Letteratura, cinema
e lavoro: un’intervista
a cura di Tiziano Toracca
Paolo Chirumbolo

Ti sei occupato di letteratura e lavoro in molte occasioni ma in particolare in un libro del 20131 nel quale oltre a un corposo saggio teorico introduttivo hai rivolto quattordici domande a numerosi scrittori (diciotto per la precisione) di diversa generazione. Cosa è cambiato secondo te nel campo letterario da allora a oggi? Ci sono delle differenze di rilievo rispetto a quanto hai registrato in quel momento? Ci sono altri scrittori ai quali vorresti oggi rivolgere quelle domande, scrittori che allora non avevano ancora pubblicato o erano meno noti e che ora vale la pena leggere e discutere?

Credo che oggi, rispetto a dieci anni orsono (il libro è uscito nel 2013 ma il lavoro di ricerca è cominciato intorno al 2007), ci sia maggiore consapevolezza, sia sociale che letteraria. Ci si è resi conto che il problema del lavoro e dei forti cambiamenti che hanno cambiato il mondo del lavoro, sono oramai diventate questioni centrali nella vita quotidiana con cui tutti, bene o male, ci troviamo a fare i conti. La letteratura, come forma d’arte che sa anche essere profondamente politica, non poteva non volgere il proprio sguardo in quella direzione cercando di capire, analizzare e rappresentare questo cambiamento epocale. Non credo ci siano differenze di rilievo tra oggi e allora. I temi e le forme mi pare siano rimasti quelli. Tra gli scrittori che mi sarebbe piaciuto includere nella mia conversazione ci sono sicuramente Valenti, Prunetti, Trevisan, Nesi. E poi mi piacerebbe continuare la mia conversazione critica con autori quali Falco e Ferracuti, ad esempio, che continuano a interessarsi, con opere molto importanti, all’universo del lavoro.

Vorrei rivolgerti subito, ora, una di quelle domande che hai rivolto a quegli scrittori, allora: una delle critiche mosse più di frequente ai “narratori del lavoro” è la confusione con la sociologia, lo sconfinare della letteratura nel dato sociologico, l’appiattirsi su fatti e documenti noti. Cosa ne pensi? Sei d’accordo? Quali scrittori corrono maggiormente questo rischio?

È una questione interessante, che suscita sempre polemiche e dibattiti. Come dicevo prima, vista la cogenza dell’argomento sembra quasi naturale concentrarsi sul contenuto e non sulla forma. Mi ricordo che quando presentavo e discutevo del mio libro in pubblico, la maggior parte delle domande riguardava la crisi economica e lo sgretolamento del lavoro, come se fossi stato un esperto di economia, storia o sociologia (peraltro tutte discipline fondamentali per un discorso critico fatto a tutto tondo). Rarissime volte mi è stato chiesto di parlare di una determinata opera, autore, o forma letteraria, cosa che avrei fatto molto volentieri. Fatta questa premessa, vorrei fare due precisazioni: 1) nel momento stesso in cui un autore decide di trascrivere la propria esperienza lavorativa, anche nel modo più semplice e diretto, ecco secondo me già in quel momento si viene a creare uno scarto simbolico – dovuto ovviamente al mezzo linguistico – per cui la vicenda raccontata (o i documenti usati nel testo, per rifarmi alla tua domanda) si trasforma subito in qualcosa di altro. Lo spiega con la consueta lucidità Calvino in I livelli di realtà quando dice (e mi scuso per la lunga cita-zione):

Che una persona metta tutto se stesso nell’opera che scrive è una frase che si dice spesso ma che non corrisponde mai a verità. È sempre solo una proiezione di se stesso che l’autore mette in gioco nella scrittura, e può essere la proiezione d’una vera parte di se stesso come la proiezione di un io fittizio, d’una maschera. Scrivere presuppone ogni volta la scelta d’un atteggiamento psicologico, d’un rapporto con il mondo, d’un’impostazione di voce, d’un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell’esperienza e di fantasmi dell’immaginazione, insomma di uno stile.2

