Stereotipi e paradigmi
Possiamo distinguere le idee correnti in stereotipi (idee prescientifiche ma molto diffuse, soprattutto attraverso i media) e paradigmi (idee che hanno un certa dose di scientificità, nel senso che sono elaborate sulla base di un criterio e della raccolta ed interpretazione di una certa massa di dati).
Sono da considerare stereotipi idee di mafia come emergenza (la mafia esiste quando spara, è un fenomeno di cui preoccuparsi quando produce un notevole numero di morti o colpisce uomini delle istituzioni), antistato (i delitti che colpiscono uomini politici e rappresentanti delle istituzioni vengono visti come episodi di una guerra allo Stato), un residuo feudale persistente in un contesto di arretratezza e di sottosviluppo, o una piovra universale.
I paradigmi sono essenzialmente due: la mafia come associazione a delinquere tipica, e la mafia come impresa. Il primo è contenuto nella formulazione della legge antimafia dei 13 settembre 1982, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa. Il secondo è frutto delle elaborazioni di economisti e sociologi. La legge antimafia definisce la mafia sulla base dei seguenti elementi: l’associazione criminale, la forza d’intimidazione, derivante dal vincolo associativo e dalle condizioni di assoggettamento e di omertà, utilizzata per commettere delitti e per acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti. La legge arriva con almeno 150 anni di ritardo rispetto alla realtà.
Il paradigma imprenditoriale, che ha alle spalle le riflessioni di studiosi statunitensi, ha due specificazioni: la mafia-impresa e l’impresa mafiosa. La prima indica che l’agire mafioso ha finalità di arricchimento e si riferisce in particolare alle attività illegali; la seconda si riferisce alle attività imprenditoriali legali che presentano alcune caratteristiche: il soggetto è direttamente o indirettamente mafioso, il capitale impiegato ha provenienza illecita, la lotta concorrenziale è svolta usando l’intimidazione e la violenza.
Il mio lavoro, svolto in gran parte all’interno del Centro Siciliano di Documentazione, nato nel 1977 e successivamente dedicato a Giuseppe Impastato, ucciso dalla mafia nel 1978, ha mirato preliminarmente a una critica volta a demistificare gli stereotipi e a integrare i paradigmi, ritenendo che essi colgano solo una parte del fenomeno mafioso.1 Per quanto riguarda gli stereotipi l’operazione di demistificazione è abbastanza agevole sul piano dei contenuti ma non riesce a reggere il confronto con l’enorme massa di disinformazione quotidianamente prodotta dall’industria mediatica. Non ci vuol molto a dimostrare che essi danno un’immagine distorta, spesso apologetica, della mafia ma sostituirli con idee adeguate è alquanto difficile, tanto sono radicati e puntualmente riproposti e riverniciati. Lo stesso legislatore agisce in base allo stereotipo dell’emergenza: tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è una risposta all’escalation della violenza mafiosa.
Il paradigma della complessità
Il vaglio delle idee correnti costituisce la base su cui elaborare un’ipotesi definitoria da sottoporre a verifica attraverso la ricerca. L’ipotesi definitoria adottata per i nostri studi è la seguente:
La sottolineatura del polimorfismo e della complessità vuole essere una correzione di tiro rispetto ad approcci che hanno dominato per anni negli ambienti accademici e professionali, affetti da un vizio di fondo: la polarizzazione e l’unilateralismo. Fino agli anni ’80 l’idea più consolidata tra gli studiosi era che non esistesse una struttura organizzativa e che la mafia fosse essenzialmente o esclusivamente una mentalità, un modello antropologico, una subcultura.
Solo in seguito alle dichiarazioni di alcuni mafiosi collaboratori di giustizia c’è stato un mutamento di approccio e si è cominciato a parlare dell’organizzazione, in particolare sull’associazione segreta Cosa nostra, tralasciando o emarginando altri aspetti del fenomeno mafioso.
L’approccio fondato sul paradigma della complessità pone problemi teorici poco o inadeguatamente esplorati, riguardanti l’accumulazione, il rapporto tra crimine e istituzioni, la cosiddetta subcultura criminale.
