Lorenzo Capineri,
Olivetti una complessità virtuosa
Roberto Barzanti

Olivetti una complessità virtuosa, a cura di Lorenzo Capineri, Firenze, Firenze University Press, 2024.

Se un fenomeno è complesso è necessario studiarlo facendo tesoro della complessità, categoria della quale ha scritto molto, tra gli altri, il filosofo Edgar Morin, e se n’è fatto convinto seguace Mauro Ceruti. Sulla scia di questa indicazione metodologica Lorenzo Capineri, ordinario di Elettronica all’Università di Firenze, coordinatore dell’unità di ricerca interdipartimentale “Il rinascimento dell’ingegnere: oltre la formazione tecnica”, ha curato un volume collettaneo su Olivetti una complessità virtuosa. Il termine “olivettismo” è riapparso nelle cronache giornalistiche: per l’Europa sarebbe l’ora di un nuovo olivettismo, è stato gridato, alludendo all’inventività tecnologica di Adriano Olivetti (Ivrea 11 aprile 1901 – Aigle 27 febbraio 1960). Dieci autori hanno raccolto l’invito del curatore e ognuno ha svolto un tema ben circoscritto. Alcuni furono collaboratori diretti nell’età d’oro – Adriano dal 1932 fu direttore generale dello stabilimento di Ivrea ereditato dal padre Camillo –, altri sono esperti in psicologia del lavoro, fisica, matematica, architettura.

La virtuosità di Olivetti – osserva in prefazione il cardinale Zuppi – lo spingeva a pensare ad una fabbrica capace di offrire qualificati servizi sociali alla comunità in cui si era impiantata. Il lavoro era una risorsa collettiva i cui frutti erano da impiegare anche per creare scuole e centri di formazione, biblioteche e servizi per la salute, rispettosi dell’ambiente e della sostenibilità. Il ritratto di Adriano che scaturisce dai saggi ignora zone d’ombra, contraddizioni, reticenze. Di ritorno dall’America egli fu entusiasta dell’organizzazione predicata da Taylor. E una specie di taylorismo-fordismo morbido avrebbe non poco influenzato il ritmo produttivo della Olivetti. Sotto il fascismo compromessi furono inevitabili e pesanti. Al crollo del regime, nel fervore della ricostruzione, Olivetti fondò il “Movimento Comunità” ispirandosi ad un’azione entrista, in modo da stimolare le diverse formazioni a impegnarsi per «la instaurazione in Italia dello Stato Federale delle Comunità». Il disegno era impraticabile in un assetto caratterizzato dal modello del partito di massa e da duri scontri di classe. La separazione tra le «due culture» (Edgar Snow, 1959), tra il mondo della scienza e quello degli studi umanistici, era più che mai disastrosa. Olivetti accordò spazio a voci, artisti, organismi, saperi ignorati o avversati. L’editoria era un tramite decisivo e meriterebbe un discorso a parte. Una delle prime uscite (1954) delle edizioni di Comunità, sorta nel 1946 dalle N.E.I. (Nuove Edizioni Ivrea, 1942) con il determinante apporto di Luciano Foà e Roberto Bazlen, fu L’enracinement (titolo originale: Prélude à una déclaration des devoirs envers l’être humain) dell’amata Simone Weil, tradotto da Franco Fortini, che tradusse anche Sören Kierkegaard e Charles-Ferdinand Ramuz. Valorizzati furono Paul Claudel e con il loro, pur diversamente modulato, personalismo cristiano Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Non a caso nel 1948 era apparso l’emblematico manifesto L’idea di una società cristiana di T. S. Eliot, tradotto da A. Linder e L. Foà, che con l’amico Roberto Olivetti, il primogenito di Adriano, era attratto da iniziative editoriali.

Quanti classici portarono impressa l’insegna della campana ornata dallo svolazzante cartiglio Humana civilitas! Affinità con la Civitas Humana (1943) di Wilhelm Röpke? Qualche nome soltanto: Hillman, Schumpeter, Galbraith. A Ivrea incontravi Paolo Volponi e Ottiero Ottieri, Cesare Musatti e Geno Pampaloni, Ennio Morlotti e Ottone Rosai: un’intellighenzia libera da disciplinanti lacci partitici. La rivista «Comunità» ottenne un crescente apprezzamento. La bimestrale «seleArte», fondata nel ’52 dal vulcanico Carlo Ludovico Ragghianti, ottenne un vasto apprezzamento anche all’estero. Olivetti ne fu l’editore e si raccomandò che adottasse un linguaggio divulgativo: l’arte in senso lato non era tema da addetti ai lavori. Toccò una tiratura di cinquantamila copie: da non crederci. L’urbanistica ebbe nell’ I.N.U. (Istituto Nazionale di Urbanistica) che Olivetti presiedette dal 1950, uno dei punti di forza in un Paese dove la speculazione edilizia era all’ordine del giorno. Parlare di «democrazia integrata» destava sospetti, ed è comprensibile. Il progetto puntava ad una totalità basata su una tensione religiosa. Guardava con favore un sindacalismo «padronale». Daniele Balicco in Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti («L’ospite ingrato» ns, 6, Quodlibet 2021) ha fornito un quadro ricchissimo di aspetti salienti di un esperimento unico. Franco Fortini, tra i più attivi collaboratori di Olivetti, si ribellò furiosamente quando da parte comunista si scrisse (1955) che contribuiva a frugare «fra i rimasugli dell’irrazionalismo». Aveva ragione: nonostante la complessa artificiosità di uno spiritualismo sincretistico l’ardimentosa strategia, ansiosa di innestare in Italia un’umanistica modernità, meritava un ascolto vero.

[«Alias», 2 febbraio 2025]