
A colpire il lettore di Trascorrendo, seconda raccolta poetica di Mario Tomai (preceduta da Il cane di Goya, edita sempre da Efesto nel 2022) è in primo luogo la dimensione plurale della significazione in cui si muove il libro. Una dimensione a più piani: piano del discorso, piano linguistico, esistenziale, metaforico. Allo spessore di ordine concettuale e saggistico-filosofico – si vedano, per un esempio, i riferimenti a Walter Benjamin –, si accompagna così un orizzonte storico e temporale altrettanto vasto e stratificato, che spazia dal presente al passato remoto, dal “secolo breve” all’età arcaica, e dalle istanze attualizzanti del presente – con le sue guerre e i suoi massacri infiniti – a quelle di un tempo lungo, storico ed “epocale”; così come il rigoglioso versante delle immagini si sviluppa in coerente simbiosi con il lavoro sulla lingua, che s’inventa varianti espressive di un lessico “aumentato”: disviene, penombrale, tenebrale, labbromoneta, fantascopie, inoscura, Inconosciuto, ombrare, tenebrare, annerante, fuiente, indipinta. Questa pluralità di aspetti e l’ampiezza di orizzonte di cui sopra si possono avvertire già a partire dai testi di apertura delle sezioni di cui si compone il libro (Il duplice chiarore, Look down, Il secolo d’ombra, Stile tardo, Geografie variabili, Segnalazione d’incendio): nel loro interagire e ponderato procedere queste ouvertures rappresentano infatti, si può dire, le coordinate entro cui hanno collocazione e producono senso i singoli componimenti, questi in genere più brevi dei cosiddetti “prosimetri” d’apertura (che mescolano versi e prosa). Tra questi, essendo posto sulla soglia del libro, è di particolare rilievo quello intitolato Faglia trascorrente (pp. 9-10), che contiene nel titolo lo stesso verbo che occupa, da solo ma al gerundio, l’insegna del libro.
Ecco, tra i tanti possibili spunti di avvicinamento a questo libro, così ricco di suggestioni e metafore e che si legge non come un album o diario poetico ma come un organismo fluente e insieme calibrato, solidamente strutturato, non è forse inutile soffermarsi proprio su quel verbo, trascorrere, che poi conta numerosissime occorrenze e declinazioni nelle pagine della raccolta, ed è da mettere in relazione, in ipotesi, con analoga espressione in Paul Celan (si veda Campi: «Ma la nube: / essa trascorre.» nella versione di Bevilacqua). Lette assieme, la posizione esposta del trascorrere e l’opzione del gerundio ci dicono forse qualcosa sul modo che ha la poesia di Tomai di proporsi e di parlarci, con una sua grammatica e il suo impianto di immagini e figurazioni.
Per cominciare, si prenda allora il gerundio. Il nostro Novecento è popolato di titoli al gerundio, in effetti, ma non tutti i gerundi hanno lo stesso valore. In genere – detto con molta approssimazione – il tempo del gerundio è un tempo che si sporge sul presente come una sospensione che coincide con la stessa scrittura poetica, lo spazio esistenziale insieme circoscritto e aperto di un “durante”. Un durante suscettibile di più svolgimenti: si pensi, per degli esempi, ai titoli di due poeti diversissimi tra loro come Sereni (A M. L. sorvolando in rapido la sua città, in Frontiera)1 e Fortini (Traducendo Brecht, in Una volta per sempre)2 – autori diversissimi, si diceva, e infatti se vediamo i rispettivi testi nel primo a dominare è il senso dell’attimo e del passaggio (un passaggio breve, in rapido), mentre nel secondo la poesia si articola su più tempi mettendo in scena un complesso movimento di pensiero.3 Simile quindi la postura (soggettiva) evocata dal titolo, come di frammenti di un tempo capace di accogliere i moti dell’animo e dello sguardo, ma differente – in differente relazione con il Tempo – la sua traduzione in poesia: ebbene, quale è la declinazione che di questo procedimento, ricorrente e quasi “istituzionale” nei poeti, ci presenta Mario Tomai?
Ad una prima e superficiale lettura, la declinazione al gerundio unita com’è al verbo trascorrere si presta ad una interpretazione elegiaca e “impressionistica”, in chiave con il tema della finitezza del tempo umano e con il motivo del Tempus Fugit: quel tempo cioè che – come diceva un filosofo per certi romanzi – «porta via al soggetto tutto il suo».4 Ma una tale interpretazione (diciamo pure “tradizionale”) a mio parere trova nei versi di Trascorrendo più d’una possibile obiezione o riserva, che provo a riassumere molto sinteticamente. Intanto noterò che il verbo di Trascorrendo non ha un soggetto – non c’è un soggetto, non c’è l’io né altro elemento – per cui ad apertura di libro abbiamo sì la dimensione del tempo che trascorre, anzi siamo d’un colpo e senza mediazioni immersi in essa, ma questa apertura ha a che fare con un “non detto” di cui soltanto l’insieme dei testi può dar conto; ed è proprio qui che il discorso si complica e l’ordine della significazione di cui parlavo all’inizio trova un accento peculiare, distintivo.