Questo ovviamente non vuol dire che tutte le opere – romanzi, racconti, reportage – siano riuscite e abbiano alto valore letterario. Il che mi porta alla seconda precisazione: 2) l’ho scritto nel libro e lo ripeto sempre quando ne ho occasione in pubblico, tra i tanti libri appartenenti al filone «Letteratura e lavoro» ce ne sono diversi che, a mio modesto parere, rimarranno nella storia letteraria italiana. Bajani, Falco, Ferracuti, Fazzi, Baldanzi, ne cito solo alcuni, hanno dimostrato, e continuano a dimostrare, di essere bravi scrittori, con un preciso sguardo sul mondo, una propria cifra stilistica.

Nel giro di un decennio, oltre al tuo libro, sono uscite e continuano a uscire numerose opere critiche (ad alcune delle quali hai contribuito).3 Questo numero dell’«Ospite» è un ulteriore esempio dell’interesse della critica letteraria per il lavoro e la sua rappresentazione. E naturalmente ci sono stati convegni, festival, seminari etc. Personalmente, e come sai, ad esempio, nel novembre 2017 ho coordinato l’organizzazione di un convegno interdisciplinare dedicato al rapporto tra lavoro e identità.4 So che circolano altre call for papers su questo tema e che sono in programma altri incontri e altri numeri speciali nel 2018.

Credi che si possa stilare un bilancio di quanto è stato fatto fino a questo momento? Credi, cioè, che si possano individuare dei filoni di ricerca? Se sì, quali? Se no, perché la critica è così “disgregata”? Cosa manca o cosa dovrebbe fare la critica letteraria di nuovo o di diverso rispetto a quanto sta facendo di fronte a questo fenomeno?

Il bilancio, mi sembra di poter dire, è estremamente positivo dal punto di vista culturale, critico e, lo ribadisco, anche letterario. Il fatto che ci siano così tante iniziative significa che l’argomento è sentito, anche per i motivi di cui parlavo prima. Mi fa anche piacere vedere che si cominciano a dare tesi di laurea su questi argomenti, segno che anche i dipartimenti universitari riconoscono l’importanza di questo fenomeno letterario.

Onestamente non riesco a individuare dei filoni di ricerca. La galassia è, come dici tu, “disgregata”, frammentata, ma questo è secondo me un bene. Più voci partecipano al dibattito, anche con opinioni e punti di vista fortemente diversi, meglio è. Il bello della critica e della ricerca letteraria è anche questo: poter guardare uno stesso testo da diverse angolature. Per cui ben vengano libri, convegni e incontri in cui si parla di letteratura e lavoro.

Lavori negli Stati Uniti da tempo: esiste o è esistito un fenomeno letterario (ed editoriale) simile a quello che è accaduto in Italia negli ultimi decenni? C’è una letteratura che si occupa di lavoro e che coinvolge così tanti scrittori di diversa generazione e critici letterari e che riguarda sempre di più il dibattito culturale?

Mi sembra che la situazione in Italia sia più dinamica, ci sia più attenzione nei confronti di questo tema. Anche in America però ultimamente si sono prodotte opere letterarie e critiche di un certo rilievo. Cito ad esempio Precarious Labour and the Contemporary Novel di Liam Connell che si occupa di autori quali Ian McEwan, Douglas Coupland, Joshua Ferris e Aravind Adiga che, in diversi modi, hanno raccontato il mondo del lavoro americano. Poi ci sono testi come American Rust di Philipp Meyer, che rappresentano il declino della grande industria americana, e la progressiva crisi della middle class, un fenomeno sociale che non accenna a diminuire. Ci sono tutta una serie di film che parlano della crisi vista però dal punto di vista di banchieri e finanzieri. Per questo rimando ad un bell’articolo di Lanfranco Caminiti dal titolo Di cosa scriviamo quando scriviamo di crisi. Il cinema, la letteratura e la nostra esperienza, in cui si discute proprio di queste tematiche.5

Ne abbiamo parlato molto a Aix-En Provence durante la AIPI Summer School Il (non) lavoro nella cultura italiana contemporanea. Rappresentazioni del mondo del lavoro dagli anni Ottanta a oggi,6 ma per la verità è una questione che ritorna spesso nel dibattito italiano: le forme di questa produzione letteraria, in genere, sacrificano la fiction.