John Stuart Mill scriveva che il crimine non produce ma distrugge ricchezza, cioè esso ha soltanto una funzione parassitario-predatoria. E se si guarda, per esempio, al ruolo che ha l’estorsione, una sorta di marchio di fabbrica di tutte o quasi le realtà di crimine organizzato, la funzione predatoria è evidente. Ma le estorsioni non hanno soltanto la funzione economica di prelievo forzoso: sono una delle forme più manifeste dell’esercizio della signoria territoriale mafiosa, una sorta di fiscalità parallela. Marx nel primo libro del Capitale, studiando l’accumulazione originaria, analizza la violenza come «potenza economica». La violenza mafiosa, con il ricorso alla violenza privata, ha certo i caratteri dell’accumulazione primitiva, ma lo specifico della mafia consiste nell’aver mantenuto l’uso sistematico della violenza privata nelle società moderne, una volta affermatosi il monopolio statale della forza. Ho parlato di «modo di produzione mafioso», considerando la violenza come «sostanza valorificante» intrecciata con il capitale e la forza lavoro, tenendo conto che oltre al ruolo predatorio l’agire mafioso, collegato ai traffici internazionali, dalle droghe alle armi, ai rifiuti, all’immigrazione clandestina, è protagonista di un’accumulazione illegale le cui stime ammonterebbero a miliardi di dollari e la sua funzione di controllo sulla forza lavoro non si è esaurita con la dissoluzione del movimento contadino siciliano nel secondo dopoguerra.
Un altro terreno da dissodare è il rapporto tra mafia, Stato e istituzioni. Lo stereotipo della mafia come antistato poggia in particolare sui delitti che colpiscono uomini delle istituzioni e più in generale sulla considerazione del crimine come trasgressione dell’ordine costituito, ma la mafia ha un rapporto complesso con l’assetto istituzionale. Ho parlato di duplicità, nel senso che la mafia è contemporaneamente fuori e contro e dentro e con lo Stato. Per un verso non riconosce il monopolio della forza, ha un suo codice e un suo apparato sanzionatorio e considera l’omicidio una sorta di pena di morte. Per un altro verso la mafia interloquisce con le istituzioni, molte sue attività sono legate all’uso del denaro pubblico, e partecipa attivamente alla vita politica. Ho parlato di «soggettività politica» della mafia in duplice senso: in quanto associazione criminale è gruppo di potere e gruppo politico nell’accezione weberiana e la signoria territoriale è una forma di dominio tendenzialmente totalitario sulle attività che si svolgono su un determinato territorio; con il blocco sociale costituisce un sistema di potere più ampio ed è fonte di produzione della politica in senso complessivo, in quanto determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse.
Una linea teorica che parte da Hobbes, continua con Marx ed Engels e attraverso Weber giunge fino ai nostri giorni, considera il monopolio statale della forza come attributo irrinunciabile dello Stato moderno. L’esperienza storica italiana ci dice che se il monopolio formale della forza non è mai venuto meno, c’è stata di fatto una demonopolizzazione, nel senso che la violenza mafiosa è stata legittimata attraverso l’impunità, poiché essa era funzionale al mantenimento e alla perpetuazione dell’assetto di potere ed è stata considerata una risorsa tutte le volte che l’intervento dello Stato sarebbe stato impossibile, per la palese illegalità, o non avrebbe avuto la tempestività e la brutalità dell’intervento mafioso. La repressione delle lotte contadine è stata in gran parte appaltata alla violenza mafiosa e l’impunità delle stragi che hanno insanguinato l’Italia in anni più recenti è la riprova che la violenza extraistituzionale è stata la carta vincente quando si è avvertito il pericolo di un mutamento del sistema di potere. Per leggere questi eventi si è fatto uso del concetto di «doppio Stato», con una «costituzione formale» apertamente democratica e una «costituzione materiale» rigidamente sbarrata a ogni possibilità di cambiamento: una chiave di lettura elaborata per il regime nazista che va usata con accortezza.
Un altro terreno di analisi è dato dall’uso di concetti come cultura e subcultura. Mentre nell’uso comune i termini cultura e subcultura contengono giudizi di valore, positivo il primo e negativo il secondo, nel linguaggio antropologico essi si limitano a connotare modelli comportamentali diffusi o particolari. I criminologi hanno parlato di subcultura criminale, ponendo l’accento sul crimine come devianza e frutto di una collocazione sociale marginale. Gli studiosi più avvertiti (da Sutherland, con il suo studio sul crimine dei colletti bianchi, a Wolfgang e Ferracuti, con la loro “teoria integrata”) escludono che fenomeni come la mafia possano studiarsi come fenomeni subculturali. Sulla base di queste considerazioni ho proposto l’introduzione del concetto di transcultura come
Abitualmente si parla di mafia vecchia e mafia nuova, come se il dato generazionale valesse solo per la mafia e fosse il più significativo. All’interno del nostro modello analitico abbiamo considerato la mafia come un fenomeno di durata, persistente nel tempo, che si sviluppa intrecciando continuità e trasformazione-innovazione, rigidità formali ed elasticità di fatto.