Si potrebbe azzardare, a questo punto, che tanto più la sfera del “non detto” si estende, tanto più si assolutizza: essa coinvolge sia il soggetto taciuto, sia “tutto il resto”, ovvero tutto l’ambito della rappresentazione messa in scena nel libro. Entro quell’orizzonte largo, dunque, tutto ricade sotto la signoria inesorabile del tempo, in un moto perenne e onnipresente di cui l’io è parte, anzi da cui è a pieno titolo investito. Ma poi, se poniamo lo sguardo alla tipologia delle immagini che abitano il tempo e sono espressione del “pensiero poetante” di Tomai, ci accorgiamo che lì non c’è nulla di elegiaco né di impressionistico; anzi, le figurazioni dominanti si fondano sull’ossimoro o su sue varianti di connotazione espressionistica: c’è la «tenebra bianca» e il sole «annerante», il sole è «di tenebra» e di «tenebra» è anche l’aureola; la parola tenebra e derivati, insieme a penombra, ha la più alta frequenza nei versi, e tutto ciò è in rapporto con lo “spirito del tempo”, una circostanza del tempo – la nostra – al di qua di ogni possibile rischiaramento; di qui il tema dell’assenza o meglio della sottrazione (vedi anche il lessico citato prima), del velarsi del senso, del suo venir meno e ritrarsi, lo «scroscio del caos» (Faglia trascorrente). Più in generale, la vicenda di contrari in lampante cortocircuito e in particolare il confrontarsi di luce e tenebre che informa l’intera compagine del libro ne stabiliscono l’atmosfera e il timbro complessivo: il senso dominante è di una lacerazione, una lacerante dissonanza che non trova momenti di quiete – nessuna elegia, quindi – o tanto meno di pacificata sintesi, e di qui anche la connotazione radicale del trascorrere ed il suo ereditare da una tradizione del Moderno (Char e Mandel’štam, insieme a Celan, i nomi prossimi, convocati esplicitamente in più passaggi).5
Dunque abbiamo frammenti senza conciliazione, quasi una processione di rivelazioni in negativo o di schegge di spazio-tempo che muovono da un fondo tragico e da una nozione di tempo irriducibile agli standard ed ai paradigmi cui siamo portati a obbedire o consentire, per inerzia o conformismo (diciamo insomma il “consumo del tempo” complice della dimenticanza e dello spreco). Qualche esempio:
Un filo nero ed osceno
lega i saggi sapienti
all’urlo delle folle rauche
lo sperdimento al vorticante nulla
nel primordiale silenzio
ascolti l’aspro zuikk
dell’ultimo uccello di neve
che ancora canti
nella velatura del mondo –
nel bianco trascorrente tumulto
sta un tratto invisibile
un lume notturno
all’interno di sé.
Cnosso (da Geografie variabili)
Sull’orlo del tenebrare
cantano l’antico fervore
l’amore sfinito da una carezza mortale:
ci assordano unendo le voci disperse
nell’unico suono incessante
della breve estate.
Stai (da Segnalazione d’incendio)
Il secolo ombra
affilauncini scattacoltelli ed invocapaura
il secolo vagina di risse e di orde
affossa
offusca le albe di lume palude –
tu stai
nel fiammante tremore.
1 Vedi V. Sereni, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p. 69.
2 Vedi F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, p. 238.
3 Nell’arco di due strofe la poesia dopo un’apertura descrittiva propone un’ampia riflessione che riguarda non solo Brecht ma l’interpretazione del momento storico e con essa sulla poesia in generale.
4 G. Lukács, Teoria del romanzo, Milano, Garzanti, 1974, p. 172.
5 Vedi Da Char, p. 132; Mandel’stam, p. 71.
6 Si può rammentare che Rembrandt è anche in Celan: Einkanter, in Schneepart.
7 Cfr. Cena in Emmaus, p. 5 (collocato in apertura di libro); Emmaus IV, p. 50.
8 Per un ampio commento al dipinto vedi S. Schama, Gli occhi di Rembrandt, Milano, Mondadori, 1999, pp. 327 seg. Il riferimento è al Vangelo di Luca, 24, 13 seg.