Nel suo saggio introduttivo al numero speciale di narrativa da lei curato, nel 2010, Silvia Contarini scriveva:

Di certo, si nota nell’attuale produzione letteraria, in specie quella che tratta del mondo del lavoro e dell’economia, una predominanza di forme inclini al recupero della testimonianza, del documento, dell’intervista (per tutti Mi chiamo Roberta di Aldo Nove), dell’inchiesta (esemplari Le risorse umane di Ferracuti e il collettivo Il corpo e il sangue d’Italia), del reportage letterario, spurio o romanzato che lo voglia definire, dell’incrocio tra giornalismo e narrazione di invenzione (Gomorra di Saviano), dell’utilizzazione letteraria dei blog e di internet (Generazione mille euro, di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa […] o anche Il mondo deve sapere di Michela Murgia). Esperienziale, autobiografica, giornalistica, fattuale più che finzionale, questa produzione letteraria che esubera dai generi predefiniti […] sembra rivendicare un rapporto diretto e immediato con la realtà, sembra volersi risaldare all’attualità, privilegiando indubitabilmente i modi del realismo.7

Credi che questa predominanza influisca (negativamente) sulla forma e sul valore formale di queste opere? Cosa ne pensi? Perché tanta difficoltà nell’inventare una storia su questo argomento?

Credo di aver già risposto a questa domanda. C’è sicuramente una predilezione per forme narrative ibride e meticciate, in cui i confini tra il letterario e la narrazione di matrice autobiografica e/o giornalistica tendono a mescolarsi e confondersi. Ma questo è, a mio modo di vedere, un segno dei tempi, un fenomeno che tende ad arricchire il testo.

Approfitto di questa domanda per ricordare le belle giornate di Aix-en-Provence, durante le quali si è discusso appassionatamente di lavoro, letteratura e cinema. Cosa ancora più degna di nota, il fatto che l’iniziativa sia venuta da giovani dottorandi, vogliosi di confrontarsi con questioni così complesse.

Si parla molto di narrativa sul lavoro, di romanzi, racconti, prosa: perché non esiste qualcosa di simile in poesia? Di chi è la “colpa”, del genere (la poesia) o del tema (il lavoro)?

In realtà esistono anche i poeti che si sono occupati, e si occupano, del mondo del lavoro. Segnalo, a questo proposito, il bel libro appena pubblicato di Simone Giorgino,8 che si occupa proprio di queste tematiche. Giorgino parla di autori storici quali Pagliarani, Sereni, Giudici, Pasolini e Di Ruscio. Ci sono anche i Poeti operai di cui parla Antonio Catalfamo sulle pagine de «Il calendario del popolo»,9 in cui sono riportate poesie di, tra gli altri, Brugnaro, Camporese, Di Ciaula, Quaranta, Sardella, Serino; ma penso anche a Sirena operaia di Bellocchio. Ricordo anche una bella opera di Sara Ventrone, Il gasometro. È in particolare il mondo della fabbrica ad essere al centro dell’attenzione, più di altri contesti lavorativi. Si tratta, per mutuare la definizione di Prunetti, di scritture “working class”. In effetti il lavoro contemporaneo, nelle sue declinazioni più precarie, è poco rappresentato dalla poesia. Ovviamente non è “colpa” di nessuno. Probabilmente, e qua mi rifaccio a quanto dicevo prima, l’urgenza di raccontare predilige altre forme espressive, più immediate. Poi ci sono anche logiche di mercato: un romanzo presentato come opera sulla fine del lavoro vende sicuramente di più che una raccolta di poesie su simili argomenti.

