Paolo Desogus,
Il Gramsci di Pasolini
Luca Mozzachiodi

Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, a cura di Paolo Desogus, Venezia, Marsilio, 2022.

Delle molte iniziative culturali ed editoriali legate al centenario pasoliniano, l’edizione di questo quaderno del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia ci pare una delle più meritorie. La ragione è senz’altro nella scelta del tema: il rapporto con Gramsci in relazione ai tre grandi argomenti riportati nel sottotitolo. Certo si dirà che il legame tra il poliedrico autore e il pensatore comunista sardo non è una novità e anzi, come ci ricordano saggi ricostruttivi della genealogia del pensiero pasoliniano, quali quelli di Voza e Desogus, è a più riprese e in diversi contesti persino rivendicato da Pasolini stesso.

La novità è piuttosto nella risolutezza e vastità di possibili applicazioni con cui Desogus e gli altri studiosi e studiose sostengono la validità di questo nesso. Se da diverso tempo eravamo abituati a una lettura in chiave quasi biopolitica di Pasolini, con la sua attività, soprattutto registica in verità, concepita genericamente come discorso critico e rappresentazione di corpi contro un potere orizzontale e non gerarchico, in questo libro si difende ampiamente, pur senza disconoscere i meriti di questa seconda lettura (come è evidente ad esempio nei saggi di analisi di singole opere a firma di Locantore, De Laude e Mastrodonato), una concezione socialmente stratificata, storicamente connotata e dialettica dei conflitti cui Pasolini ha preso parte e che costituirono lo stesso terreno di nascita della sua opera.

Cade infine, e questo sì invece non aveva nessun merito intrinseco e doveva giustamente essere combattuto con le armi del rigore storico filologico e della critica, il fantoccio di un Pasolini idealmente civico, genericamente umanitario, buono per un non meglio imprecisato “impegno” e in definitiva, in nome della verità poetica, superiore a qualsiasi tipo di contrapposizione e conflitto storico, destino che, peraltro, negli ultimi anni rischia di condividere proprio con un Gramsci spoliticizzato e annacquato idealisticamente.

Due comunisti soprattutto dunque: questa è una tesi non scritta ma implicitamente circolante in tutti i saggi, peraltro dettagliatamente argomentata e discussa nell’ampia introduzione di Paolo Desogus e poi negli studi di due gramscisti di altissimo profilo, come Francesco Giasi e Angelo d’Orsi. Il curatore del volume imposta una vera e propria ricognizione cronologica delle letture gramsciane di Pasolini, ricollocando i primi contatti con l’opera di Gramsci al periodo di militanza in sezione e delle lotte a fianco dei braccianti friulani e valorizzando, rispetto al concetto di nazional-popolare che sarà, secondo Desogus, poco chiaro a Pasolini e comunque di acquisizione più tarda; ma un bel saggio sul nesso tra estetica formalista e teoria del nazional-popolare come poli dialetticamente compresenti in Pasolini è quello di Gian Luca Picconi -, la nozione di regresso e di connessione sentimentale:

Nei termini della “connessione sentimentale” Pasolini riconosce in se stesso un’irresistibile tensione verso il “sentire” verso le passioni elementari del popolo senza però giungere a una sintesi […]. E pertanto la dialettica che secondo Gramsci la dialettica che secondo Gramsci descrive “il passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa dal sentire al comprendere, al sapere” si interrompe. (p. 20)

Le citazioni rimandano naturalmente alla dialettica di comprensione e sentimento descritta nei Quaderni del carcere, ma se è vero che una nota sentimentale, romantica e antidialettica permane sempre in Pasolini, è pur anche vero che di questa dialettica si ricorderà soprattutto nei suoi lavori di etnologia e di studio della poesia popolare (come dimostra il saggio di Marco Gatto), uscendo dall’impasse tra a-storicità della poesia, pre-storicità del folklore e storicismo delle contesto a cui lo avrebbe potuto condurre un troppo fedele ossequio alle sue premesse crociane.

