La vita di un artista, a volte, è di per sé un’opera d’arte. Valutare di quest’arte in una vita è certamente un’ardua impresa, se si tiene conto che la vita è un divenire, una durata, un’azione distesa e proiettata nello spazio e nel tempo, in questo spazio e questo tempo. D’altronde, proprio spazio e tempo sono le categorie che costituiscono la percezione (in greco: aisthesis), e quindi, l’estetica. Non è insomma casuale che tanto l’arte quanto la vita siano circoscritte dalle stesse categorie: si tratta innanzitutto di azioni. Come già Aristotele aveva capito, l’opera dell’artista supremo, il poeta tragico, consiste nel produrre azioni, il cui concatenamento compone la storia o il mythos.1
Il proprio del poeta è quindi l’azione: intesa innanzitutto come oggetto che deve essere imitato o ri-prodotto (attraverso le metafore, infatti, il poeta porta alla luce un tratto di realtà che riunisce diverse azioni). Ma, d’altro canto, con il suo fare artistico, il poeta agisce effettivamente sul mondo, e ogni sua opera ne è espressione. In questo senso i capolavori sono accenni di universalità: in nome di una certa completezza che presentano e che perciò rappresentano. Il testo poetico, pur essendo verosimile (giacché sottomesso al principio della mimesi), impone infatti una prospettiva nuova (vale a dire: un altro ordine di cose), il più delle volte discordante. Nell’opera ci riconosciamo, ma alterati nei tratti, deformi, come l’immagine di noi stessi che ci restituiscono gli specchi del «callejón del gato».2 Il poeta opera, quindi: nelle visioni della scrittura e nelle conseguenze della vita.
Tutto ciò vale a maggior ragione per la figura di Miguel Hernández. Tutta la sua vita è stata azione sul mondo, attraverso la lotta e la poesia. Sono proprio questi due termini a poterci restituire la globalità della sua opera: dovremo quindi innanzitutto chiarire il senso dei suoi conflitti esistenziali e politici, cercandolo nella sua circostanza – concetto che prenderemo da Ortega y Gasset. In secondo luogo, dovremo saggiare il valore della poesia di Hernández, ricorrendo alla categoria filosofica del tragico, seguendo l’elaborazione che ne fa Nietzsche. È attraverso questa doppia declinazione che compare e si afferma l’autenticità artistica del poeta spagnolo.
La circostanza. L’interpretazione di una biografia evoca lo studio delle sue circostanze. Sono queste, nel loro divenire, a definire un percorso esistenziale: soprattutto nel caso del poeta, individuo che lascia un’opera come traccia del suo passaggio al mondo – lo nuestro es pasar.3 D’altronde la poesia, scriveva León Felipe, «si appoggia sulla biografia […] È biografia fino a che non diventa destino e comincia a fare parte della grande canzone del destino dell’uomo».4 Se, allora, le circostanze della vita e dell’opera sono le stesse, ed esse determinano ciò che il poeta fa, possiamo chiederci fino a che punto vita e opera si distinguono nella persona del poeta. Queste, infatti, non sono forse manifestazioni di una stessa azione?
José Ortega y Gasset ci può aiutare a interpretare il senso della vita di Hernández proprio perché pone al centro del suo sistema filosofico la nozione di circostanza. Concetto che abbraccia la realtà nella sua immediatezza, esso indica tutto ciò che ci circonda, ciò che è circum me, intorno a me: «La circostanza! Circum-stantia! Le cose mute che stanno nel nostro intorno immediato! […] E camminiamo fra esse ciechi al loro confronto, con lo sguardo fisso verso imprese remote, proiettati alla conquista di lontane città schematiche».5 Ortega y Gasset affermerà che la circostanza caratterizza ontologicamente l’individuo, come enunciato nella famosa tesi: «Io sono io e la mia circostanza; se non salvo lei, non salvo nemmeno me».6 La circostanza è il mondo vitale nel quale è immerso il soggetto: la realtà fisica ma anche l’intorno culturale, storico, sociale. L’“io” (primo io della tesi) si forma confrontandosi al mondo circostante e alle sue esigenze, è questo “io” a rendere alla circostanza il suo carattere vitale. Il soggetto, quindi, è inscindibile dalla sua circostanza, e inversamente questa si costituisce solo intorno ad un soggetto, poiché il mondo è quel che si vive come tale.
