Nicola Lagioia,
La ferocia
Alessandro Cadoni

Nicola Lagioia, La ferocia, Torino, Einaudi, 2014.

All’uscita di La ferocia di Nicola Lagioia, quasi un anno fa, avevo scritto in una breve recensione (sulla «Nuova Sardegna», 3 novembre 2014) che si trattava d’un romanzo importante, sfaccettato e preciso: destinato, probabilmente, a restare. Ripensandoci oggi, mi pare opportuno aggiungere qualche nota a quei ragionamenti, soffermandomi sulla sostanza letteraria del romanzo, magari prendendo piede da un discorso relativo, diciamo così, alla società letteraria. Se di quella scelta aggettivale ero, e resto, convinto, anche sull’altro fatto – quello della resistenza al tempo – forse ho indovinato: se è lecito fidarsi, in tal senso, del successo al Ninfeo di Villa Giulia. Mi rendo conto che parlare d’una possibile autorità del premio Strega schivando la coda di polemiche, spesso fatue, è cosa ardua. Ma forse ora, a qualche mese di distanza e ad animi meno caldi, si può nuovamente tentare di approssimarsi, pur brevemente, al problema.

Tant’è che, se l’argomento più in voga tra fine giugno e inizio luglio era quello della vittoria d’un ennesimo volume Einaudi, per di più in giorni in cui spirava l’aria, invero pesantuccia e ominosa, dell’acquisizione di RCS da parte di Mondadori; e ancora, che tale vittoria andasse a scapito di Elena Ferrante, che forse un premio l’avrebbe meritato a prescindere, anche solo per l’interesse che la sua narrativa suscita nelle università statunitensi, o magari per il tifo serrato d’un drappello di fans importanti, e non già per un giudizio serio e pacato sulla gran mole del suo ciclo narrativo: insomma, con questi argomenti, non proprio inoppugnabili, si correva il rischio di obliterare il discorso qualitativo sul romanzo di Nicola Lagioia, dimenticando pure l’accoglienza critica, nella media molto buona, che ha avuto all’uscita, molti mesi prima della vittoria sciagurata, semmai agognata. Ma torno alla domanda che mi son posto poco sopra, convinto che questo possa essere un buono spazio per qualche puntualizzazione, ovvia, magari, ma forse non sino in fondo. Chi vince lo Strega si consegna alla storia letteraria? Se ci pensiamo, pochi tra i grandi narratori del secondo Novecento – che son poi una compagnia non così picciola – l’hanno mancato: nominiamo qui solo alcuni, grandissimi, come Morante, Tomasi o Volponi (che bissa, addirittura: caso unico). E per buona pace dei secondi, o dei terzi, ci si consola – se mai fosse possibile – col fatto che non l’hanno mai vinto scrittori come Pasolini o Calvino, che pure si davano molto da fare nella caccia ai voti: per sé, il primo, per i suoi autori, da supremo e scafato editore qual era, il secondo; e neppure Gadda. Se poi ci affacciamo sul presente, vincitori come Siti o Magris dovrebbero tranquillizzarci, avvalendosi – e già da un pezzo – del lauro di piccoli classici della contemporaneità. Detto ciò, si può affermare che un’equivalenza dimostrabile tra Strega e grande (o anche buon) romanzo non è affatto scontata: va da sé che la resistenza al tempo non è scolpita in un albo dei vincitori, ma si avvale di una qualità sostanziale, d’un involucro che sappia proteggere la sostanza.

