L’ostinazione ebraica.
Due lettere dal carteggio tra Franz Rosenzweig ed Eugen Rosenstock (1916)
da L’Ospite ingrato ns 2, 2011
Gianfranco Bonola
Le due lettere che qui presento fanno parte di un carteggio che ebbe luogo tra Franz Rosenzweig1 e Eugen Rosenstock2 dal giugno al dicembre 1916 (venti lettere e una cartolina)3 segnando la ripresa dei loro rapporti. Questi si erano interrotti alla fine del 1913 dopo l’improvvisa decisione di Rosenzweig di non convertirsi al cristianesimo, come aveva concertato con Rosenstock al termine di un loro decisivo confronto spirituale, e di rimanere invece ebreo. Data la rilevanza tematica e l’unitarietà di questo gruppo di lettere, entrambi i corrispondenti avevano più tardi convenuto che se ne potesse fare una piccola edizione, a uso degli amici.4
Rosenzweig e Rosenstock si erano incontrati nel 1912 e, con altri amici, avevano costituito un gruppo informale di riflessione teoretica che, data la nutrita presenza di cristiani di origine ebraica, manteneva un forte interesse anche per la dimensione religiosa. In tale cerchia il ruolo preminente era rivestito da Rosenstock, all’epoca libero docente di Storia del diritto medievale, e già autore di uno studio importante,5 mentre Franz Rosenzweig stava ancora elaborando la sua tesi di dottorato con Friedrich Meinecke sulla dottrina hegeliana dello Stato. Uniti dal comune ambiente di provenienza, l’alta borghesia ebraica (e anche lontani parenti), i membri del gruppo erano però diversi per appartenenza religiosa. Rosenzweig era il solo ad essere rimasto ebreo (benché cresciuto in un ambiente ormai estraneo alla pratica cultuale) mentre gli altri amici, Rudolf, Hans e Viktor Ehrenberg, nati da famiglie miste o convertitisi individualmente, erano cristiani; Eugen Rosenstock in particolare, che aveva scelto il battesimo durante l’adolescenza, era divenuto un cristiano militante. A una prospettiva di conversione, cui per sensibilità e interessi pareva anch’egli avviato, Rosenzweig aveva da contrapporre unicamente una sorta di relativismo in parte scettico in parte storicistico, affinato alla scuola di Meinecke.
Rosenstock tentò di aiutare Rosenzweig a compiere l’ultimo definitivo passo in direzione del cristianesimo durante un colloquio notturno a tre (era presente anche Rudolf Ehrenberg) il 7 luglio 1913. Alla conclusione del confronto Rosenzweig si era dichiarato disposto a chiedere il battesimo. In realtà si aprirono per lui alcuni mesi di crisi d’identità e di travaglio di coscienza che si conclusero con un viaggio a Berlino per le festività ebraiche di rosh hashana e yom kippur, alle cui liturgie prese parte nella sinagoga an der Potsdamer Brücke. In questo lasso di tempo maturò in lui la decisione contraria. Revocata definitivamente la scelta della conversione, come comunica a Ehrenberg nella corposa lettera del 31 ottobre 1913,6 Franz Rosenzweig rimarrà ebreo. Ma da questo momento in poi interromperà anche ogni relazione diretta con Eugen Rosentock, lo eviterà e non gli scriverà più fino all’avvio di questo carteggio. Nel quale, e proprio all’inizio della sua lettera qui riportata, cercherà di giustificare questo suo comportamento.
L’iniziativa di una ripresa di contatto, almeno epistolare, fu assunta da Rosenstock il quale, arruolato e nominato docente della scuola di artiglieria a Kassel, si trovava temporaneamente alloggiato presso la famiglia e nella stanza dell’amico. Ed è ancora lui che, invece di darsi pago di avere riallacciato la comunicazione con un Rosenzweig fin qui riluttante, cerca di riannodare il filo del dibattito sulla problematica che li aveva per un momento, nel 1913, visti concordi e poi contrapposti. Infatti si può leggere come un gesto provocatorio di Rosenstock l’invio all’amico di un volumetto sul problema dell’ebraismo scritto da un teologo luterano (Eduard König, Ahasver. Der ewige Jude, 1907), uno stimolo a cui Rosenzweig non resterà insensibile lasciandosi di nuovo condurre sul terreno del loro contendere.
I due corrispondenti, che hanno subito ritrovato lo stile spregiudicato della precedente complicità intellettuale, utilizzano spesso il registro ironico e, come si vedrà, si scambiano battute impertinenti anche nel bel mezzo della trattazione di problemi seri e gravi. Così, non mi pare del tutto improbabile che Rosenstock, sconcertato di fronte all’inattesa categoricità dell’amico, formulando (nella lettera che precede immediatamente quelle qui riportate) la domanda circa l’ostinazione ebraica abbia forse cercato di insinuare maliziosamente il sospetto che Rosenzweig si fosse identificato magari un po’ troppo con la tanto conclamata caratteristica della sua gente. Se così non è, posta in termini del tutto oggettivi, la questione se l’ostinazione ebraica, oltre a essere un “dogma” cristiano, sia per caso anche un dogma ebraico risulta sibillina o comunque stravagante. Intesa come un quesito serio, la domanda deve aver lasciato almeno un poco perplesso anche Rosenzweig, il quale in prima battuta reagì tracciando un succinto quadro storico circa la genesi e l’affermarsi di questo theologoumenon cristiano e anche più avanti, quando tentò di rispondere direttamente, non poté farlo se non rovesciando il problema e schizzando a grandi linee una teologia ebraica del cristianesimo.
La preoccupazione maggiore di Rosenzweig è rivolta, ritengo correttamente, a far vedere come nella fase costitutiva del cristianesimo il problema dell’ebraismo si collochi in posizione centrale e intorno a esso si muovano le grandi correnti interne ed esterne alla religione nascente, la chiesa pneumatica di ascendenze giovannee, il paolinismo e lo gnosticismo (non si fa cenno, ma non è un caso, alle comunità giudeocristiane). È per l’intervento e la pressione della gnosi, sostiene Rosenzweig, che il cristianesimo ha assunto una chiara posizione rispetto all’ ebraismo: sia in positivo, rifiutando di demonizzarlo categoricamente e di rigettarne i libri sacri, quanto in negativo, prendendone definitivamente le distanze con l’accoglimento della prospettiva teologica paolina. Ma comunque ponendosi in antitesi rispetto alla condanna senz’appello pronunciata dalla gnosi. Il risultato finale della complessa vicenda, su cui giustamente Rosenzweig qui (e poi sempre in seguito) fa cadere l’accento, è l’accoglimento delle scritture ebraiche all’interno della Bibbia cristiana. Il rifiuto di estromettere definitivamente gli ebrei dalla storia della salvezza, come decretavano gli gnostici, ha però di necessità indotto i cristiani a elaborare la dottrina della loro inflessibile caparbietà, del loro cuore ostinato fino all’estremo scenario escatologico.