Si può dunque intuire il ruolo fondamentale nella filosofia orteghiana della nozione di vita. Questa, infatti, è una somma di circostanze vissute o vivencias.7 Precisamente, la vita o realtà radicale («radicale» avendo il valore di immediato),8 è l’ambito nel quale sono presenti sia l’io che la circostanza. Tutto il resto è concepito come realtà radicata («radicata» nella vita, dentro la quale si dà). Ma, dal momento che vivere consiste primariamente nel sapere a che cosa attenersi, la vita stessa esige la ragione. Una ragione vitale, storica, perché dà alla vita la sua direzione, il suo orientamento necessario prima dell’azione. E l’azione ci affonda di nuovo nella circostanza, di modo che non si esce mai dall’immanenza. La circostanza quindi costituisce quella realtà fisica e storica, contestuale, che è di fatto perfettamente integrata nell’opera d’arte, senza la quale la questione della creazione artistica non si pone neanche. In un circolo virtuoso, l’artista è spinto a creare dalla sua circostanza, e la circostanza dimora nella sua opera.
La Spagna che vide succedersi in pochi anni il fallimento della monarchia borbonica restaurata, la dittatura del generale Primo de Rivera (1923-1930), la proclamazione della Seconda Repubblica Spagnola (1931), il colpo di stato del generale Franco (1936), la guerra civile (1936-1939) e l’inizio della dittatura franchista (dal ‘39 in poi) è appunto la circostanza ineludibile di Miguel Hernández. La sua poesia si sviluppa proprio negli anni della Seconda Repubblica, proclamata il 14 aprile 1931 dopo che i repubblicano-socialisti stravinsero alle elezioni municipali che il governo provvisorio era stato costretto a convocare a causa del malessere sociale e dei tentativi di rivoluzione seguiti alle dimissioni di Primo de Rivera.
All’epoca, Miguel Hernández aveva ventun anni. Nato a Orihuela (Alicante) nel 1910, aveva trascorso la sua infanzia nella città alicantina dalle trenta chiese. Il padre l’aveva costretto ad abbandonare la scuola molto giovane per dedicarsi a pascolare il gregge familiare. La sua formazione poetica era quindi avvenuta nella solitudine e partendo quasi dal nulla. Aveva studiato da autodidatta, leggendo con avidità, in particolare i classici spagnoli del Secolo d’oro; poi si era avvicinato al circolo letterario che si era formato nella panetteria dei fratelli Fenoll, ai quali assisteva anche colui che diventò il grande amico di Miguel Hernández, Ramón Sijé. Presto cominciò a comporre i primi versi nel silenzio del campo oriolano.
Nel frattempo gli spagnoli conquistavano per la prima volta alcuni fondamentali diritti democratici.9 Nella Costituzione della Repubblica (1931) lo Stato era definito come «una repubblica di lavoratori di ogni classe che si organizza in regime di Libertà e Giustizia», «senza religione ufficiale»; si stabiliva il suffragio universale: il voto era segreto, diretto e si estendeva alle donne; inoltre si contemplava il divorzio come diritto civile.10 Sulla base delle nuove leggi, il primo governo di Manuel Azaña iniziò ugualmente una serie di riforme volte a modernizzare il Paese: la riforma agraria, con l’obiettivo d’insediare i contadini senza terra nei grandi latifondi; quella del lavoro, che tutelava i lavoratori e consentiva i sindacati; ed infine la riforma dell’istruzione, che seguiva il principio di un’educazione obbligatoria, gratuita, laica e mista. Fu proprio in questo periodo che Hernández giunse a Madrid, dove fu impiegato come collaboratore da José María de Cossío, che all’epoca era in procinto d’intraprendere il suo trattato enciclopedico Los Toros. Nella corrispondenza fra Hernández e Cossío11 è possibile osservare il carattere vivo e indomito del poeta. Questo è il periodo della pubblicazione del suo primo libro, Perito en lunas (Esperto di lune), e di alcune poesie di tema taurino offerte a Cossío, come la bellissima Silencio de metal triste y sonoro.
Nelle lettere a Cossío c’è tutta la tempesta spagnola del triennio ‘36-‘39: una guerra si annuncia, si prepara si scatena. Le richieste di Hernández sono ogni volta più disperate, riflettono una circostanza di fame e di pericolo: il pastore urla dalla collina di Madrid «¡Que viene el lobo!».12 Il 18 luglio 1936, alcuni mesi dopo la pubblicazione di El rayo que no cesa (La folgore incessante), il generale Franco si solleva contro il regime repubblicano. È l’inizio della guerra civile: ogni spagnolo deve schierarsi con una fazione; l’individuo, trascinato dalle circostanze, deve finalmente agire.