La storia della mafia è la prova della sua capacità di adattamento ai mutamenti del contesto, per cui la periodizzazione che abbiamo proposto non indica tanto una mutazione del fenomeno mafioso quanto la sua capacità di adeguarsi ai cambiamenti dello scenario. Abbiamo individuato quattro fasi: 1) una fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui più che di mafia come fenomeno compiuto si può parlare di «fenomeni premafiosi»: sono documentati i “pizzi” come pure l’impunità di delinquenti in connessione con ambienti di potere e pratiche delittuose che costituivano esercizio di signoria territoriale e avevano funzioni accumulative; 2) una fase agraria, dagli anni ’30 dell’800 agli anni ’50 del XX secolo, in cui l’economia è prevalentemente legata alla proprietà e coltivazione della terra e i mafiosi sono presenti come affittuari dei latifondi e controllori della forza lavoro; 3) una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ’60 e ’70, in cui il baricentro economico-sociale si sposta sulle attività terziarie (commercio e pubblico impiego) e si avviano i grandi traffici internazionali. Nei primi anni ’60 la lotta per il potere interno e per il controllo delle attività porta a uno scontro sanguinoso che innesca la reazione delle istituzioni: costituzione della Commissione parlamentare antimafia, confino per boss e gregari; 4) una fase finanziaria, dagli anni ’70 a oggi, in cui i traffici internazionali si sviluppano sempre di più e la mafia vive un acuto conflitto interno (la guerra di mafia dei primi anni ’80), ricorre all’uso massiccio della violenza anche all’esterno, chiedendo maggiori spazi di potere e occasioni di investimento e andando incontro alla repressione.
Come abbiamo già osservato, le reazioni delle istituzioni sono state finora sempre nell’ottica dell’emergenza, come risposta alla violenza mafiosa. Così la legge antimafia è venuta dieci giorni dopo l’assassinio di Dalla Chiesa e le altre leggi dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Gli arresti, i processi e le condanne seguono ai grandi delitti e alle stragi.
Per gli ultimi anni si parla di «mafia sommersa» per la rinuncia alla violenza eclatante. I mafiosi hanno capito che per sopravvivere e per rilanciare il loro ruolo nel contesto sociale bisogna controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l’alto.
Se vogliamo riassumere la situazione attuale possiamo dire che l’organizzazione criminale-militare ha ricevuto durissimi colpi, mentre il sistema dei rapporti, soprattutto quelli con i politici, è stato soltanto sfiorato, sia per la carenza di strumenti legislativi (il concorso esterno in associazione mafiosa è elaborazione giurisprudenziale) sia perché più che la magistratura e le forze dell’ordine su questo terreno dovrebbe attivarsi l’intero corpo sociale.
Per un’analisi di classe
Il problema teorico di fondo riguarda la possibilità di fondare una lettura del fenomeno mafioso su un’analisi di classe. Ma oggi è possibile un’analisi di classe?
Nel paradigma marxista le classi sociali sono ancorate ai rapporti di produzione ma lo stesso Marx non ha sviluppato un’analisi compiuta delle classi sociali. Il terzo libro del Capitale contiene un frammento sulle classi, inizio di un cinquantaduesimo capitolo che non è stato scritto. Nel frammento si parla di «tre grandi classi della società moderna»: gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari. Marx avverte: a prima vista può sembrare che gli individui che formano le tre classi vivano di salario, di profitto e di rendita fondiaria, ma in realtà c’è un «infinito frazionamento di interessi e di posizioni».
Per studiare questo «infinito frazionamento» più del Marx teorico è utile il Marx storiografo. In opere come Il 18 brumaio e Lotte di classe in Francia l’analisi della società reale individuava varie classi e frazioni di classe: l’aristocrazia finanziaria, la proprietà fondiaria, la borghesia industriale, la piccola borghesia, i contadini, il proletariato industriale, il sottoproletariato. Il modello astratto è dicotomico ma l’analisi concreta è pluralistica.
L’«infinito frazionamento» nel corso del tempo si è ulteriormente intensificato e per analizzare la complessità attuale ci può dare una mano lo stesso Marx con il concetto di «formazione economico-sociale»: una totalità comprensiva di rapporti sociali, mezzi di produzione, modelli culturali, che distingue una società determinata. Il paradigma marxiano non è quindi limitato ai rapporti di produzione e può essere utilmente integrato con aspetti psicosociologici, culturali ecc., accogliendo le indicazioni di Weber e di altri più vicini a noi.