Parteciperai al «Working Title Film Festival» a Vicenza il prossimo aprile su invito della direttrice, Marina Resta. Quali sono gli aspetti del lavoro che il cinema ha rappresentato maggiormente e meglio? Quali differenze ci sono tra la rappresentazione cinematografica e quella letteraria? Stai lavorando a qualcosa su cinema e lavoro?

Dal punto di vista strettamente tematico il cinema contemporaneo, di finzione e documentario, si sta confrontando con le medesime tematiche: lavoro precario, morti bianche, devastazione sociale e ambientale delle cosiddette “cattedrali del deserto”, conflitti generazionali tra padri e figli, la perdita del lavoro di persone di mezza età. Ovviamente, visto che si tratta di linguaggi profondamente diversi è difficile fare dei paragoni. Il cinema racconta questo snodo epocale con gli strumenti che gli sono propri. La narrazione audiovisiva ha spesso un impatto empatico molto forte sullo spettatore grazie alla sua immediatezza, alla sua rappresentazione così esplicita, alla potenza delle immagini. Penso ad esempio ai documentari che si occupano delle morti sul lavoro. Difficile per chi guarda trovare un attimo di conforto. Il dolore è lì, davanti agli occhi, ed è impossibile ignorarlo. Al momento sto lavorando a due progetti che riguardano cinema e lavoro, ma sono entrambi allo stadio iniziale. Sono temi e problematiche centrali nel mondo in cui viviamo, e a me piace lavorare proprio su queste intersezioni tra il sociale e l’arte, sia essa letteraria che cinematografica.

Cinema, cortometraggio, televisione, serie tv. Quale tra queste forme si è interessata maggiormente al lavoro? In che modo? Possiamo fare delle distinzioni?

Occupandomi principalmente di lungomentraggi e film documentari mi sento di esprimere un parere solo per questi due ambiti. La distinzione maggiore che si può fare riguarda soprattutto la presenza della commedia nell’ambito dei film di finzione. In alcuni casi (penso a Il posto dell’anima di Riccardo Milani, a La febbre e Sul mare di Alessandro D’Alatri, a Mi fido di te di Venier) si tratta di opere di ottima fattura che ripropongono, con linguaggio aggiornato, la lezione della commedia all’italiana storica. Nella maggior parte dei casi, e qui si dovrebbe fare un discorso molto lungo, sono opere che rispondono soprattutto a logiche commerciali. La storia del precario sfortunato vende, e ci si accontenta di portarla sullo schermo senza un grande lavoro di sceneggiatura. Il rischio è di banalizzare il tutto.

Cosa ne pensi della proposta avanzata da alcuni movimenti di sostituire al lavoro un reddito minimo universale?10 Da questo punto di vista, in rapporto alla letteratura, ti domando: quali sono i romanzi che alludono o auspicano, oggi, la fine del lavoro?

Dei due grandi modelli che hanno rappresentato in modo opposto il lavoro negli anni Settanta – il rifiuto del lavoro: Vogliamo tutto (1971) di Balestrini e l’elogio del lavoro ben fatto: La chiave a stella (1978) di Levi – quale è oggi il modello dominante? Esiste un altro modello?

Sono assolutamente d’accordo: il reddito minimo universale è uno dei modi tramite cui uscire da una fase di stallo che credo sia oramai diventata strutturale. Cioè: non è solo un momento di crisi, è proprio il mondo che è cambiato. Insieme alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il reddito minimo è una delle soluzioni che garantirebbe un minimo di dignità a migliaia di persone. Quanto poi le due cose siano fattibili, visto soprattutto il livello della nostra classe politica, è un altro discorso.

La fine del lavoro è, se vogliamo generalizzare, al cuore della vicenda. Io parlo di vena funeraria della nuova narrativa del lavoro. La fine del lavoro, con tutto il suo carico sociale, non è però auspicata, quanto piuttosto vista come un agente storico portatore di instabilità, incertezza e privazione del futuro. Questo è, a mio parere, il modello dominante, il comune denominatore che lega questa vasta e variegata costellazione di opere.