La dimensione internazionale del conflitto civile spagnolo, il fatto cioè di essere un laboratorio della guerra che stava per giungere in Europa, e il coinvolgimento nelle file repubblicane delle Brigate Internazionali, ci restituiscono la dimensione universale di questa tragedia. Chi lottava nella fazione repubblicana, nonostante le differenti ideologie al suo interno, lo faceva innanzitutto per preservare la legittimità della scelta popolare. Se un militare con la forza poteva decretare la fine di un regime democratico, il mondo intero allora era perso. Anche per Miguel Hernández il senso di questa lotta non è altro che la sopravvivenza dell’uomo libero: «Per la libertà, sanguino, lotto, sopravvivo».14 Fuori di essa non c’è vita possibile, tanto che «bisogna uccidere per continuare a vivere».15 Quest’antitesi barocca esprime la contraddizione che è l’essenza del conflitto, il dilemma dell’azione tragica.
Come si vede, quest’azione ha una dimensione universale, ma anche una presa nella realtà molto precisa, quasi materiale. La poesia è una forma di azione, si fa nella concretezza, è presenza alla circostanza. Ecco allora venire avanti gli andalusi di Jaén, contadini superbi, braccianti senza terra in un regime di proprietà ancora feudale. Sono loro che Miguel Hernández interroga sulla proprietà – «chi innalzò gli olivi?» –, offrendoci questa sua definizione, bella e acuminata: «la terra silenziosa, il lavoro, il sudore».16
La fine della guerra si avvicina, e con questa, la svolta definitiva della vita del poeta. Con la vittoria dei nacionales, comincia la dittatura di Franco e quindi l’esilio e la repressione dei repubblicani. Hernández cerca di passare in Portogallo, ma è arrestato dalla polizia, iniziando così il suo calvario nelle prigioni di tutta la Spagna. La mediazione di Pablo Neruda gli facilita la libertà provvisoria, ma presto è arrestato di nuovo, denunciato questa volta nella sua Orihuela natale. A seguito del suo processo, nel 1940, il tribunale lo condanna alla pena di morte. Questa volta Cossío ricorre alle sue conoscenze fra i falangisti affinché a Hernández sia commutata la condanna a morte in trent’anni di prigione. La sua salute, danneggiata gravemente dalla permanenza nelle carceri franchiste, gli permette di resistere solo per due anni. Nel 1942, a 31 anni, Miguel Hernández muore di tubercolosi nel riformatorio di Alicante. Francisco Mollá, poeta alicantino e compagno di prigione di Hernández, scrive una poesia alla sua morte, le cui ultime tre strofe recitano:
Che lente, nei petti si vanno filtrando…
Miguel Hernández va fra quattro tavole,
la bara senza fodera di pino bianco…
L’osservo per sempre… Lo portano a spalla
Quattro amici che scelse tacendo…
“Ci duole persino il respiro…” nella radice
senza nome, senza istante, senza spazio.
La musica agonizza e muore il giorno.
Il silenzio appare divorando…
La vita del Poeta è conclusa!
La vita del Poeta è cominciata!
Iniziamo con il dire che nella sua poesia ogni metafora, perfino ogni parola, ha un riferimento preciso. Hernández non costruisce mondi astratti, non inventa. Il suo universo poetico è costituito di una realtà, direi, materiale. «Ma la realtà è un semplice e spaventoso “essere lì”. Presenza, giacimento, inerzia. Materialità».18 La realtà dei versi di Hernández è di una concretezza estrema: anche se a volte la sua esaltazione può mirare a una dimensione trascendente,19 la trascendenza c’è nella misura in cui c’è avvicinamento alla realtà materiale, benché la cosa possa sembrare paradossale.