Per parte sua, tuttavia, Rosenstock non intende lasciar confinare la questione dell’ostinazione ebraica nei secoli delle origini cristiane, anzi si propone di farne risaltare i perversi effetti ancora presenti e in realtà, a suo dire, costitutivi dell’atteggiamento ebraico più tipico. Si intravvede a questo punto entrare in campo la contrapposizione polemica, divenuta tradizionale, dell’universalismo cristiano rispetto al particolarismo ebraico. Non si tratta soltanto, sostiene Rosenstock (che vi insisterà anche nelle lettere successive) del mancato riconoscimento della messianicità del Cristo, ma della ripulsa del messaggio cristiano inteso come annuncio dell’ unificazione dell’intera umanità in una prospettiva di salvezza comune. Recalcitrando di fronte a questa (e a qualunque) prospettiva universalistica l’ebraismo, secondo Rosenstock, si trova così nella condizione paradossale di smentire una parte cospicua del proprio stesso messaggio e di dissociarsi da un fenomeno quant’altri mai intrinsecamente ebraico come il profetismo.
Cercando di reperire, all’interno dell’ebraismo, un possibile equivalente del theologoumenon cristiano circa l’ostinazione ebraica, Rosenzweig chiama in campo una dottrina non molto nota, che costituisce a suo dire la teologia ebraica circa il cristianesimo elaborata dall’ebraismo liberale: il cristianesimo è la “religione figlia” che a poco a poco educa il mondo alle verità dell’ebraismo. Si premura tuttavia di precisare che non si tratta di un’invenzione dell’ebraismo moderno; in verità questa teologia ha radici che affondano nel lontano passato, risalendo almeno all’epoca della scolastica ebraica. La sua versione classica è fornita da un apologo di Yehudah haLevy (1086-1141): il cristianesimo è il grande albero, nato dal seme dell’ebraismo, che ora spande su tutta la terra la sua ombra, ma solo il giorno in cui il suo frutto sarà maturo tutti potranno vedere il seme che vi è contenuto; lo scopo finale dell’immenso albero è infatti il seme che il suo frutto riproduce occultandolo agli occhi di tutti fino alla maturazione, cioè le verità dell’ebraismo a cui il cristianesimo, la “religione figlia” sta educando i popoli della terra.
Rosenzweig inoltre individua nella scandalosa, manifesta diversità che l’ebraismo si ostina a mantenere rispetto al cristianesimo, argomentandola altresì in sede teologica, la ragione vera dell’insorgere dell’antigiudaismo e del proliferare dell’avversione per gli ebrei in molti momenti della storia. Si tratta in certo modo di un’applicazione e di un corollario della dottrina cristiana sull’ostinazione ebraica. Irridendo e dichiarando nulle le motivazioni materiali, economiche, storiche, sociologiche dell’odio per gli ebrei, Rosenzweig passa ad esporne in dettaglio, in uno dei punti più intensi della lettera qui proposta, il fondamento teologico, con un corredo di citazioni bibliche e liturgiche che tratteggiano il profilo della sua interpretazione dell’ebraismo. Egli ribadisce, con un palpabile senso di fierezza, alcuni caposaldi della dottrina ebraica; su Dio: evidenziando lo stretto rapporto tra Dio e la verità (che non può essere infirmato da nessuna effettualità, da nessuna smentita sul piano della realtà, da nessuna sconfitta storica); sul popolo d’Israele: ribadendone l’elezione e la vocazione esclusiva e irrevocata a essere popolo sacerdotale e riservato (santo) a Dio (una condizione per la quale la dimensione esteriore-mondana è irrilevante); sull’unicità e la santità del Dio Uno e Unico: riaffermandone l’incomparabilità e l’assoluta trascendenza (cui è blasfemo accostare troppo anche la più eccellente delle realtà umane).
Rosenzweig non si esime dal trarre da questi assiomi irrinunciabili dell’ebraismo le onerose conseguenze, tanto sul piano spirituale o teoretico che su quello psicologico, procedendo fin dentro all’atteggiamento di reciproca diffidenza e sufficienza che spesso impaccia i rapporti personali tra ebrei e cristiani. Ci troviamo di fronte a indicazioni preziose, che da un lato mostrano un guadagno concettuale che si confermerà nella Stella della redenzione: gli ebrei non solo sono garantiti nella loro funzione escatologica, ma paradossalmente sono già ora “alla meta”, presso il Padre e nell’eternità (per il tramite della loro liturgia e in specie delle feste che attualizzano la redenzione); dall’altro però tali tesi esibiscono anche qualche fragilità dovuta alla sede polemica (nella Stella Rosenzweig sarà ben più cauto e non rischierà, come qui, di annettere all’ebraismo tutta la verità). Propria e riservata unicamente a queste pagine epistolari, quindi confidata in amicale schiettezza, rimarrà invece la folgorante notazione psicologica, uno svelamento del sentire ebraico che non intende dissimularne l’urtante alterità.
Rosenstock, per parte sua, è pronto a riconoscere che l’orgoglio ebraico, in quanto orgoglio dell’elezione, è giustificato rispetto alle nazioni. L’elezione degli ebrei però, secondo lui, è limitata nel tempo, anzi è ormai storicamente esaurita e non è più valida: è stata annullata con la distruzione del secondo tempio nel 70 e. v. Dopo la venuta di Cristo, Israele è un popolo come gli altri, ci sono ormai soltanto delle nazioni, tutte equivalenti, di fronte alla chiesa universale. Nel loro accampare dei diritti dinnanzi a Dio gli ebrei esibiscono in realtà, a parere di Rosenstock, l’arcaismo della loro posizione obsoleta, sono simili in questo a tutti i popoli dell’antichità. Se è vero che gli ebrei sono sopravvissuti agli altri popoli dell’antichità (ribadirà nelle lettere successive), vero è anche che per far ciò hanno abdicato a una vita autentica e si sono consegnati all’insignificanza storico-culturale.
[…]
Il nostro attuale scriver-ci soffre del fatto che da un lato era improcrastinabile e d’altro canto è però prematuro. Sono in grado di vederlo bene, perché sono io il responsabile della grande pausa (inverno 1913/14); allora non mi era proprio possibile scriverLe, benché Lei continuamente mi sollecitasse e se ne avesse a male per il mio silenzio; […]
Mi ero contrapposto a Lei come un punto di vista, come un dato di fatto, alla teoria di me stesso mi aveva costretto soltanto Lei e proprio per questo mi aveva fatto mordere la polvere; avrei volentieri atteso finché mi fossi potuto contrapporre a Lei di nuovo come fait accompli.7 Fino a quel momento avremmo potuto tener reciprocamente pronte le nostre stanze degli ospiti e mettervi dentro dei piccoli vasi di fiori a poco prezzo di sentimenti-reciproci. Questo va bene e avrebbe funzionato.