E dunque veniamo a Lagioia e alla Ferocia, per andare a cercare tale qualità, presentata da quella triade di aggettivi con cui ho esordito; là dove essa presta già gli argomenti per un primo giudizio, affacciato sul magma di azioni e stile che modella la prosa. L’autore di Riportando tutto a casa, ora più che mai lontano da un politicamente corretto che non può che tradursi in un engagement zoppo, continua con questo romanzo un discorso che mi pare contribuisca a una ‘controstoria’ del presente. Certo, non è il primo – né sarà l’ultimo – ad affondare lo sguardo sugli scempi dell’Italia palazzinara: ma vi si addentra rischiarando fatti oscuri con una prosa nettissima e precisa – seppur carica di evidenze figurali –, offrendo in tal senso un contributo conoscitivo, un lume per la struttura opaca di trame economico-politiche, sociali e familiari. Ecco, in breve, personaggi e fatti di questo affresco che ha per protagonista la famiglia Salvemini. Vittorio, il patriarca, è un ricchissimo costruttore di Bari, un self-made man che si appoggia a una microfisica del potere amaramente realizzata. I suoi soldi – i suoi affari «con i signori dell’acciaio, vecchi satrapi dell’aristocrazia industriale che metteva nell’angolo raccontandogli una barzelletta e ritornando subito dopo sull’esigenza di abbassare i prezzi» (pp. 52-53) – son fatti su una consapevolezza iniziale: «che dietro i piani regolatori c’era la legge, e dietro quella (che loro consideravano la terra da sempre ferma sotto i piedi) non c’era nulla a parte un iniziale atto d’arbitrio» (p. 26); la moglie e due dei quattro figli, il primo e l’ultima, contribuiscono, per dirla alla grossa, alla pasta cromatica di apparenze e ipocrisia: a quell’immagine che una famiglia ricca deve dar di sé. I due di mezzo, Clara e Michele, sono invece gli outsider, quelli usciti male. C’è forse un personaggio un poco meno convincente, magari per una maggiore tendenza allo stereotipo: appunto che casca, però, se pensiamo a quanto lo stereotipo, il modello, incida sul comportamento, contribuendo a quell’ondata di irrealtà che travolge la realtà: tema, questo, corrispondente a una sottotraccia che scorre lungo tutto il romanzo. Si tratta di Ruggero, medico, il più grande dei fratelli, il più adulto nel cinico esercizio della ricchezza e nella difesa a oltranza del clan; correlativa di un’ancor più spiccata crisi di senso del reale è pure Gioia, la più piccola, poco più che adolescente, la cui figura assume, specie nel rapporto post mortem con la sorella, la funzione più significativa. Clara muore, pare suicida, nelle prime pagine: Gioia aprirà un profilo Twitter in cui interpreta il ruolo, diciamo così, del fantasma.

Clara muore nelle prime pagine, dunque: ma la sua immagine, fantasmatica appunto, «nuda e pallida, e ricoperta di sangue» (p. 7), persiste «come negativo»1 in tutto il romanzo: frastagliata e squassata da una serie di punti di vista ai quali s’attaglia lo sguardo del narratore. Sia nel punto di vista schizofrenico di Michele o in quello dei suoi numerosi amanti, Clara rivive la sua esistenza contraddittoria, avvinta in un rapporto – tenerissimo e violento – proprio con Michele: il quale, nel cercare di sbrogliare il mistero della sua morte, vince in qualche modo – rimanendo però ancorato ad un’ostinazione che si direbbe myskiniana – l’inerzia in cui si bloccava la tensione tra provenienza familiare e ipersensibilità psicologica. Ecco, Michele: un’adolescenza taciturna, un interesse per la filosofia e per la saggistica coltivati fuori dal codice scolastico, e dunque destinati ad acuirne l’isolamento; Clara, da sempre libera, liberissima, nel rapporto col proprio corpo: superficialmente promiscua, in realtà pure lei irriducibile al recinto della norma socio-familiare. Michele e Clara, dunque: due funzioni, mente e corpo, interscambiabili.