Qui la filosofia di Ortega può di nuovo venirci in soccorso. Questa fa derivare dalla vita stessa tutte le realtà umane, e soprattutto quella culturale: «La radice di ciò che l’uomo fa e crea è la vita propria nella sua immediata realtà»;20 «ciò che oggi riceviamo già ornato da aureole sublimi ha dovuto a suo tempo restringersi per passare attraverso il cuore di un uomo».21 È questa contrazione delle cose immediate che si percepisce nei versi di Miguel Hernández. La loro concretezza sembra rispondere ad un’esperienza della realtà vicina a quella che ispira la filosofia orteghiana, la quale, come dirà Julián Marías, autorevole allievo di Ortega, «proclama il vincolo di ciò che l’uomo fa con la sua vita concreta, hic et nunc».22
L’obiettivo della ragione vitale, come si è detto, è quello di sapere a che cosa attenersi. La soluzione contemplata equivale alla comprensione della circostanza. Per fare ciò, è necessario uscire da se stesso. Ora «il mio sbocco naturale sull’universo – dirà Ortega – si apre attraverso i valichi di Guadarrama o la campagna di Ontígola. Questo settore della realtà circostante forma l’altra metà della mia persona: soltanto attraverso esso posso integrarmi ed essere pienamente me stesso».23 Successivamente, una volta captato il senso (logos) o impostata la prospettiva, bisogna però ritornare sui propri passi, cioè, dall’universale bisogna tornare al concreto. Questo movimento è denominato «ritorno tacito» (vuelta tácita) ed è uno dei tratti capitali del metodo filosofico di Ortega. Il punto di partenza è sempre l’immediato, l’individuale, ovvero ciò che ci è dato e con cui abbiamo a che fare. Non possiamo, tuttavia, restare lì, perché per sapere a che cosa attenerci dobbiamo realizzare un’azione intellettuale che per il momento ci allontana da ciò che pretendiamo di sapere – idea, concetto, cultura in generale – per permetterci di ritornare con questi strumenti culturali alla realtà immediata e così afferrarla. Il metodo – ripeterà Ortega – è di andata e ritorno, a priori e a posteriori allo stesso tempo: «posato lo sguardo sul mappamondo, conviene volgerlo di nuovo al Guadarrama».24 Il ritorno tacito è insomma il percorso che dobbiamo prendere dal generale, l’acquisito nella cultura, per ritornare all’immediato dell’esperienza. L’atto creatore consiste per Ortega nell’estrarre un logos da ciò che è ancora insignificante (i-logico) – «C’è anche un logos del Manzanares»25 –, in un allontanamento che stabilisce una prospettiva.
Proprio questo movimento di andata e ritorno sembra prodursi nel verso hernandiano: la realtà materiale viene trascesa nel momento in cui diventa espressione poetica per poi portarci di nuovo alla cosa immediata, rivelandoci la sua essenza circostanziale. Così assistiamo a un movimento discendente o di gravità, nel riferimento materiale, nelle cose designate, e un movimento ascendente per il quale questa realtà profonda viene celebrata e innalzata. La moglie Josefina, che diventa donna in assoluto, l’albero del poeta, che gli rivela la natura intera e i suoi misteri: ecco la sineddoche essenziale su cui si basa la poesia immanente. Per questo rovesciamento dell’arte, l’universale parla nelle cose concrete, che pure non cambiano mai natura.
Questo superamento ha dunque degli accenti arcaici, sembra provenire dall’origine delle cose, come se l’evocazione del poeta ci rivelasse la loro autenticità, il loro lato essenziale, i tratti della loro sostanzialità. Il nome che il poeta attribuisce alle cose racchiude in sé la stessa natura che pervade le cose nominate.26 In questo senso l’universo hernandiano, come María Zambrano scrisse a proposito di quello di Neruda, «ci appare come uno squarcio attraverso il quale ci è rivelato un mondo inedito e vecchio al tempo stesso; tutto un modo di sentire la vita, tutta una sensibilità e un senso che ordina le cose [già esistenti] in una maniera diversa».27
Le parole di Miguel Hernández concentrano questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante28 –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria.
Il tragico. La terra è l’elemento fondante, nella vita come nella poesia di Hernández. A tal punto che lo stesso poeta si definisce come terra: «Mi chiamo fango, sebbene Miguel mi chiami/Fango è la mia professione e il mio destino». Hernández è in effetti congenere alla terra: Alicante, su tierra – come si dice in spagnolo, sottolineando la appartenenza a questo elemento –, è marittima, e dunque, terra irrigata, huerta. Mare e terra, anche se complementari, sono per lui opposti, e così compaiono nella Oda entre arena y piedra a Vicente Aleixandre, in cui l’amico poeta, si dice condannato alla terra.
Quest’appartenenza si deve senza dubbio all’origine contadina del poeta: l’opacità del lavoro della terra, di una fatica che sa di combattimento, della morte.30 Enterrar – “seppellire”, “sotterrare” – è infatti un verbo frequente nella lingua di Hernández; così come l’azione contraria, quella di dissotterrare, di riportare alla luce.
voglio metter la terra parte a parte
a dentate secche e calde.
Voglio minar la terra fino a trovarti,
e baciarti il nobile teschio
e toglierti il bavaglio e ritornarti.31
Terra che mangio e che alla fine mi inghiottirà.
Con più forza di prima mi partorirà ancora, madre.32
Quella che posseggo è poca per la grande missione
Di sangue che vorrei perdere per le ferite.