“A questo punto venne la guerra.”
E con essa l’aspettare controvoglia, le lacune che uno non lascia da sé ad arte, ma quelle che vengono incise ciecamente in ogni vita, e adesso non va più bene attendere con coscienza; ora il destino (siccome ha a che fare con i popoli) con i singoli è così equanime (per indifferenza nei loro confronti) che noi singoli ormai possiamo soltanto essere impazienti, se semplicemente non vogliamo addormentarci (perché il destino ora non ci sveglia di certo). Perciò faute de mieux8 ora discorriamo insieme teoreticamente. Per questo però ciò che ci diciamo è anche imperfetto, imperfetto non come la vita che scorre, la quale ad ogni istante si rende nuovamente perfetta, ma pieno di imperfezioni stazionarie, di cose deformate.
Lei “mi lascia in pace”, Lei “non sa perché”, Lei “davanti a me cessa”9… io nondimeno rispondo e Le rispondo in modo teoreticamente ineccepibile, interessante, Lei sarà d’accordo. Lei verrà a sapere che cosa sto a fare su quella galera…10 ma sarebbe meglio che Lei non fosse d’accordo, che Lei non sapesse, Lei mi ha visto semplicemente partire su una galera, senza sapere che cosa ci facessi, invece, adesso, la mia galera è ferma dall’inizio della guerra in un porto neutrale e io mi procaccio l’affetto del Suo spirito, perché la vis major della guerra mi impedisce di guadagnarmi l’odio della Sua volontà, siccome nella mora11 attende in agguato il periculum dell’indifferenza, dell’ al di là di odio e amore, e tra tutte questa sarebbe la cosa peggiore.
Entriamo dunque in argomento. Lei poteva formulare la sua perplessità anche in modo più forte, forse lo farò io per Lei più tardi; dapprima restiamo all’interno della Sua formulazione.12 Sì, l’ostinazione degli ebrei è un dogma13 cristiano; lo è in misura tale che la chiesa, dopo aver formato, ancora nel primo secolo, il suo dogma vero e proprio, la parte sostanziale (su Dio e sull’uomo) ha utilizzato l’intero secondo secolo (e, considerando i postumi del male anche il terzo e il quarto; ancora Agostino ci si è confrontato di persona, mentre la chiesa lo aveva oltrepassato da tempo) a stabilire fermamente questo “secondo dogma” (la parte formale del suo dogma, cioè la sua coscienza storica), insomma lo è in tal misura che è su questo punto che essa è divenuta chiesa della Scrittura, anzi chiesa della tradizione (invece che dello Spirito) cioè la chiesa vera e propria, la chiesa che la storia conosce. La teoria di Paolo circa il rapporto tra evangelo e legge avrebbe potuto rimanere una “teoria personale”, la chiesa (dello Spirito) ellenizzante (Vangelo di Giovanni) del primo secolo non se ne occupava più che tanto, nella grandiosa ingenuità dei pneumatici;14 poi venne la gnosi, puntò il dito su Paolo – cercò di scorporare dalla sua teoria l’elemento teoretico personale e di sviluppare quello oggettivo contro quello personale in lui (Paolo diceva: gli ebrei sono rigettati, ma Cristo ci è venuto da loro; Marcione15 diceva: quindi gli ebrei sono del diavolo e Cristo è di Dio). Poi alla chiesa, che fin qui era stata, del tutto ingenuamente, nella sua propria gnosi (in Giovanni sta scritto che la salvezza viene dagli ebrei)16 si aprirono improvvisamente gli occhi, scartò il pneuma a favore della tradizione, fissò questa tradizione mediante un grande ritornar al segno,17 al suo (della tradizione, naturalmente) punto d’aggancio, al suo fondatore, Paolo, nel mentre veniva costituendo, e adesso consapevolmente, a dogma la teoria personale di Paolo, stabilendo l’identità del creatore (e del rivelatore al Sinai) con il padre di Gesù Cristo18 da un lato e la piena umanità di Cristo dall’altro come shibboleth19 reciprocamente condizionanti contro tutte le eresie e così facendo si costituì come potenza della storia umana – ciò che segue lo sa Lei più esattamente di me. (N.B. ho appena letto appunto tutto questo in Tertulliano, […]) L’ostinazione degli ebrei è quindi nel mantenimento dell’A.T20 dentro al canone e nella costruzione della chiesa su questo doppio “foglio di carta” (A.T. e N.T.) veramente l’altra metà (formale dell’autocoscienza) del dogma cristiano (il dogma della chiesa, se si vuole designare il Credo stesso come il dogma del cristianesimo).
Ma può essere anche un dogma ebraico? Proprio questo? Persino ciò è possibile ed è reale. Ma questa autocoscienza della reiezione tiene un posto totalmente diverso nella dogmatica e sarebbe il contrapposto ad una autocoscienza cristiana dell’elezione alla signoria, e questa autocoscienza è senza dubbio presente. Tutta la valorizzazione religiosa dell’anno 7021 è accordata su questa tonalità. Ma il parallelo che Lei vuole è tuttavia un altro: al dogma della chiesa circa il suo rapporto con l’ebraismo deve corrispondere un dogma dell’ebraismo circa il suo rapporto con la chiesa. E quest’ultimo è quanto Le è noto solo come la moderna teoria dell’ebraismo liberale sulla “religione figlia” che a poco a poco educa il mondo all’ebraismo.22 Questa teoria però in verità deriva dall’epoca classica della formazione dei dogmi entro l’ebraismo, dalla scolastica ebraica anteriore, la quale cade temporalmente (ed anche contenutisticamente) proprio in mezzo tra quella araba e quella cristiana (Al Gazali-Maimonide-Tommaso). […] E certo anche per noi non è radicato nella sostanza del dogma; anche presso di noi viene formato non solo dai contenuti della coscienza religiosa, ma nella stessa misura come un secondo strato, uno strato di sapere che circonda il dogma. La teoria della religione figlia si trova presso entrambi i massimi esponenti della scolastica, in passi tra i più evidenti. Inoltre, non come dogma, ma come mistica […] si trova nella letteratura della sinagoga antica, quindi nell’epoca talmudica. Ritrovarla qui è certo una questione di comprensione. Infatti mentre nella nostra scolastica il dogma sostanziale viene fondato sul jus canonicum fissato nel Talmud (cioè sulle determinazioni circa il processo per bestemmia) la connessione tra la mistica antica e la filosofia medievale è quella, libera, dello spirito religioso del popolo e non quella del riferimento obbligato al passato. Ma voglio metterla a parte di una leggenda di questo tenore: Il Messia è già nato nell’istante in cui il tempio è stato distrutto; ma non appena fu nato i venti lo strapparono via dal grembo di sua madre. E ora vaga sconosciuto attraverso i popoli e solo quando li avrà attraversati tutti verrà il giorno della nostra redenzione.23
Così il cristianesimo come potenza che riempie il mondo (secondo le parole di uno dei due esponenti della scolastica, Yehudah ha-Levy: l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e fa ombra su tutta la terra, ma il suo frutto conterrà di nuovo il seme di cui nessuno però, vedendo l’albero, seppe accorgersi)24 è un dogma ebraico, tanto quanto l’ebraismo come ostinata origine ed ultimo dei convertiti è un dogma cristiano.
