Non è difficile riconoscere nel nuovo libro di Matteo Marchesini (classe ’79) uno dei non molti titoli destinati a lasciar traccia di sé nell’inventario del decennio inaugurale del secolo. Non che manchino poeti, ai nostri giorni, in grado di esibire una loro autorevole “competenza”, e di declinare con sapienza forme e ingredienti della nostra ricchissima tradizione; ma su buona parte di essi – anzi sui migliori – grava un sospetto d’epigonismo, e spesso l’impressione di una limitatezza o, anche peggio, indifferenza dei contenuti rispetto alla padronanza espressiva. Sin dalla prima lettura di Marcia nuziale, invece, il ricco tessuto metrico e verbale dei versi traccia un arazzo compatto e dolente di rime, strofe e visioni che sanno farsi testimoni inquieti di un tempo disamato, in ironico e lucido controcanto con l’annuncio del titolo. Pagina dopo pagina, ecco così venirci incontro paesaggi urbani e mentali di una densa materialità visiva, sul punto di farsi mobile e traslucido spettro di pixel. Si veda l’attacco di La città della polvere, in Asilo:
leggera, come sugli altari
la cenere che oggi impasta i lobi
e ingemma nuche lisce, larghe fronti:
non è con il suo velo altro che luce
senza ombra e calore, senza fonti.
O una secchezza tiepida. Una brezza
che spira entro i corpi. Non ha pori
la strada, fessure la tua mano:
tutto il quartiere è saturo ed informe
come le cose di cui non parliamo.
[…]
queste sue trame torpide, bestiali,
di circe che si eguaglia ai suoi maiali
e scorda l’incantesimo; o il tepore
dei suoi uffici, il nascosto tumore
che smangia i volti e nutre i più irreali
cortei, comizi, ciompi, saturnali
dove si langue eternamente o muore
per invisibile mano; ed è il presagio
che vincerà per fame o per sofismi
anche noi due, […]
Nella zona di Asilo si trovano alcuni degli esiti migliori: scene di crudo interno familiare come Infanzia, Il figlio alla madre, ma anche immagini colte al volo di luoghi e persone (I giocatori, Via Emilia Ponente) che potrebbero facilmente ridursi a bozzetti, ed invece si dilatano in prove di una vasta allegoria, come se lo spleen di Marchesini vi traducesse in controluce quadri di un suo Baudelaire basso-padano; mentre a Elegia della veglia sono affidate efficaci aperture alla rêverie, oggettivata al vaglio della memoria come questa:
spiandosi aereo da oltre la sua porta
dove il cono di luce di un soggiorno
proietta cure e un quieto affaccendarsi,
riunioni di famiglia e l’indistinto
suono di chi lo veglia: e lui
non è più lui ma ancora tiene un lembo
di se stesso nel lieve dormiveglia.
A Bologna. Intorno ai rami immensi
e cerulei del Tevere a gennaio.
Eppure erano i viaggi il nostro scacco:
io stavo male, e l’unica vacanza
volevo prenderla senza progettare,
come un ladro o un aruspice impaurito.