Dite chi non fu ferito.36
E davanti all’orologio e all’alba mi sento più che ferito.37
si convertono in orti di ferite semiaperte,
di adelfi fioriti davanti alla chirurgia
di porte insanguinate.38
Essere poeta e soldato è quindi per Hernández vocazione e circostanza. La sua grandezza risiede nel aver integrato perfettamente l’una nell’altra, evidenziando una coerenza compatta e assoluta fra vita e opera. La circostanza, ad esempio, è visibilmente presente sopratutto nelle poesie del Cancionero y romancero de ausencias: la fame, la mancanza di libertà, impregnano una poesia che ha come punto di partenza e di arrivo di questo ritorno tacito poetico i piccoli eventi familiari dei quali il poeta in carcere è stato privato.
Il motivo di questa composizione è noto: sua moglie gli scrisse una lettera dicendogli che mangiava solo pane e cipolla, che a suo figlio erano usciti i primi denti e rideva molto. Questo fatto provoca un entusiasmo disperato che si tradurrà nelle Nanas de la cebolla. Tre dualità antitetiche parallele percorrono questa poesia. La cipolla indica la fame (rispettivamente «brina» e «ghiaccio nero»), il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento, ecco Hernández che scrive questi versi luminosi nel buio della sua cella:
mai svegliarti.
Triste ho la bocca:
Tu ridi sempre.
[…]
Vola bimbo nella doppia
luna del seno.
Lui, triste di cipolla,
tu, soddisfatto.
Non ti abbattere.
Non sapere che succede,
né cosa occorre.43
a morire da cima a fondo.
[…]
Comincia a sentire, e sente
la vita come una guerra.44
ma vado, deserto e senza sabbia:
addio, amore, addio fino alla morte.50
tutto è confuso.55
Gravita il mio corpo in una densa costellazione.
L’universo raccoglie la densa risonanza
là, dove la storia dell’uomo è stata scritta.56
a sete di morire piano,
dai alla gramigna sanguinante
due tremendi colpi d’ala.
Il labbro di sopra, il cielo
E la terra l’altro labbro.57
fusi come desiderano le nostre brame voraci:
in un ramo di tempo, di sangue, i due rami,
in un fascio di carezze, di capelli, i due fasci.
[…]
Col nostro amore in spalla, addormentati e desti,
continueremo i baci nel figlio profondo.
Quando ci baciamo si baciano i nostri morti,
si baciano i primi abitanti del mondo.59
non perdono alla vita disattenta,
non perdono alla terra né al nulla.
Piango la mia sventura e i suoi effetti
E sento più la tua morte della mia vita.
[…]
Alle anime alate delle rose
del mandorlo bianco ti agogno,
ché dobbiamo parlare di tante cose
compagno dell’anima, compagno.
Hernández è dunque tragico nello stile, nell’animo che si proietta verso il mondo lacerandosi, è tragico nel contenuto, ed è tragico anche per genealogia, giacché il pensiero e la poesia spagnoli sono radicati in quello che Miguel de Unamuno chiamò «il sentimento tragico della vita». I grandi paradigmi della letteratura spagnola, Don Chischotte e Sigismondo, sono, rispettivamente, una tragedia andante ed una tragedia sognante; entrambi, attraverso un meccanismo diverso di deformazione sistematica della realtà, che sia follia o il sogno, manifestano una discordanza simmetrica tra la maniera in cui si percepisce il mondo e la maniera in cui il mondo è. E che cosa sono le Coplas di Jorge Manrique? L’animo di Fray Luis de León? Il concettismo, nella sua profondità, non è contiguo al tragico? Non è tragico il sonetto di Quevedo Amor constante más allá de la muerte? I Cantares di Machado? Gli esperpentos de Valle-Inclán? Questo sentimento, in fondo vitale, che stimola la lingua dei grandi spiriti spagnoli, è fatto proprio anche da Hernández. Non è dunque strano che poeti pure lontani nel tempo ricorrano alla stessa impostazione antitetica, a ciò che la lingua ha depurato riducendolo al suo significato essenziale: «Nous avons quelque chose d’attique dans l’esprit qui ne nous quittera jamais».62 Tragica è l’impostazione che trova nell’antitesi l’espressione più giusta.
precipitato nell’ombra mi vedo.
come scorre tenebrosa la vita.
Ma c’è un raggio di sole nella lotta
che sempre lascia l’ombra sconfitta.
soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo.66
per la tanta saggezza
accumulata, viveva
brillantemente cupo.
E l’acqua gli sorrideva.
Tanto cupo arrivò a stare
(per niente l’acqua lo diverte)
che dopo tanto meditare,
prese la strada del mare,
cioè, quella della morte.
Ridesti tu accanto al fiume,
bimbo solare. E quel giorno
il pesce più vecchio del fiume
si tolse quell’aria cupa
e l’acqua ti sorrideva.