Ma che significa questo per me? A prescindere dal fatto che lo so? Che cosa significa questo dogma ebraico per l’ebreo? Certo probabilmente non appartiene ai dogmi del gruppo sostanziale, che, proprio come quelli cristiani corrispondenti, potrebbero essere ricavati da un’analisi della coscienza religiosa. Esattamente come quello cristiano analogo, è in primo luogo un theologoumenon. Ma anche i theologoumena devono significare qualcosa per la religiosità. Che cosa quindi?
Che cosa significa per i cristiani il theologoumenon cristiano circa l’ebraismo? Se devo credere alla terzultima (o quartultima?) lettera di Eugen Rosenstock: nulla. Infatti mi ha scritto che König e lui sarebbero oggi gli unici a prender ancora sul serio l’ebraismo.25 Già allora mi veniva spontanea la risposta che su questo punto non importa affatto la coscienza teorica, bensì importa se un prender-sul-serio pratico ha reso reale in modo permanente il contenuto del theologoumenon. Questo pratico prender-sul-serio in cui il theologoumenon dell’ostinazione ebraica diviene realtà è l’odio verso gli ebrei. Lei sa bene quanto me che tutte le sue pretese motivazioni realistiche sono solo dei mantellucci alla moda drappeggiati a dissimulare l’unico vero fondamento metafisico, il quale, formulato in termini metafisici suona: che noi non cooperiamo alla finzione, che vince il mondo, del dogma cristiano, perché essa, (benché realtà) è una finzione (e fiat veritas, pereat realitas, perché “Tu, Dio sei verità”)26 e formulato con buona cultura (da Goethe nel Wilhelm Meister): che noi neghiamo i fondamenti della civiltà attuale (e fiat regnum Dei, pereat mundus, perché “un regno di sacerdoti dovete essere per me e un popolo santo”)27 mentre formulato senza cultura alcuna: che abbiamo crocefisso Cristo e, creda a me, lo faremmo di nuovo, sempre, noi soli su tutta la terra quant’è grande (e fiat nomen Dei Unius, pereat homo, perché “a chi mi potete paragonare cui io somigli ?”).28
E così la corrispettiva realizzazione ebraica del theologoumenon circa il cristianesimo come antesignano è l’orgoglio ebraico. È difficile da descrivere a un estraneo. Quello che Lei ne vede le risulta insulso e piccino (così come all’ebreo è pressoché impossibile vedere e giudicare l’antisemitismo altro che secondo le sue espressioni volgari e stupide). Tuttavia (sono di nuovo costretto a dirle: creda a me!) il suo fondamento metafisico è, di nuovo secondo le tre formulazioni di cui sopra: 1. che noi abbiamo la verità, 2. che noi siamo alla meta e 3. che qualsivoglia ebreo, in fondo alla sua anima, troverà il rapporto cristiano con Dio, quindi la religione in senso proprio,29 in verità altamente meschino, misero e macchinoso: in special modo il fatto che si debba apprendere soltanto da qualcuno, chiunque egli sia, a chiamare Dio nostro padre; questo è invece, penserà l’ebreo, la prima e la più naturale delle cose – che bisogno c’è di un terzo30 tra me e il mio padre nei cieli? Questa non è un’invenzione dei moderni apologeti, bensì il semplice istinto ebraico, un misto fatto del trovar-incomprensibile e di compassionevole disprezzo.
Questi sono i due punti di vista, entrambi ristretti e limitati appunto in quanto tali e perciò in teoria entrambi superabili; si può comprendere perché l’ebreo possa concedersi la sua immediatezza alla prossimità con Dio ed al cristiano non sia lecito, ed anche capire con che cosa l’ebreo debba pagare per quella fortuna; posso elaborare questo nesso nel più sottile dei modi, esso è sempre ulteriormente intellettualizzabile (infatti scaturisce in ultima analisi da quel grande, vittorioso irrompere dello spirito nel non spirituale che si usa chiamare “rivelazione”). Però…
Però – ora voglio formulare la sua questione in modo tale che diventi feconda per me – ma un tale intellettualizzare in quanto attività conoscitiva, che apre la strada, che agisce sul futuro (come ogni attività culturale) non è forse cosa cristiana e invece non è cosa ebraica?31 Sei ancora ebreo nel mentre fai questo? Non appartiene forse a quelle cose con cui la sinagoga paga la fortuna, anticipata per tutto il mondo, di essere già presso il Padre il fatto che essa porta la benda dell’inconsapevolezza davanti agli occhi? È sufficiente che tu rechi in mano la verga spezzata, come fai – e io voglio crederti – ma tolga la benda dagli occhi?32
A questo punto cessa la levigata chiarezza delle antitesi, qui inizia il mondo del più e del meno, del compromesso, della realtà, o come dice in modo molto bello la mistica ebraica dell’alto medioevo per “mondo della realtà, della cosalità”, il “mondo della effettività, della fattualità” e perciò, come anch’io qui preferisco dire: il mondo dell’azione. Per me l’azione soltanto può qui decidere – ma persino se per me ha deciso, io ho bisogno ancor sempre di… indulgenza! Non che qui il pensiero rimanga del tutto indietro; ma non procede più, come prima, su una orgogliosa, assicurata via maestra con avanguardia, copertura ai fianchi e innumerevoli salmerie, ma avanza solitario su un sentiero, in abiti da viaggio. Ad esempio così:
Lei ricorda il passo in cui il Cristo giovanneo dichiara ai suoi discepoli che essi non devono abbandonare il mondo, ma rimanere nel mondo?33 Altrettanto potrebbe dire il popolo d’Israele, il quale potrebbe anch’esso pronunciare assolutamente tutti i discorsi di questo vangelo, ai suoi membri (e di fatto lo dice – “santificare il nome di Dio nel mondo” è un’espressione molto usata). Di qui proviene tutta l’ambiguità della vita ebraica (così come di qui proviene tutta la motilità [Bewegtheit] di quella cristiana); l’ebreo nella misura in cui è “nel mondo” si trova sotto queste leggi, e nessuno può dirgli: fino a questa e questa distanza ti è concesso e questo è il tuo confine, infatti un semplice “il meno possibile” sarebbe una cattiva norma perché a certe condizioni, se io volessi imporre al mio agire complessivo la norma “il meno extraebraico possibile”, ciò significherebbe anche un immiserire la resa intraebraica. Così mi dico in generale “il più possibile intraebraico”, ma so che nel singolo caso non posso mai vietarmi, angosciosamente, il quantum di extraebraico. So però che così facendo ai vostri occhi mi rendo colpevole del crimine di assenza di anima. Posso esser pienamente responsabile del mio agire solo nel suo punto centrale e all’origine, nelle sue periferie mi sfugge. Ma devo io per questo, per rinforzare queste opere di difesa esterna, lasciar diroccare la fortezza? Devo “convertirmi”, laddove sono “eletto” per nascita?34 Esiste davvero per me questa alternativa? Sono salito soltanto a caso su quella galera? Non è forse la mia nave? Lei mi ha conosciuto a terra, non ha quasi notato che la mia nave stava nel porto, a quel tempo io mi aggiravo più del necessario nelle bettole del porto e così Lei poté chiedersi che cosa intendessi mai fare su quella nave. E credermi davvero, che quella nave è la mia e che perciò io vi appartengo (pour faire quoi? y vivre et y mourir) credermi davvero su questo punto Lei lo può e lo farà quando il viaggiare sarà di nuovo libero e io partirò.