Le critiche mosse al mio concetto di «borghesia mafiosa» esprimono la preoccupazione di una eccessiva dilatazione dell’«aggregato mafioso» e di una criminalizzazione generalizzata che richiederebbe una sorta di palingenesi sociale, ma la mia analisi non opera generalizzazioni e, come vedremo, è andata di pari passo con la ricostruzione di lotte sociali di massa che sono la dimostrazione più efficace dell’improponibilità di una criminalizzazione in blocco. Ma le critiche sottendono un convincimento di fondo: l’obsolescenza di modelli fondati sull’analisi di classe e del vocabolario marxista, considerati come peccati di gioventù da archiviare in gran fretta per mettersi in linea con la deideologizzazione imperante, ignorando o facendo finta di ignorare che l’onnipotenza del mercato, la sacralità del neoliberismo, il monopolio del pensiero unico sono anch’essi modelli ideologici, anzi superideologizzati.
In realtà l’analisi di classe è stata più predicata che praticata e nel nostro Paese gli studi di Sylos Labini sulle classi sociali sono tra i pochi esempi che possono ricordarsi. A mio avviso l’analisi di classe si può fare anche oggi, con gli occhi rivolti al presente, lasciandoci alle spalle schematismi scolastici, come l’economicismo, ed elaborando modelli teorici complessi e aperti. La mia analisi della mafia vuole essere un esempio in questo senso, essendo il frutto di un’ibridazione di concettualizzazioni di vario orientamento, sposando più l’et-et che l’aut-aut, correndo consapevolmente il rischio dell’eclettismo per sfuggire a quello di polarizzazioni sterili e fuorvianti.
Lotta di classe e impegno civile
Anche sulla lotta contro la mafia imperano stereotipi e smemoratezza. Per la vulgata corrente tutto sarebbe cominciato negli ultimi anni, dopo le stragi in cui sono morti Falcone e Borsellino o dopo il delitto Dalla Chiesa, poiché da quegli eventi datano iniziative di vario genere e spessore: manifestazioni, costituzione di comitati, associazioni ecc.
In realtà la lotta contro la mafia si può dire che sia coeva alla mafia e nella fase agraria ha avuto nel movimento contadino il soggetto fino a oggi più significativo per continuità, partecipazione di massa, qualità strategica. In questa fase la lotta contro la mafia si presenta come lo specifico siciliano della lotta di classe e del conflitto sociale, con tutti i problemi che furono discussi all’interno della “questione agraria” già alla fine dell’800. Si confrontarono due tesi con le corrispondenti linee d’azione: la prima, con un’ottica che comprendeva oltre al proletariato delle campagne le componenti piccolo-borghesi: i contadini piccoli e medi proprietari, con obiettivi riformisti; i congressi di Zurigo e di Reggio Emilia del 1893 che tracciarono confini più stretti, limitando l’azione ai braccianti e ponendo l’obiettivo della collettivizzazione delle terre.
Nella mia Storia del movimento antimafia, ricostruendo tali lotte sono partito dai Fasci siciliani (1891-94), organizzazioni a metà strada tra sindacato e partito, in gran parte ispirate al nascente Partito socialista, impegnate su una serie di obiettivi: miglioramenti salariali, contratti di lavoro, diritto al voto. La nascita di un nuovo soggetto sindacale-politico, che invertiva la rotta rispetto alla tradizionale frammentazione contadina, destò vivissime preoccupazione tra gli agrari e le forze conservatrici che riuscirono ad ottenere la repressione violenta del movimento. In un anno, dal gennaio del 1893 al gennaio del 1894, ci furono 108 morti: sparavano sui manifestanti i soldati inviati dal capo del governo Crispi e i campieri mafiosi. Seguì la prima grande ondata migratoria, con circa un milione di emigrati.
Il movimento riprende negli anni precedenti il fascismo, si pone con le affittanze collettive il problema di eliminare il ruolo sociale dei mafiosi, subisce ancora una volta la repressione violenta e tra i caduti ci sono Nicolò Alongi e Giovanni Orcel che sperimentavamo forme di unità tra contadini e operai.