All’inizio di questo scritto suggerivo che la vita di un artista, in certi casi, è di per sé un’opera d’arte. La vita di Miguel Hernández è, per essere più precisi, un’opera d’arte tragica. Nelle sortite della sua azione sul mondo risuona il mito prometeico – e il Prometeo di Eschilo è la tragedia di una resistenza ad un potere nuovo, di un titanico amore verso gli uomini: le catene da rompere per il soldato repubblicano sono le stesse, e la stessa è l’abnegazione del poeta volto al popolo. Tragico perché antitetico, perché soprattutto vitale. Il tragico sgorga dalla poesia hernandiana come la forza che resse la vita del poeta fino al suo ultimo gesto, come ricorda Vicente Aleixandre: «Non si spense mai, neanche all’ultimo momento, quella luce che soprattutto, tragicamente, lo fece morire con gli occhi aperti».
Silencio de metal triste y sonoro
Silencio de metal triste y sonoro, Una humedad de femenino oro De amorosas y cálidas cornadas Bajo su piel las furias refugiadas |
Silenzio di metallo triste e sonoro
Silenzio di metallo triste e sonoro, Un’umidità di femminile oro Di amorevoli e calde cornate Sotto la pelle le furie rifugiate |
Aceituneros
Andaluces de Jaén, No los levantó la nada, Unidos al agua pura Levántate, olivo cano, Andaluces de Jaén, Vuestra sangre, vuestra vida, No la del terrateniente Árboles que vuestro afán ¡Cuántos siglos de aceituna, Andaluces de Jaén, Jaén, levántate brava Dentro de la claridad |
Raccoglitori di olive
Andalusi di Jaén, Non li innalzò il nulla, Uniti all’acqua pura Alzati, ulivo canuto, Andalusi di Jaén, Il vostro sangue, la vostra vita, Non quella del possidente Gli alberi che il vostro affanno Quanti secoli di raccolta, Andalusi di Jaén, Jaén, alzati valorosa, Dentro la luminosità |
El niño yuntero
Carne de yugo, ha nacido Nace, como la herramienta, Entre el estiércol puro y vivo Empieza a vivir y empieza Empieza a sentir, y siente Contar sus años no sabe, Trabaja y, mientras trabaja A fuerza de golpes, fuerte, Cada nuevo día es Y como raíz se hunde Me duele este niño hambriento Lo veo arar los rastrojos, Me da su arado en el pecho, ¿Quién salvará a este chiquillo Que salga del corazón |
Il bimbo aratore
Carne da giogo, è nato Nasce, come i ferri, Fra lo sterco puro e vivo Comincia a vivere, e comincia Comincia a sentire, e sente Non sa contare i suoi anni, Lavora, e mentre lavora A forza di colpi, forte, Ogni nuovo giorno è E come radice affonda Mi duole questo bimbo affamato Lo vedo arare le stoppie, Il suo aratro mi colpisce nel petto, Chi salverà questo bambino Che venga dal cuore |
Yo no quiero más luz que tu cuerpo ante el mio
Yo no quiero más luz que tu cuerpo ante el mío: ¿Qué lucientes materias duraderas te han hecho, No hay más luz que tu cuerpo, no hay más sol: todo ocaso. Claridad sin posible declinar. Suma esencia Claro cuerpo moreno de calor fecundante. Yo no quiero más luz que tu sombra dorada |
Non voglio altra luce che il tuo corpo davanti il mio
Non voglio altra luce che il tuo corpo davanti il mio: Quali lucenti materie durature t’hanno fatto, Non c’è altra luce che il tuo corpo, non c’è altro sole: tutto è tramonto. Chiarezza senza possibile declino: somma essenza Chiaro corpo, bruno di calore fecondante. Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, |
Eterna sombra
Yo que creí que la luz era mía Sangre ligera, redonda, granada: Sólo la sombra. Sin astro. Sin cielo. Cárdenos ceños, pasiones de luto. Falta el espacio. Se ha hundido la risa. Carne sin norte que va en oleada Sólo el fulgor de los puños cerrados, Turbia es la lucha sin sed de mañana. Soy una abierta ventana que escucha, |
Ombra eterna
Io che credevo che la luce era mia Sangue leggero, melograno rotondo. Solo l’ombra. Senza astro. Senza cielo. Segni violacei, passioni di lutto. Manca lo spazio. Strozzate son le risa. Carne disorientata che va come un’onda Solo il fulgore dei pugni serrati, Torbida è la lotta senza sete di domani. Sono un’aperta finestra che ascolta, |
1 Vale la pena notare come nella Poetica di Aristotele il mythos tragico abbia due definizioni: quella di praxeôs mimèsis, «rappresentazione dell’azione» (Poetica, 6, 1449b), e quella di sunthesis tôn pragmatôn, «combinazione dei fatti» (Poetica, 6, 1450a). Chiaramente Aristotele si riferisce esclusivamente all’arte del poeta, da cui il titolo del suo scritto; arte quindi che mira all’azione, e che opera con i fatti.