Oppure quando ci incontreremo fuori in mare aperto? Lei è in grado…
[…]
E poi un favore: Le ho inviato da bravo i miei pensieri concentrati in forma di pillole conforme al peso postale consentito ed alla mia carenza di carta da lettera35 (versandovi sopra un litro di acqua bollente ciascuno produce una borraccia da litro piena di caffè forte); mi restituisca il pari valore e cioè mi spieghi il suo attuale concetto del rapporto tra natura e rivelazione. Il fatto che questo in Lei sia cambiato non è avvenuto soltanto durante la guerra, bensì già nella primavera del 191436 nei colloqui Lei usava il concetto di “paganesimo” in un modo che non capivo. Dove si trova Lei tra lo E. R. della notte del 13 luglio 191337 e Kierkegaard? Lo chiedo così apertamente e inurbanamente perché… già, proprio soltanto perché grazie alle mie pillole cosi rotonde mi sono procurato il diritto, se non alla risposta (lo so bene), almeno però alla domanda.
[…]
Ancora una domanda aggiuntiva: Per Lei il linguaggio non ha più l’importanza che aveva allora? Lei non potrebbe più esprimere tutto ciò che intende dire, parlando del linguaggio? La saluta di cuore il38 MITTENTE.
Eugen Rosenstock a Franz Rosenzweig
Lei mi domanda le cose con una formulazione così corretta, pubblica, universalmente valida che davanti ad essa rimango interdetto: così non ho mai domandato finora e di conseguenza non so neanche rispondere. Mi viene in mente qualcosa, oppure qualcosa mi balza agli occhi. Il che è poi una pietra d’inciampo per la celletta del pensatore. Alla fine si è di nuovo disincagliato. C’est tout. Io non penso in modo simultaneo ma per bisogno e con il mio bisogno, un pensiero dopo l’altro. E questa temporalità del mio pensiero è appunto l’alfa e l’omega, a partire dalla quale io abbraccio poi di nuovo tutto. Il linguaggio rappresenta ancora visibilmente questo processus anche per chi è filosoficamente contaminato. Perciò in precedenza preferivo parlare di linguaggio piuttosto che di ragione.
Natura e rivelazione: stessa materia, opposta esposizione alla luce. Quanto più quotidiana la cosa, tanto più manifesta e più rivelata può diventare. Soltanto le invenzioni dell’uomo e i suoi soggettivismi, le specialità, non possono venir rivelate perché non sono mai state naturali, pane e vino invece sì. La fede è una capacità [Vermögen] che solo chi è moralmente sano possiede pienamente, che per l’impurità si spezza e di dissolve, ed è assai saldamente comparabile a qualsivoglia altra forza naturale. Cristo ci ha fatto da mediatore per l’irruzione di questa forza, qui in terra latente, legata, nell’universo, dalla parte del cielo.39 Là dove prima c’era unicamente il grembo di Abramo40 vi è ora vivente eternità e ascesa degli spiriti di stella in stella. La rivelazione significa associare anche la nostra coscienza a questa connessione di universo e cielo che si spinge oltre la terra. La questione che Lei pone: “natura e rivelazione” io posso comprenderla solamente come “ragione naturale e rivelazione”. Natura e rivelazione infatti non sono comparabili. La ragione naturale conosce dunque davanti e dietro, a sinistra e a destra e in questa quadripartizione [Geviert] si aiuta con una rete di analogie. Essa compara e claudicando si spinge oltre da un posto all’altro nell’immenso spazio. Il giurista è la ragione più virile, la quale con l’aiuto dell’analogia è in grado di fare della notte un sottocaso del giorno e in questo modo, mediante una processione a salti come quella di Echternach,41 assimila infine il mondo dei fenomeni a se stessa in misura tale che persino sole, luna e stelle vengono poi riferite a lei. (NB. Come l’uomo mediante comparazione attinge quanto è più estraneo, così la donna grazie alla moda rende estraneo al massimo grado ciò che è eternamente uguale. Entrambe le cose sono zoppaggini. Nessuna meraviglia se, come Lei nota, vivo patrimonio universale può divenire solamente ciò che è attingibile a uomo e donna e dimostra così, quanto meno attraverso uno zoppicare dall’una e dall’altra parte, di camminare in modo quasi umano).
La decisione di assumere in questo spazio quadripartito [Raumgeviert] la propria posizione non già come centro conoscitivo, bensì come condizionata dall’alto, questa rinuncia ad essere omfalòs kòsmou,42 non è più questione soggetta alla ragione umano-naturale, ma è quella facoltà in noi che la rivelazione a noi, in noi e per noi rende possibile. Quindi la “dipendenza assoluta” di cui parla Schleiermacher non può essere compresa esteriormente come sentimento del destino, ma deve essere intesa come una illuminazione.43 Se però pensare e parlare costituiscono un durevole rapporto di scambio tra dare e prendere, ed entrambi insieme un dono unitario al genere umano, allora a questa dualità è certo possibile un duplice operare. Lei può credere alla loro autonomia. I kantiani, con un’accentuazione assurda, credono ad una autonomia del pensare. Il dato di fatto della scienza, per contro, testimonia soltanto a favore di una certa autonomia dei coniugi linguaggio e ragione. Infatti una certa fiducia in se stessa della ragione e un certo confidare nel linguaggio sono entrambi parimenti indispensabili per colui che vuole sapere. Tutto questo sapere autonomo è però “privo di misura“, poggiato solo sull’esperienza, senza un dòs moi poù stò.44 Io lo chiamo pensiero lussureggiante. Infatti gli succede quello che capita alle erbacce. Non muore mai. Senza sentore alcuno di un qualche métron pànton45 si propaga lietamente e “spregiudicatamente” tutt’intorno, e questo tipo di sapere vive in ogni epoca.46 È patrimonio popolare; per éthnos preferisco dire popolo invece che pagani.47 Vive nel medioevo con altrettanta potenza che oggi, ed in possenti ondate oppone resistenza alla rivelazione, alle due spade, imperatore e papa.48 La sua eruzione più possente è quella del 1789. Questa ha portato il cristianesimo protestante ad essere completamente minato, ed oggi esso minaccia in molti modi di diventare un semplice teismo privo di mediatore, di conversione, privo di quel legame dal cielo alla terra che stabilizza lo spazio mediante il concetto di sopra come un rocher de bronze.49 Questo teismo è totalmente sullo stesso piano di quello dei popoli allo stato di natura e così via. È un fiacco residuo, l’eco di un tempo remoto, così come vengono visti oggi i frammenti di cultura di quei popoli primitivi, come resti ed echi. Questa fede natural-popolare in Dio è dunque antico patto senza patto né legge, in ogni caso extra e pre-cristiano. Perciò nel 1914 io, mi pare, dicevo: paganesimo.