Nel secondo dopoguerra il movimento contadino è un grande movimento di liberazione con centinaia di migliaia di persone che si battono per l’assegnazione delle terre incolte, per la divisione del prodotto a favore dei coltivatori e per la riforma agraria. Nel triennio 1944-47 il movimento contadino ha impulso e sostegno dal governo di coalizione antifascista, e il 20 aprile del ’47, alle prime elezioni regionali siciliane, porta alla vittoria, per la prima e ultima volta, le forze di sinistra unite nel Blocco del Popolo. Dieci giorni dopo, il primo maggio, c’è la strage di Portella della Ginestra e nel corso del mese di maggio sia a Roma che a Palermo si formano i governi centristi, con l’esclusione delle sinistre. La rottura del ’47 non si comporrà più e la strage di Portella si inserisce in un contesto in cui interessi locali, nazionali e internazionali si saldano insieme. La riforma agraria del 1950 sarà una beffa e un milione e mezzo di siciliani lasceranno l’isola. Da allora sindacati e forze politiche di sinistra in Sicilia saranno minoritari.
Negli anni ’60 e ’70 la lotta contro la mafia è condotta da minoranze, all’interno della Commissione antimafia, istituita dopo la strage di Ciaculli del 1963, e all’esterno da personaggi come Dolci e militanti della Nuova sinistra come Impastato. A Palermo noi del Manifesto siciliano, in totale isolamento, cercavamo di rilanciare l’analisi della mafia, parlando di borghesia mafiosa e lanciando una campagna per l’espropriazione della proprietà mafiosa. Su queste basi nel 1977 nasce il Centro siciliano di documentazione di Palermo, successivamente intitolato a Giuseppe Impastato.
Dagli anni ’80, dopo i grandi delitti e le stragi, si svolgono grandi manifestazioni e cominciano ad operare comitati, centri e associazioni della società civile organizzata. Sfiorite le emozioni suscitate dalla delittuosità mafiosa, le attività continuative si sono concretate nelle iniziative di “educazione alla legalità” nelle scuole, nella creazione di associazioni antiracket, nella costituzione di cooperative per l’uso sociale dei beni confiscati. Dopo le stragi del ’92 e del ’93 le attività, soprattutto quelle nelle scuole, si estendono a tutto il territorio nazionale.
Che rapporto ci può essere tra la mobilitazione antimafia degli ultimi anni e i movimenti sociali sviluppatisi dagli anni ’60 a oggi? Le riflessioni sui movimenti sociali hanno seguito varie piste. Negli Stati Uniti, mentre gli studiosi dell’azione collettiva della scuola funzionalista ne hanno rilevato il carattere irrazionale e patologico, confinandola tra le forme di «devianza», i teorici della «mobilitazione delle risorse» hanno sostenuto che i movimenti collettivi nascono dal calcolo razionale degli interessi in una società composta da gruppi sociali in conflitto tra loro.
La sociologia europea ha individuato nei nuovi movimenti sociali gli attori che hanno rimpiazzato la classe operaia e contestano l’attuale assetto di potere. Essi sarebbero da ascrivere alla lotta di classe, con nuovi soggetti, nuove modalità di azione, nuovi obiettivi.
L’attuale movimento antimafia è interclassista o aclassista, i soggetti sono docenti e alunni, commercianti e imprenditori, cioè soprattutto ceto medio, giovani disoccupati di varia estrazione, in tutto alcune migliaia di persone continuativamente impegnate, tenendo conto che le attività nelle scuole anche se coinvolgono gran parte degli studenti sono spesso sporadiche ed episodiche. Sul piano teorico-programmatico opera una contraddizione di fondo, riportabile all’idea di mafia esplicita o implicita: la consapevolezza della complessità del fenomeno mafioso, dei suoi legami con le istituzioni e che quindi un’attività antimafia non può non porsi il problema della critica e del rinnovamento istituzionale, convive con la concezione e la pratica legalitaria della difesa dello Stato dall’assedio criminale.
Manca un progetto di antimafia sociale in grado di creare un blocco sociale alternativo, sottraendo alle reti clientelari gli strati popolari, che fungono da indotto periferico e base di consenso per i soggetti di borghesia mafiosa, e insieme concorrono a tenere in piedi un sistema di potere (da Cuffaro a Lombardo, a Berlusconi) non solo colluso con personaggi mafiosi ma organicamente legato a prassi illegali. Ma questo progetto manca anche alle forze politiche che si autodefiniscono di sinistra.
1 U. Santino, Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006; Id., Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Roma, Editori Riuniti, 2000; Id., Movimenti sociali e movimento antimafia, in Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato; Id., Mafie e globalizzazione, Trapani, Di Girolamo, 2007.
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