Che Gramsci, o anzi l’«operazione Gramsci» secondo una felicissima espressione di D’Orsi e Chiarotto,1 sia stato anche un vaccino anti Croce, parte di una complessa e accurata strategia del PCI per la riallocazione al proprio fianco di un alto numero di intellettuali italiani necessario al rafforzamento del «partito nuovo», è evidente e in una certa misura lo stesso Gramsci dovette pensarsi così, se si scorrono le pagine dei Quaderni su Croce che sono numerosissime e tra le meglio organizzate. Non si deve però trascurare d’altra parte l’importanza di Gramsci anche per quell’intellettuale di tipo nuovo cresciuto direttamente in seno al partito che sono i quadri militanti e che saranno poi praticamente tutti i giovani del partito nati dalla metà degli anni Venti alla metà dei Cinquanta. I saggi di Giasi e D’Orsi ricostruiscono con dovizia di documenti e precisione le diverse fasi della assimilazione di Gramsci quale colonna fondante della teoria e della prassi comunista, così come le pubblicazioni e i dibattiti che animarono i decenni di attività di Pasolini.

Il libro però non insiste solo sulla connessione tra i due ma anche, a nostro avviso correttamente, su alcune differenze sostanziali messe ampiamente in luce da Voza e Desogus (abbiamo detto adialetticità, ma potremo aggiungere anche interesse estetizzante per il sottoproletariato, concezione vitalistica e individualistica della creazione artistica e naturalmente in una certa misura idealizzazione del passato) che danno qualche ragione a interpretazioni più “foucaultiane”. Del resto un fine intellettuale quale Pasolini era troppo acuto per autoingannarsi circa la sua reale posizione e dunque preferì, e riuscì anche mirabilmente, farne materia creativa. Le Ceneri di Gramsci sono al centro dell’analisi di Michela Mastrodonato che le commenta dettagliatamente, ma riecheggiano in tutti gli scritti soprattutto i celebri versi di dichiarazione della scissione tra il poeta e l’eredità gramsciana:

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza […].2

Tuttavia Gramsci rimane un riferimento anche quando, più avanti, Pasolini guarderà di nuovo con occhio critico e poetico-etnologico o poetico-glottologico al proletariato italiano e alla sua evoluzione sociale: ne sono esempio le Nuove questioni linguistiche, che appaiono non a caso su «Rinascita» e che sono indagate nel contributo di Stefano Gensini. Altrettanto rilevante è il concetto coevo di cinéma, frammento dell’unità minima della lingua scritta della realtà: il cinema. Pasolini sosteneva che i cinémi non si potessero scegliere e che fossero dati, ma la loro preesistenza allo sguardo della macchina cinematografica che li trasforma nella lingua del cinema-realtà li vincola alla loro storicità: come non pensare allora che Gramsci ricorre anche nelle atmosfere libertarie e fiabesche della Trilogia della vita e in Le 120 giornate di Sodoma se si sono scelte certe inquadrature, certi soggetti e non altri?

Pasolini rimane sempre in qualche modo incarnazione di una sintesi incompiuta tra formalismo e storicismo, la sua incompiutezza la rende adialettica; ecco perché negli elenchi dei maestri abbiamo sempre Gramsci (meno spesso Marx) e qualcuno (Contini, Longhi, Spitzer, Croce) o viceversa e mai, ad esempio, un Longhi o un Contini letti gramscianamente: è di nuovo la compresenza di squisitezza e nazional-popolare additata da Picconi. Alcuni saggi (De Laude, Durante, Mastrodonato, Locantore) provano che dei momenti di sintesi sono possibili e sono stati anzi ricercati da Pasolini stesso ma, a nostro avviso, non è un caso che dopo il tentativo significativo ma ambiguo di Ragazzi di vita e quello più deciso di Una vita violenta e dei film romani, il progetto si svolga (con un molteplice stratificarsi di abbozzi e ripensamenti riccamente commentato da Silvia De Laude) in un’opera come La Divina Mimesis, destinata all’incompiutezza.