Dicevo della persistenza, pure analettica, di Clara dentro il romanzo, rifratta in diversi punti di vista, interamente filtrati dalla sintassi, precisa e insieme frastagliata, del narratore esterno. Michele emerge nel secondo dei tre macrocapitoli, «Divenni pazzo, con lunghi intervalli di orribile sanità mentale». Ed emerge esercitando sul narratore una pressione intensa, quasi nel tentativo di romperne la lente. È lui, in un ritorno al romanzesco appena tinto di giallo, a farsi carico di indagare sul suicidio, forse omicidio. Ecco, fondendo il proprio punto di vista in quello del personaggio Michele – eccentrico, ribelle –, il narratore porta alla luce, a tratti, un sottoromanzo, deviato da un punto di vista alternativo, folle se vogliamo, ma nel senso d’una lucida follia, sempre à la Dostoevskij (per non tacere il riferimento – credo esplicito – al per intervalla insaniae su cui si sviluppava la biografia di Lucrezio, nel titolo di capitolo citato). Un sottoromanzo che affiora, ad esempio, in certe pagine dove la ferocia – al pari di un amore purissimo e indicibile come quello tra fratello e sorella – è tradotta, allegoricamente, al piano animale:2 sia esempio la gatta smarrita di Michele, mite e dolcissima, messa alle strette dall’attacco di un ratto: «Il felino gli fu addosso. Affondò i denti nella dura pelle del collo. Mentre lottava sapeva, sapeva e ricordava al tempo stesso. Il topo squittiva disperatamente. Nella gola della gatta gorgogliò qualcosa di denso e profondo. Aveva trovato la vena. Era eccitata, elettrica. Lo sentì dare l’ultimo sussulto sotto i raggi della luna» (p. 400).

Nessuno, allora, può dirsi immune dalla ferocia: una categoria che Filippo La Porta, in una lettura interessante, ha fatto risalire all’universo concettuale di Simone Weil, che pare informare, in qualche modo, la scrittura di alcuni dei più interessanti narratori dei nostri giorni.3 Penso ancora, in tal senso, al personaggio di Gioia, (altra categoria weiliana, nel suo nome), e a quel passaggio mentale oscenamente contraddittorio in cui la coglie la morte violenta della sorella: «Sentiva crescere dentro di sé il potere, la grazia. Lo spirito della sorella morta riempiva tutti i vuoti» (p. 62, corsivo mio).

Nessuno, dicevo, può dirsi immune dalla ferocia: anche se c’è in Michele come uno spirito resiliente che lo ha tenuto lontano dal suo nucleo, dal suo mondo d’origine. E ora che, a questo mondo, è di nuovo attratto, come per inesorabile forza centripeta che risucchia tutto alla radice del male, al gorgo oscuro di una trazione tribale – quella feroce e familiare, appunto –, la resilienza agisce ancora: si perdonerà allora anche il fatto che questo calzante esempio di idiota contemporaneo smetta alla fine i suoi panni di intellettuale irrealizzato, di militare ridicolo e fallito (come fallita è stata la sua esperienza nell’esercito di leva), tornando a Bari, in famiglia, e improvvisandosi – in quello che sopra definivo un “ritorno” al romanzesco – detective. Roma, con i suoi impegni di lavoro e scrittura critica – tanto rapsodici quanto inconcludenti e precari – è abbandonata insieme a quella patina, diciamo così, modernista, da inetto. Ecco, Michele – tranne alcuni brevi frangenti, di «sanità mentale – è sempre stato estraneo alla ferocia. Ma in questo finale chiuso – che pure si finge aperto – la vede ora realizzata, la riconosce: e, ironia della sorte, essa è perfettamente coincidente alla scomparsa della metà di sé, Clara, che alla ferocia, in certo senso, lo immunizzava. Coincidente ancora, tale realizzazione, alla risoluzione di un mistero: «Dopo essersene stato nascosto tanto tempo, iniziò a prendere forma. A Michele sembrava finalmente di vederlo. Il futuro. Splendido e feroce come la bocca spalancata della tigre di cui aveva letto da ragazzo» (p. 405).

Note

1 P. 43: rubo, dove nel testo è riferita a un altro episodio, una delle molte, eppure misurate, metafore: laddove il metaforismo, in questo modo, concorre alla tessitura di questa prosa precisissima (si pensi anche al riferimento ai satrapi che ho riportato poco sopra).

2 «Lo sai qual è la disciplina che spiega meglio il nuovo secolo? […] L’etologia», p. 404.

3 Insieme a Lagioia Christian Raimo e il suo Peso della grazia, Einaudi, 2012: romanzo senz’altro meno riuscito ma ugualmente problematico. La recensione di La Porta è apparsa su Left del 4 novembre 2014 ed è leggibile in rete.