Così mi pare di ricordare ,ma quello che è certo che il filo spinato era qualcosa di consueto, quasi famigliare a cui non prestavo troppa attenzione.

La tessera annonaria. Era un cartoncino leggero grigiognola e serviva per acquisto di alimenti, comunque razionati. Mi ricordo che andavo dal pizzignolo Ranucci, vicino a casa a prendere quanto era concesso. Il venerdì c’era, esposta fuori, una specie di vasca piena d’acqua con il baccalà a mollo. Mia nonna poi per patate e uova andava lungo la ferrovia, credo Roma nord, verso Viterbo. Qualche anno dopo veniva a casa un uomo o una donna con una valigia in cui portava uova, burro e qualche altra cosa.

Il mercato degli americani. Quando sono sbarcati gli americani, in qualche banco del mercato c’erano le Life Savers, ottime caramelle col buco di tanti colori, poi c’era il sapone disinfettante al lisoformio e le prime calze di nailon.

La mancanza d’acqua nelle case obbligava, soprattutto mia madre, ad andare a prenderla a piazza Digione con le pentole legate con pezzi della corda delle persiane. Così poteva portare due pentole per spalla.

Comizi nelle piazze. Le campagne elettorali si tenevano spesso nelle piazze, talvolta nelle sale cinimatografiche, poco o nullo il dibattito. Il rappresentante di un partito che si prentava per essere eletto spiegava a chi lo stava ascoltando i motivi buoni per dare a lui e al suo partito il voto.

Personalmente ne ricordo uno in particolare: quello a piazza della Cancelleria, vicino a via Vittorio Emanuele. Il protagonista era Ugo La Malfa, che polemizzava a distanza con Malagodi.

5 marzo 1953. Quell’anno a Roma nevicò, io da poco avevo compiuto 12 anni. Quella mattina uscii per andare dal giornalaio in fondo a via san Filippo, quasi all’angolo con viale Romania. Di neve per terra ce n’era parecchia e l’eccezionalità mi tendeva allegra come tutti gli altri bambini. Vicino all’edicola un gruppetto di persone parlava animatamente e sentii esclamare: «Addavvenì Baffone, e invece se n’è andato.» Commentavano così la notizia del giorno, la morte di Stalin. L’origine di «Addavvenì Baffone» è napoletana e serve a esprimere l’augurio che qualcosa o qualcuno stia per portare buone nuove. I romani dell’edicola esprimevano il rammarico che Baffone non fosse arrivato.