Il Gramsci di Pasolini, insomma, è un libro che, lungi da ogni facile mitizzazione come da ogni aridità puramente accademicistica, mira a dare uno strumento di conoscenza di questi molteplici nessi e contraddizioni e ad arricchire ulteriori studi, anche grazie all’oculata scelta e composizione che affianca a studiosi affermati di Pasolini e Gramsci quali De Laude, Desogus, d’Orzs, Giasi, Voza, e altri anche autrici e autori relativamente più giovani o provenienti da altri studi come Gatto, Gensini, Mastodonato, Picconi.

Una sezione conclusiva è dedicata anche alle «Incidenze poetiche» e raccoglie i contributi di Gianni D’Elia e Andre Gibellini. Non possiamo che salutare con soddisfazione una simile iniziativa per ciò che significa: ritenere che sia importante riconoscere anche l’attività e produttività dell’eredità pasoliniana sulla letteratura contemporanea e, per una volta, su quanto si viene scrivendo e non solo su quanto si è scritto (è una pratica che bisognerebbe raccomandare a tutte le pubblicazioni miscellanee su autori importanti). Tuttavia questa ci sembra anche la sezione più problematica del libro: perché, ci si potrebbe chiedere, i poeti sì e i narratori, i saggisti, i registi o i drammaturghi no? Non hanno – cito alla rinfusa ma da esempi lampanti – Emma Dante, Pietro Marcello, Marco Baliani, Giorgio Vasta, Fabio Condemi, qualcosa da dire su se stessi, Pasolini e Gramsci? Oppure ancora, perché questi poeti sì e altri no? Alla lettura del resto i saggi si rivelano interessanti e ben scritti ma decisamente più deboli, divagatori e d’occasione dei loro precedenti. Inoltre nell’ottica di una maggiore integrazione sarebbe forse stato più in linea con lo spirito generale del volume mischiarli con gli altri e non collocarli in coda dove rischiano di dare l’effetto di un finale “calo di tensione”. Potrebbe sembrare un puntiglio di fronte a un volume tanto ricco, o anche una questione di personali preferenze, ma anche chi apprezza Desogus più di Gibellini non imputa a quest’ultimo la colpa di non essere uno studioso di Pasolini di professione; importa che D’Elia sia il buon poeta che è, e non che prenda il posto di qualcun altro alla Fondazione Gramsci, ma queste sono ovvietà. Meno ovvio mi sembra che destinare una sezione speciale alla poesia (e solo alla poesia) e al suo interno accogliere contributi dissonanti, d’occasione e fondati su presupposti personalistici possa rischiare di essere una riaffermazione inconscia di quella separatezza e specialità della poesia che si è così acutamente diagnosticata in Pasolini («io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale»3 è un refrain fin troppo memorizzato da tanti scrittori italiani). Non si vorrebbe, insomma, che dopo tanto Gramsci l’ultima parola l’avesse proprio Croce, ma forse qui c’è qualche nesso che torna a riproporsi, un nucleo ideologico attivo e sedimentato così a fondo che non possiamo pensare di non esserne condizionati. Abbiamo bisogno di leggere e studiare questo libro anche oltre gli stretti interessi specialistici: dare credito alla poesia e usare la poesia e la scrittura come mezzo per rappresentare i conflitti sociali, come del resto fanno benissimo D’Elia e Gibellini, comporta dei rischi e lo sapeva anche Pasolini, che perse la vita facendolo; ma alla fine è sempre un rischio che vale la pena correre e che testimonia la complessità e larghezza di intenti con cui si è voluto porre mano a quello che è molto più di un quaderno di studi per un centenario, e che sarà insostituibile, per questo, non solo quanto al poeta delle Ceneri.

Note

1 Cfr. A. D’Orsi, F. Chiarotto, Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, Milano, Mondadori, 2011.

2 P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Id., Tutte le poesie, vol. 1, Milano, Mondadori, 2003, p. 820.

3 P.P. Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1974.