Italo Testa, L’indifferenza naturale, Milano, Marcos y Marcos, 2018.
Dopo varie raccolte moderatamente sperimentali (La divisione della gioia, I camminatori), e l’importante Tutto accade ovunque accolto anche all’estero (Aragno, 2016) a pieno titolo tra i libri della giovane avanguardia di questi anni, Italo Testa prosegue con questo nuovo volume una fase fruttuosa – se non pacifica, diremmo di assestamento – nella propria ricerca poetica originale, esigente e raffinata senza eccessi formali né ammiccamenti d’epoca. Priva di quella “libidine letteraria” insomma, già deprecata da Primo Levi negli anni di poco successivi alla seconda guerra mondiale. Ma oggi saremmo, e non solo in campo letterario – guerra a parte nell’accezione tradizionale –, ben oltre. Qui invece «lo sguardo è lenta costruzione» (incipit assoluto), anche se per forza di cose «guarda la vita che anonima fermenta», fino alla scomparsa o meglio cancellazione del solito “tu” poetico – un io virtuale, si sa – «dal registro delle cose animate» (p. 83). Qui «si apre un vuoto tra le cose».
Ad apertura del libro, con «la vita che anonima fermenta» viene in mente una frase ben nota del Leopardi: «ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio)» (Zib. 4176, 22 aprile 1826): e stiamo infatti, nell’attesa senza scampo di andare «anche noi / il mondo a concimare» (Cori, p. 36), davanti a uno spettacolo crudele nella sua impassibilità apparente, in cui si tenta di dare un senso ai fatti osservati come nelle antiche leçons de choses, una iniziazione alle scienze della natura per scolari ricettivi e inermi. O forse si è osservati (un termine ricorrente è “preda”), da una presenza naturale enigmatica e sfuggente, indifferente appunto, pura forza vitale del mondo che non sa né si occupa di ospitarci. La natura, non più considerata nelle nostre esistenze quotidiane, irrompe imprevista in una chiazza d’acqua, un’ala, una foglia non familiare (la “falce” di un ailanto allogeno o stinktree, per esempio), ma anche i soliti tigli cittadini:
e passare l’incrocio che nessun dio
contadino guarda e protegge
è esporsi al vento gelato che spira
dall’ombra lunata del male
(Il cuore pesato, p. 30)
Si ha l’impressione, percorrendo questa silloge estremamente costruita (11 parti, con al centro Gloria e gelsi, il cui titolo esibisce una sorta di “corrispondenza” segreta fra isotopie stranianti, eterogenee – sociale e vegetale, nel caso – che meglio esprime, credo, la novità del lavoro poetico), di un tentato nuovo rapporto, anzi offerta di contratto ambientale tra umanità e universo non umano. Gli interrogativi non son pochi né da poco. Ci può essere, per cominciare, come forse già si chiedeva Leopardi, un “volere” più o meno ostile, o invece una perfetta estraneità e “indifferenza” della natura (o Natura)? – E se siamo parte noi di tale natura, può mai darsi che essa non prenda parte ai nostri sentimenti o sensazioni? Per dirla tutta, in che modo integrare lo scandalo dell’annientamento e della morte, singolare e collettiva, nel quadro di tale storia naturale? Figura ed emblema di questa radicale incompatibilità – o rifiuto di voler comprendere – il vegetale invasore ailanto ci costringe a riconsiderare la nostra cecità e indifferenza (riflessa?) nei confronti della presenza ai margini – ma quanto incombente – del mondo naturale. Questo di solito alle nostre latitudini non si fa notare, alla lettera non si vede più, o distrattamente di passata, ma l’alieno ailanto, diffuso un po’ dappertutto (in qualsiasi ambiente colonizzato dall’uomo, sorta di parassita secondo rispetto al grande parassita umano), impone la sua presenza conturbante, le sue foglie ampie a«lance bronzee», a «lame»pennate minacciose, a lugubri «falci», a dita o grinfie verdi indistruttibili. Allora, sì, «ailanti, alle vostre falci piego il capo» (Luce d’ailanto, incipit): la vittima di una natura negata o martoriata potremmo essere noi, insieme a tutto il resto comunque, l’albero strano e ormai comune – quasi «alber che trovammo in mezza strada», Purg. XXII – viene a occupare simbolicamente tutto lo spazio mentale, fino a «generare ossessioni negli autoctoni» (Nota dell’autore, p. 121). Postura rovesciata rispetto a quella del “fiore del deserto”. In questa commistione di corpi e paesaggi – piante, acque, fondali –, di testo coscienza e mondo dei referenti, risiede forse la novità del libro. Come una condivisione dell’offesa, delle ferite quotidiane, dello sradicamento cosmico in cui siamo ora condannati a vivere. Allora, non solo «il sanguinamento improvviso / nel tunnel della metro», quasi bertolucciano «quasi una fioritura» (p. 99), non solo «porgere agli uccelli la sua gola» (p. 65) «e il sangue secco / sul dorso dei platani» (p. 55), ma uno straniamento più radicale, in cui attraverso bruschi scambi di isotopie si passa dal destino naturale delle choses terrene al senso privato individuale:
…là dove si perde il volto familiare del nostro mondo, là dove tutto congiura contro quest’aria che declina, contro il dato, l’evidenza dell’amore per quanto accade con noi o senza di noi […]
…nel miraggio smagliante, fatale
di un’ombra intravista
sulle porte del sogno socchiuse
e mai ferma sul paesaggio
una losanga di luce, una spiga purissima
a giustificare l’amore
per il colore vibrante, l’ondulazione
(La preda, pp. 77 e 78)
Eppure qualcosa tiene, una forma “inventiva” e testuale controllatissima, spesso metricamente contenuta, regge il discorso ancora decisamente progressivo di tale poetica. Il volume trova nel fuggitivo, l’impermanente, il passaggio, una sorta di felicità effimera e forte, insita nell’oggetto e il fare stesso, il poieîn della scrittura. La tradizione del moderno, fino all’excipit (un blocco di otto endecasillabi che da sé «splende dell’assenza»: espressione terminale), fa da sfondo e forse da argine al mondo terracqueo infido inquietante che sta sempre in agguato – e non posso non pensarci – “dietro il paesaggio” di lagune, barene, velme e melme, mondo delle referenze della zona tra Marghera e Chioggia, e ovviamente al di là. Rare presenze animali – poiana, merlo, garzetta –, come le nostre medesime (umane), ruspe container ferry stanno forse a indicare, sempre più alla chiusa del mondo-libro, una fuga possibile verso altri orizzonti, «la vita che punge nel vento» (p. 114), le pastures new d’un classico inglese… finalmente senza (p. 83)
uncinata dall’artiglio della vita
ove di nuovo possiamo osservare la completa interdipendenza tra universo oggettuale e coscienza soggettiva. Ma allora, forse, chiamati «a cose nuove», possiamo dimenticare l’angoscia delle «nostre gole prese all’amo»e il senso di un inutile ripetersi dei giorni tutti uguali (molte poesie si richiudono a epanadiplosi sulla loro stessa immutabilità: pp. 33, 35, 45, 47, 48, 54), forse volando lontano dal piccolo mondo nostranoaux anciens parapets, forse approfondendo ancora una ricerca poetica capace di «distend[ere] la mente» fino alla assai bella e intensa dichiarazione allocutiva della p. 116 (nel clamore): «e alla lingua dei morti / prepari il sentiero». Un impegno fondamentale, come pochi altri, del poeta di ogni tempo.