2 «Il vicolo del gatto» è una stradina di Madrid dove all’inizio del Novecento c’erano degli specchi che deformavano l’immagine dei passanti. Ramón María del Valle-Inclán ha ripreso quest’immagine in Luces de Bohemia per definire il suo stile letterario, l’Esperpento: «Gli eroi classici riflessi dagli specchi concavi danno l’Esperpento. Il senso tragico della vita spagnola può presentarsi solo mediante un’estetica sistematicamente deformata», R.M. del Valle-Inclán, Luces de Bohemia, in Obras escogidas, vol. II, Madrid, Aguilar, 1974. p. 1246.
3 Cfr. Antonio Machado, Cantares.
4 León Felipe, Poética de la llama, in Ganarás la luz. Prosas, Madrid, Alianza, 1981. p. 103. Salvo indicazione contraria, tutte le traduzioni dallo spagnolo sono mie.
5 J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, a cura di J. Marías, Madrid, Cátedra, 1984. p. 65.
6 Ibidem, p. 77.
7 Il termine spagnolo vivencia fu usato per la prima volta da Ortega y Gasset nel 1913 per tradurre il tedesco Erlebnis, sostantivo astratto formato sul verbo Leben, “vivere”.
8 Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., nota 39, p. 69.
9 Di religione (art. 2), di circolazione (art. 31), di espressione e di stampa (art. 34), di associazione (art. 39), di insegnamento (detta anche «libertà de cattedra», art. 48), etc.
10 Constitución de la República Española, art. 1, 3, 36, 43.
11 Cfr. M. Hernández: Cartas a José María de Cossío, a cura di R. Gómez, Santander, Ediciones de la Casona de Tudanca, 1985.
12 In riferimento al testo di León Felipe, Pero, ¿por qué habla tan alto el español?, in Id., Prosas, Madrid, Alianza, 1981, pp. 79-81; in cui il poeta deriva magistralmente quello che è un difetto nazionale – il parlare troppo ad alta voce – dalle circostanze dolorose della Storia del popolo spagnolo, che non solo giustificano questa particolarità, ma la rendono legittima e necessaria.
13 J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Barcelona, Orbis, 1983, pp. 66-67.
14 El herido, in El hombre acecha.
15 Canción del esposo soldado, in Viento del pueblo.
16 Aceituneros, in Viento del pueblo.
17 A. Buero Vallejo, Un poema y un recuerdo, in M. Hernández, El escritor y la crítica, a cura di M. de Gracia Ifach, Madrid, Taurus, 1988, p. 33.
18 J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., p. 222.
19 Nel senso spaziale di “oltre-passare”, «andare di un posto a un altro, oltrepassando un certo limite». J. Ferrater Mora, Diccionario de Filosofía, tomo IV, Barcelona, Círculo de Lectores, 2001, p. 3565.
20 J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., nota 36, p. 68.
21 Ivi, p. 69.
22 Ivi, p. 68.
23 Ivi, p. 76.
24 Ivi, p. 78.
25 Ibidem.
26 Cfr. Platone, Cratilo.
27 M. Zambrano, Pablo Neruda o el amor a la materia, in «Hora de España», Barcelona XXIII, noviembre 1938, p. 149.
28 Cfr. M. Hernández, Nanas de la cebolla.
29 J. Ortega y Gasset, Meditazioni sul Chisciotte e altri scritti di metafisica, a cura di G. Ferracuti, p. 102.
30 Cfr. J. Cassou, Tumba de Miguel Hernández, in M. Hernández, El escritor y la crítica, cit., p. 72.
31 Elegía, in El rayo que no cesa.
32 Madre España, in El hombre acecha.
33 A. Buero Vallejo, Un poema y un recuerdo, cit., p. 30-31.
34 Carta, in El hombre acecha.
35 Questa poesia rende conto, in un certo modo, dell’importanza che ebbe la corrispondenza nella vita di Hernández, trascorsa spesso lontano da Orihuela (cfr. l’edizione dell’Obra completa di Espasa-Calpe, Madrid 1992, vol. III, dove si può leggere l’epistolario integrale). Le lettere a Josefina Manresa non solo ci immergono direttamente nella circostanza concreta del poeta, ma costituiscono il filo comunicativo con ciò che Miguel Hernández era, amava e sperava.
36 El herido, in El hombre acecha.
37 18 Julio 1936 – 18 Julio 1938, in El hombre acecha.
