Majakovskij, la gloria eterna
e la mistificazione
Alex Bardascino

Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Milano, Adelphi, 2015.

Inarrivabile cantore della Rivoluzione e padre del cubofuturismo sovietico, Vladimir Majakovskij è universalmente riconosciuto come uno dei poeti più acclamati e influenti del XX secolo. “Così grande e così inutile”, come egli stesso si definiva, la figura dell’autore georgiano, iconizzato ad aeternum in bronzee o marmoree pose celebrative, ha indubbiamente pesato come un macigno nella tradizione letteraria russa: lo ammette Pasternak, lo conferma la Cvetaeva, lo testimonia la mole di monografie a lui dedicate in mezzo mondo.

Eppure il rapporto tra Majakovskij e le istituzioni politiche, le sue liaisons dangereuses con le numerose amanti, persino le cause e le dinamiche della sua scomparsa si presentano come un insieme di eventi estremamente controversi sui quali, a 85 anni dalla morte, non è mai stata fatta piena chiarezza. E plausibilmente l’unico modo per farlo è quello di immergersi nel suo stesso contesto, ricreare le atmosfere – il più delle volte lugubri – di una Unione Sovietica pre- e post-rivoluzionaria in cui la menzogna e il depistaggio erano all’ordine del giorno e interessavano tutti i livelli della società. Da qui nasce e si sviluppa quel pettegolezzo che lo stesso Majakovskij, parlando di sé in terza persona nella lettera d’addio al mondo (così somigliante a quella scritta da Pavese) afferma con forza di aver odiato; e proprio da questo assunto parte Serena Vitale, alla ricerca di una verità storica quanto più possibile oggettiva, analizzando numerosissimi documenti e facendosi strada, non senza difficoltà, nell’intricato groviglio delle dicerie accumulatesi nel corso del tempo sul poeta. L’acclamata slavista, allieva di Ripellino, torna a pubblicare per Adelphi, 20 anni dopo l’uscita di Il bottone di Puškin, e lo fa adottando lo stesso stile di ricostruzione cronologica e contestuale che ha caratterizzato il suo primo lavoro.

La particolarità di Il defunto odiava i pettegolezzi risiede nell’equilibrata commistione tra il racconto, ovvero le vicende pubbliche e private del cittadino Majakovskij, e la forma saggistica, ovvero il lavoro di documentazione e riscrittura, atto a svelare da una parte l’insostenibilità di molte maldicenze, dall’altra a denunciare la continua manipolazione dei fatti passati. Ecco dunque esposte e analizzate le tante vite postume dell’autore, le decine di ipotesi sul motivo del gesto estremo, l’ambiguità di tutti i personaggi in qualche modo collusi con l’OGPU. Il massiccio intervento di revisionismo al quale venne sottoposta la figura di Majakovskij dopo la sua scomparsa dimostra in modo emblematico l’operazione messa in piedi da una classe dirigente bisognosa di una consacrazione artistica: al diktat di Stalin nella seconda metà degli anni ’30 di ripristinare l’opera dimenticata dell’eccentrico poeta fa seguito l’azione di Ljudmila Majakovskaja, intermediaria delle volontà di Chruščëv prima e di Brežnev poi, smaniosa di cancellare dalla memoria Lili Brik, amante e musa dell’autore, al contempo inadatta a incarnare quel ruolo per via della sua fatuità nei rapporti interpersonali – per usare un eufemismo. È solo con la desecretazione del cosiddetto “Dossier Majakovskij”, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che i tanti rapporti e verbali svelano una realtà mistificata ai limiti dell’inverosimile, dalla quale emerge invece un inedito lato umano quasi adolescenziale del glorioso Vate della Rivoluzione, particolarmente sensibile e vulnerabile, solito firmarsi “cucciolo” nelle lettere inviate alla Brik. Emergono, ancora, le delazioni di Gor’kij circa la salute del poeta, a suo dire malato di sifilide – la “malattia del capitalismo”, secondo un luogo comune sovietico diffuso all’epoca –, le stroncature da parte di critici collaboratori del regime e viceversa di agenti segreti, improvvisatisi esperti di letteratura. Si paventa addirittura un’ipotesi di omicidio. Insomma, l’apoteosi di ciò che Majakovskij rigettava, il trionfo del pettegolezzo, il marasma totale.

Il punto di vista dell’autrice, fondamentale per discernere l’attendibilità di un corpus documentario in cui tutto è presunto, affiora attraverso osservazioni sporadiche e per lo più poste tra parentesi, in incisi, rifiutando così ogni intervento invasivo nel testo. Serena Vitale mantiene la tensione narrativa costante attraverso l’uso di testi eterogenei, di continui flashbacks e flashforwards, di una pungente e apprezzabile ironia. Notevole è anche il materiale visivo inserito nel testo, perfettamente integrato nella narrazione, indispensabile per contestualizzare anche visivamente un’epoca e i relativi personaggi. Certamente un racconto-saggio sui generis, non difficile da accostare da un punto di vista contenutistico e stilistico ad altri e più noti exempla della tradizione letteraria nostrana, primo fra tutti allo Sciascia di La scomparsa di Majorana o di L’affaire Moro. Non è un caso difatti che la Vitale stessa, alla stregua dello scrittore siciliano, si definisca “saggista anomala” e autrice di “racconti”. La centralità della documentazione come elemento fondamentale per una ricostruzione storica coerente, così come gli allusivi interventi nel testo, testimoniano dunque un rilevante punto di incontro tra due scrittori separati sì da una generazione, ma entrambi attentissimi osservatori di una società in continua evoluzione.