Questo paganesimo è oggi in tanto dominante in tutte le chiese, in quanto la scienza si adopera a vivere “priva di presupposti”,50 praecipue Harnack, che vi prende parte in perfetta buona fede, ma purtroppo ha più rispetto per la scienza che per Dio o per la parola di Dio.
Adesso viene un punto decisivo. Il linguaggio, il lògos è in tutti questi popoli [Volkstum] – éthne dell’antichità, nazioni di oggi – impaniato in se stesso e solo perciò è così sconfinatamente spregiudicato.51 Esso scaccia il diavolo servendosi di Belzebub, mette in crisi un’analogia mediante l’analogia successiva, un paragone mediante una nuova immagine. Ogni spirito “naturale” è metafisico senz’averne alcun sentore. Siccome segretamente inorridisce davanti a questa sua impotenza, davanti al suo puro attorcersi come un verme attraverso lo spazio, egli ha denominato d’autorità concetti le metafore di volta in volta diventate inviolabili. Verso di essi egli batte in ritirata, come fossero fortificazioni in cemento armato,52 per poter sostenere una “inattaccabilità” dello spirito naturale. I concetti, che sono le metafore dell’altro ieri, le analogie di ieri, condannano lo spirito popolare al suo astorico modo di pensare per stereotipi; bene ereditario che a nessun prezzo può essere esaminato ed identificato per tale. Persino in presenza della più recisa critica biblica i protestanti credono di poter leggere “il loro” Nuovo Testamento senza lo Spirito Santo della chiesa e non leggono con l’aiuto degli ultimi duemila anni, bensì senza e contro di essi.53 Per lo spirito popolare con il tempo la va allo stesso modo che con lo spazio. Anche qui esso vorrebbe dimenticare il termine di riferimento [Maß] – cioè il computo temporale ab anno Domini. Come spazialmente sussiste senza un sopra, così pure vegeta la sua vita soggettiva senza il mito del computo temporale, senza il profondo: “Se non son morti sono vivi ancor oggi”.54 A questo scopo si è creato lo spazio dei concetti, ossia il vuoto d’aria, con il quale fabbrica alle sue capriole un fondale di teatro artificiale fatto di patrimonio linguistico e spirituale cartaceo, pietrificato. Se non lo facesse, allora dovrebbe anche, di necessità, diventare per certo matto, demente. Perché a lui, allo spirito naturale si dispiegherebbe davanti un regressus in infinitum; paventandone e tremandone si tiene al cemento all’interno dell’arena spirituale, si aggrappa quindi alla sua stessa creatura la quale peraltro era stata grossolanamente collocata da un soggetto tanto e tanto più antico, ma tuttavia appunto in un modo altrettanto supremamente soggettivo. Il timore dello sconvolgimento dell’io ingenuo, che è termine di riferimento [Maßseiende] – è quello che inganna lo spirito “naturale” circa la signoria su spazio e tempo. Qui s’innesta la dottrina sul lògos del Salvatore. Il lògos viene redento da se stesso, dalla maledizione di rettificarsi sempre soltanto in se stesso. Entra in collegamento con il conosciuto. – “La parola si fece carne”55 – su questa frase si regge probabilmente tutto. Mentre la parola umana deve diventare sempre concetto e così irrigidimento e degenerazione, Dio ci parla attraverso la parola di carne, attraverso il Figlio. E così la rivelazione cristiana è la salvezza dalla confusione babelica, l’esplodere delle prigioni, e al tempo stesso però il sigillo apposto alla lingua rinnovata, il linguaggio ora vivificato. Da quel momento vale la pena di pensare di nuovo56 perché il pensiero possiede un termine di confronto al di fuori di sé, nel visibile avanzare di Dio.
Comprenderà ora in quale esigua misura io possa reperire nel cristianesimo la giudeizzazione dei pagani?57 Ciò da cui Cristo ci redime è anzi proprio la sconfinata ingenua superbia degli ebrei, a cui Lei stesso fa ricorso. Di fronte ai balbettanti 372 popoli dotati di parola questa fierezza era ed è certo ben fondata. E per questo Giuda è stato scelto e tratto fuori di tra tutti i popoli58 della sfera terrestre, fino alla distruzione del tempio.59 – Ma il cristianesimo redime il singolo da famiglia e popolo mediante la nuova unità di tutti i peccatori,60 di tutti gli affaticati e oppressi.61 Questa è la cristianità e la sua comunione mediante la stessa umana miseria. – La mia scatola cranica sta smettendo di funzionare e sto diventando stupido. So soltanto che ora vorrei diventare eloquente a proposito del peccatum originale e della superbia judaica, ma la macchina gira a vuoto. Soffro ora di una stanchezza tale che Lei deve adattarsi. Credo anche di starLe scrivendo sempre la stessa cosa. Le voglio bene. Fortunatamente Lei non sa che cosa sta facendo. Suo Eugen R.
1 Franz Rosenzweig (nelle note = FR) nasce a Kassel nel 1886 da una famiglia ebraica altoborghese. Studia filosofia a Berlino e Friburgo con Rickert e Meinecke e dal 1913 si riappropria della propria identità ebraica entrando in contatto con Hermann Cohen. Le vicende della sua mancata conversione al cristianesimo sono esposte nel corso di questa nota introduttiva. Nel momento in cui tiene questo carteggio è mobilitato in un reggimento di artiglieria e si trova sul fronte macedone. Dopo la fine della guerra pubblica la tesi dottorale Hegel e lo stato e la sua opera teoretica più importante La stella della redenzione (1921; 2° ed. it. Milano Vita e Pensiero 2005), lavoro originale in cui esprime una posizione assai lontana dalle forme della filosofia accademica. Nel 1920 fonda con Martin Buber, e dirige per qualche anno, un istituto per la formazione ebraica degli adulti, il “Freies jüdische Lehrhaus” a Frankfurt am Main. Poco dopo intraprende con Martin Buber una nuova traduzione della Bibbia ebraica, che lascerà incompiuta per l’avanzare di una paralisi progressiva (SLA) che lo porterà alla morte nel dicembre 1929.