38 El herido, in El hombre acecha.
39 L’«Uno-primordiale» (das Ur-Eine) è un concetto preso da Schopenhauer e che ritorna spesso lungo La Nascita della tragedia. Fondamentalmente designa lo strappo del principium individuationis che diventa fenomeno artistico e che secondo Nietzsche dà significato al dionisiaco. Detto con le parole di Hernández in Madre España: «Madre: abisso da sempre, terra da sempre: profondità dove sfociano tutti i sangui».
40 Cfr. Llegó con tres heridas, in Cancionero y romancero de ausencias.
41 A. Buero Vallejo, Un poema y un recuerdo, cit., p. 31.
42 J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., p. 75.
43 Nanas de la cebolla. Se la circostanza è latente durante tutta la poesia, i due ultimi versi costituiscono la sua definizione in chiave tragica (marcata quindi dalla negazione).
44 El Niño yuntero, in Viento del pueblo.
45 J. Cassou, Tumba de Miguel Hernández, cit., p. 73.
46 Ibidem.
47 Ibidem.
48 Ibidem.
49 Musicalità infatti avvertita dai diversi cantanti che hanno adattato le poesie di Hernández: Joan Manuel Serrat, Paco Ibáñez, Víctor Jara…
50 Yo sé que ver y oír a un triste enfada, in El rayo que no cesa.
51 A questo proposito, ricordiamo la tesi di Nietzsche: «Apollo e Dioniso […] i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine “arte” solo apparentemente supera; finché da ultimo per un miracoloso atto metafisico della “volontà” ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica». F. Nietzsche, La Nascita della tragedia, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1972, vol. III, tomo I, p. 21. Bisogna notare che Apollo rappresenta il dio solare della misura, del principium individuationis, della divinazione. La pulsione apollinea è il sogno, perciò si associa alle belle apparenze, le immagini ideali e dunque, alle arti plastiche. Simmetricamente, Dioniso, è il dio del vino e della trasfigurazione, rappresenta l’abolizione di tutte le frontiere, specialmente quella dell’individuazione. L’analogia dell’ebbrezza è la più prossima a noi di questa pulsione, composta dallo spavento e l’estasi che salgono dal fondo intimo dell’essere umano quando il principium inidividuationis soffre un’eccezione. In arte Dioniso dà origine alle arti non-plastiche, come la musica.
52 Ibidem, p. 29.
53 Me sobra el corazón.
54 Tutti e due i sentimenti son riuniti, ad esempio, nella Canción del esposo soldado.
55 Menos tu vientre in Cancionero y romancero de ausencias.
56 Bambino della notte.
57 La boca.
58 Con queste parole inizia infatti La Nascita della tragedia: «Avremo acquistato molto per la scieenza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente», F. Nietzsche, La Nascita della tragedia, cit., p. 21.
59 Figlio della luce e dell’ombra.
60 Cante jondo, “canto profondo” è il flamenco nella sua forma più primitiva. Si noti la prossimità di questo tipo di musica con il genere letterario dell’elegia, nel senso originario greco di “lamento cantato”.
61 M. Zambrano, Pablo Neruda, cit., p. 150.
62 Cfr. A. de Musset, De la tragédie, in Id., Œuvres Complètes en prose, Paris, Gallimard Bibliothèque de La Pléiade, 1960, p. 889.
63 Canción del esposo soldado.
64 Hijo de la luz y de la sombra.
65 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, in Id., Opere, cit., vol. VI, tomo III; Id., «Quel che devo, devo agli antichi», pp. 160-161.
66 Dedica del suo libro Viento del pueblo a Vicente Aleixandre.
67 «Spagna, pietra stoica che si aprì in due pezzi», Madre España, in El hombre acecha.
68 Cfr. A. Buero Vallejo, Un poema y un recuerdo, cit., p. 33.
69 Corrida real (Toro y torero), in Primitivo Silbo vulnerado. Nello spagnolo originale, desplante, qui tradotto come “arroganza”, nel gergo taurino indica «un’attitudine di sfida immobile del torero davanti al toro, generalmente al termine di una serie di mosse, destinata a sottolineare una dominazione ormai acquisita». Cfr. F. Wolff, Philosophie de la corrida, Fayard, 2007, p. 315.
70 A. Buero Vallejo, Mis recuerdos de Miguel Hernández, para la exposición Miguel Hernández, poeta, Alicante, marzo 1992.
71 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Id., Opere, cit., vol. V, tomo II, libro IV, §337, «L’“umanità” dell’avvenire», p. 197.
72 Canción última.
73 Cfr. A. Machado, Cantares.