2 Eugen Rosenstock (dopo l’emigrazione Rosenstock-Huessy = ER) amico e interlocutore di primaria importanza di Franz Rosenzweig, nasce nel 1888 a Berlino da famiglia ebraica assimilata, parente lontana dei Rosenzweig. Convertitosi al cristianesimo nel 1904, dopo avere compiuto studi di diritto tenne lezioni di storia del diritto costituzionale medievale a Lipsia (dove nel semestre invernale 1912/13 FR lo frequentò approfondendone la conoscenza). Dopo la guerra si occupò, tra l’altro, di formazione degli adulti, editando la Daimler-Werkzeitung, fondando e dirigendo la Akademie der Arbeit a Frankfurt am Main e prendendo parte nel 1928 ai Löwenburger Arbeitslagern für Arbeitern, Bauern und Studenten. Dal 1923/4 fu professore di scienza del diritto e sociologia a Breslavia. Espulso dalla Germania nel 1933, insegnò in parecchie università statunitensi e dopo il 1950, come professore ospite, tenne lezioni anche a Göttingen, Münster e Bonn. Mori nel 1973. Tra le sue opere: Angewandte Seelenkunde, Darmstadt 1924, Ja und Nein. Autobiographische Fragmente, Heidelberg 1968.
3 L’epistolario di FR è ora in gran parte accessibile in Franz Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften I: Briefe und Tagebücher, (2 B.de), hg. von Rachel Rosenzweig und Edith Rosenzweig-Scheinmann unter Mitwirkung von Bernhard Casper, Haag 1979. 1. Band 1900-1918; 2. Band 1918-1929. (= W I, 1 e 2); quello di ER è conservato nei The Eugen Rosenstock-Huesssy Archives. Sia la prima edizione dell’epistolario rosenzweigiano (FR Briefe, Berlin, Schocken 1935) che quella attuale (su cui si basa la traduzione) riportano, per questo carteggio del 1916, anche il testo delle risposte di ER.
4 Il progetto venne realizzato soltanto a distanza di mezzo secolo e in inglese. Cfr. Eugen Rosenstock-Huessy (cur.), Judaism Despite Christianity: The “Letters on Christianity and Judaism” between Eugen Rosenstock-Huessy and Franz Rosenzweig, Alabama, Alabama Univ. Press 1969. Il volume contiene inoltre un’introduzione di Harold Stahmer, due saggi di Alexander Altmann e Dorothy M. Emmet e una lettera dal titolo, Hitler and Israel, or on prayer, di ER a Cynthia Harris in data 19 ottobre 1944. A mia volta ne ho procurato la versione italiana (dal tedesco) in F. Rosenzweig- E. Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, Genova, Marietti 1992, alla cui estesa introduzione rinvio il lettore interessato.
5 Königshaus und Stämme in Deutschland zwischen 911 und 1250, Leipzig 1914, reprint Aaleen 1965.
6 Disponibile in italiano in Franz Rosenzweig, La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, cur. G. Bonola, Roma, Città nuova 1991, pp. 286-291.
7 fatto compiuto: FR compendia in quest’espressione concisa e poco perspicua quanto non è riuscito a realizzare. Si era proposto di riprendere contatto con l’amico soltanto dopo avere dato corpo alla sua decisione di rimanere ebreo (con cui si era distaccato e allontanato da ER) mediante un’effettiva pratica di vita ebraica e un impegno concreto all’interno dell’ebraismo tedesco.
8 In mancanza di meglio: l’attuale relazione tra i due amici, suggerisce FR, potrebbe essere falsamente irenica perché le manifestazioni concrete della loro diversa appartenenza di fede sono al momento sospese a causa della guerra.
9 Sono tutte espressioni presenti nella lettera di ER del 4. 10. 1916, con cui questi esprimeva la sua volontà di rispettare la decisione di rimanere ebreo presa da FR. Cfr. La radice che porta cit., p. 82.
10 Non si comprende il ragionamento di FR, imperniato sulla metafora della galera (che in questo caso rappresenta l’ebraismo), se non si richiama la citazione scherzosa, fatta da ER nella lettera del 4. 10. 1916 di una battuta dal Pedant joué di Cirano de Bergerac. Nella commedia il padre del protagonista, ricevendo la notizia che il figlio era stato rapito dai turchi su una galera, fraintende la situazione e sbotta: “Ma che diavolo c’è andato a fare su quella galera?” Cfr. La radice che porta cit., p. 83.
11 In latino nel testo, come prima ‘vis major’ e poco dopo ‘periculum’.
12 Nella medesima lettera ER si chiedeva se e come l’ebraismo avesse tematizzato il proprio rapporto con Dio a partire dalla sua esperienza storica di minoranza perseguitata in questi termini: “L’ostinazione ebraica è, per così dire, un dogma cristiano. Ma è, può essere anche un dogma ebraico?” Cfr. La radice che porta cit., p. 82.
13 Il termine ‘dogma’ viene qui introdotto secondo il suo senso greco di ‘insegnamento’, non come espressione tecnica che all’interno del cattolicesimo designa le verità che tutti i fedeli sono tenuti a credere. Più avanti FR stesso lo sostituirà con il più corretto ‘theologoumenon’.
14 La figura della chiesa pneumatica fondata sul vangelo di Giovanni, vista come alternativa perdente rispetto alla chiesa paolina (e a quella petrina), è già presente in Lessing e in Schelling, e verrà riproposta da FR in forma più compiuta nella
15 Marcione (85c.a-160c.a) eretico e fondatore di una chiesa scismatica, nelle cui dottrine sono presenti temi più tardi sviluppati dallo gnosticismo. Distingueva tra una divinità inferiore, il Dio creatore e signore del mondo, il rigoroso assertore della legge, che è all’origine della materia e del male (identificato con il Dio veterotestamentario) e il Dio buono, vivente nell’alto dei cieli, il Dio assoluto dell’amore annunciato e reso vittorioso dalla venuta di Gesù Cristo. Per fondare la sua posizione riconosceva come Sacre Scritture soltanto il vangelo di Luca e le lettere di Paolo, sul cui testo intervenne selettivamente.
16 Gv 4,22.
17 In italiano nel testo.
18 Per FR la chiesa compie la prima grande scelta di campo, decisiva per tutto il suo futuro destino ribadendo, contro Marcione e tutto lo gnosticismo, che il Dio buono a cui Gesù si rivolge con l’appellativo di ‘padre’ è l’artefice della creazione e il Dio di Israele. Di conseguenza conservò la Sacra scrittura ebraica all’interno del proprio canone biblico come Antico Testamento.
19 Vale qui come: “punto discriminante”.
20 L’annessione dell’A.T. da parte cristiana, insieme alla sua esegesi unilateralmente ‘cristologica’, rifiutata da parte ebraica, sta alla base della dottrina cristiana circa l’ostinazione degli ebrei (il popolo dalla ‘dura cervice’), che continuano pervicacemente a rifiutare il battesimo.
21 La caduta di Gerusalemme e la conseguente distruzione del tempio ad opera dei Romani segnarono la fine del culto quotidiano esercitato dai sacerdoti e delle pratiche sacrificali prescritte dalla Torah. La riflessione teologica dell’ebraismo interpretò questi eventi nefasti come una punizione per i peccati commessi dal popolo ebraico, ma FR ritiene che non sia su questo che ER gli chiede di esprimersi.
22 Un’esposizione più articolata di questa concezione si trova nel paragrafo successivo.
23 Talmud babilonese, trattato Echa Rabba 1, 57.
24 Cfr. Yehudah ha-Levy, Il re dei Khàzari, (Kuzari), Torino 1960, p. 221s.; tema ripreso da FR anche nella Stella della redenzione, ed. cit. p. 388s.
25 Nella lettera del 19. 7. 1916 in effetti ER aveva sostenuto: “Chi c’è che prenda ancora sul serio Israele e chi l’ebreo (errante) eterno? Io vedo ormai soltanto… König e Lei! Atteggiamento cui peraltro mi associo come terzo aderente.” Cfr. La radice che porta, cit., p. 66. – Di Eduard König, professore di teologia evangelica a Bonn, ER aveva fatto pervenire a FR un piccolo scritto sull’ebreo errante: Ahaswer. Der ewige Jude, Gütersloh 1907, e poco dopo (su richiesta) anche Die Geschichte der alttestamentlichen Religion, Gütersloh 1912. König aveva appena pubblicato un’opera sull’antigiudaismo cristiano: Das antisemitische Hauptdogma beleuchtet, Bonn 1914.
26 Dalla preghiera per rosh hashanah (sulla base di Ger 10, 10, dove però tanto da Lutero che da Buber il termine ‘verità’ è interpretato diversamente).
27 Es 19,6.
28 Is 4O,25.
29 Nel testo è abbreviato i. e. S. (che interpreto im eigentlichen Sinne).
30 Il motivo della negazione del ruolo del mediatore è il perno del ragionamento di FR. Questa illuminante menzione dell’atteggiamento psicologico profondo con cui gli ebrei reagiscono alle dottrine del cristianesimo resterà un unicum, consegnato solo a questa lettera.
31 FR pare non credere alla diffusa idea, sfruttata anche dagli antisemiti, secondo cui gli ebrei sarebbero inclini a una intellettualizzazione abnorme in tutti gli ambiti dell’esistenza.
32 FR si riferisce qui alla polemica immagine medievale che rappresenta la sinagoga come una figura femminile bendata nell’atto di avanzare a tentoni reggendosi a una canna fessa.
33 Gv 17,15.
34 FR trae le conseguenze della sua posizione facendo intravedere a ER, da altra angolazione, le ragioni del suo rifiuto di diventare cristiano alcuni anni prima.
35 La penuria di carta è uno dei pochi dettagli di questo carteggio (a parte qualche metafora di origine militare) che ci permettono di percepire il condizionamento della realtà esterna, la guerra in corso, sugli interlocutori e sulla loro vita.
36 Bisogna supporre che a FR siano giunte, per via indiretta, notizie precise dei discorsi tenuti da ER in questo periodo in cui non si frequentavano.
37 Data in cui si era svolto il confronto dialettico tra FR e ER, a conclusione del quale il primo si era impegnato a diventare cristiano. Da allora i due amici non si erano più incontrati di persona.
38 Utilizzando la dicitura a stampa della cartolina postale militare.
39 ER ribadisce il ruolo di Cristo come mediatore, soprattutto per quanto concerne il dono della fede, un concetto che qui appare duplice, insieme ultraterreno e naturale.
40 Ossia l’ebraismo come religione etnica, riservata al popolo ebraico.
41 La processione annuale dei pellegrini nell’abbazia benedettina di Echternach (Lussemburgo) si svolge compiendo tre salti in avanti e due indietro.
42 “ombelico dell’universo”.
43 Per F.D.E. Schleiermacher (1768-1834) filosofo e teologo, caposcuola della teologia liberale, l’esperienza religiosa ha al suo centro non un momento noetico bensì intuitivo/emotivo, che si precisa come il sentimento di una ‘dipendenza assoluta’ del singolo uomo dall’entità trascendente.
44 Si tratta della richiesta di Archimede “datemi un punto d’appoggio…”.
45 “misura di tutte le cose”. Allusione al noto detto di Protagora.
46 La forza della posizione di ER consiste nell’affermare la necessità di un punto di vista assoluto, quello della rivelazione (cristiana) che metta fine alle incertezze connesse al relativismo.
47 Tradurre éthnos con ‘popolo’ invece che ‘pagani’ implica però una torsione rispetto alla radice di questa nozione, che è veterotestamentaria e implica la contrapposizione tra gli ebrei e ‘le genti’.
48 La ragione naturale non è per ER una realtà emersa nella modernità, ma una costante della storia dell’umanità.
49 ER manifesta la sua insoddisfazione per la teologia protestante coeva, in cui vorrebbe vedere presente con maggior forza una decisa affermazione della trascendenza. Esigenze come questa saranno tra pochi anni all’origine della teologia dialettica di Karl Barth e della sua cerchia.
50 Il presupposto della scientificità è appunto questo assioma. Di qui l’accusa alla teologia luterana liberale, nella figura del suo esponente maggiore, Adolf von Harnack (1851-1930), di essere più fedele alla scienza storica che alla rivelazione.
51 Nel testo c’è un gioco di parole intraducibile tra befangen (impaniato) e unbefangen (spregiudicato).
52 La metafora tradisce una consuetudine con i fortilizi dovuta alla situazione di ER, che si trova sul luogo in cui è in corso, dal 24. 6., la battaglia della Somme.
53 Ulteriore emergenza del soprannaturalismo di ER, che si trova in conflitto con la metodologia delle scienze bibliche moderne.
54 Frase stereotipa che conclude le fiabe, corrispettiva di (ma in tedesco sempre successiva a): e tutti vissero felici e contenti.
55 Gv 1,14.
56 La rivelazione, secondo ER, riautorizza il pensiero a un livello superiore, e con un fondamento finalmente inconcusso, in quanto soprannaturale.
57 In questo modo ER trascrive nei suoi termini il concetto ebraico-liberale del cristianesimo come ‘religione figlia’.
58 Dt 7, 6; Is 41, 8s.
59 L’ebraismo è una religione legata alla dimensione collettiva, il popolo ebraico, e messa a confronto con le gentes, non può che rivelarsi molto superiore.
60 La vera universalità appartiene al cristianesimo, che è una religione che si rivolge al singolo soggetto, ed è naturalmente estensibile all’intero genere umano.
61 Mt 11, 28.