Certi studiosi tendono a considerare e valutare soprattutto quanto avviene in letteratura e al cinema (o in altre forme d’arte) perché rivendicano in qualche modo una sorta di specifico letterario; altri, invece, tendono a considerare anche altri saperi come ad esempio il diritto, la sociologia, la filosofia, la storia etc. Quanto è importante, secondo te, che la critica letteraria sul lavoro si apra a questi saperi? Può farlo? Che cosa c’è in gioco?

Credo che sia assolutamente doveroso da parte della critica, letteraria quanto cinematografica, aprirsi ad altre discipline. È solo in questo modo che si può comprendere la complessità del reale e il rapporto, altrettanto complesso, che si instaura tra un’opera d’arte e il mondo. Non sto ovviamente dicendo che la critica non debba entrare in questioni meramente linguistiche. Le questioni formali sono sempre di grande importanza, per cui ben vengano analisi che prediligono questo tipo di approfondimento. Affermo solo che i contributi che provengono da altri campi del sapere come quelli da te citati aiutano a fornire chiavi di lettura che permettono una migliore comprensione delle opere in esame.

Note

1 P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.

2 I. Calvino, I livelli di realtà, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori, 2016, p. 317.

3 R. Voza (a cura di), Lavoro, diritto e letteratura italiana, Bari, Cacucci, 2008; F. Colleoni, M. Jansen (a cura di), Sul precariato, in «Bollettino ‘900», 1-2, 2009; M. Fieni, Il tema del lavoro nella letteratura italiana contemporanea, Milano, Principato, 2010; S. Contarini (a cura di), Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, in «Narrativa», 31-32, 2010; C. Panella, La rappresentazione letteraria del lavoro e la produzione narrativa dei lavoratori, in G. Sertioli, C. Vaglio Marengo, C. Lombardi (a cura di), Comparatistica e intertestualità. Studi in onore di Franco Marenco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010; G. Bigatti, G. Lupo (a cura di), Fabbriche di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Roma-Bari, Laterza, 2013; L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, Roma, Aracne, 2013; N. Bouchard, V. Ferme (a cura di), From Otium and Occupatio to Work and Labor in Italian Culture, in «Annali d’Italianistica», 32, 2014; S. Contarini, M. Jansen, S. Ricciardi (a cura di), Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, Verona, Ombre corte, 2015; E. Zinato, Il lavoro non è (solo) un tema letterario: la letteratura come antropologia economica, in Id., Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 55-78; S. Contarini, L. Marsi (a cura di), Precarietà. Forme e critica della condizione precaria, Verona, Ombre corte, 2015; T. Toracca, A. Condello, Lavoro, identità: riflessioni tra letteratura e diritto, in «Il Ponte», 2, 2016, pp. 120-126; N. Dupré, M. Jansen (et alii), Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, Firenze, Franco Cesati, 2016; C. Baghetti (a cura di), Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive, in «Νότος», 4, 2017; A. Ceteroni, La letteratura aziendale. Lavoro, fabbriche, uffici e precariato dalla fine del Novecento ad oggi tra romanzi, racconti, inchieste e poesia, Independently published, 2017; N. di Nunzio, S. Jurišič, F. Ragni (a cura di), «La parola mi tradiva». Letteratura e crisi, Perugia, CTL, Collana scientifica dell’Università di Perugia, 2017; N. di Nunzio, M. Troilo, Lavoro! Storia, organizzazione e narrazione del lavoro nel XX secolo, Roma, Aracne, 2017.

4 I work therefore I am (European).

5 L. Caminiti, Di cosa scriviamo quando scriviamo di crisi. Il cinema, la letteratura e la nostra esperienza, in S. Floriani, R. Siebert (a cura di), Andare oltre. La rappresentazione del reale fra letterature e scienze sociali, Cosenza, Pellegrini, 2013.

6 C. Baghetti, G. Iandoli, A. Ceteroni, R. Summa, Il (non) lavoro nella cultura italiana contemporanea. Rappresentazioni del mondo del lavoro dagli anni Ottanta a oggi, AIPI Summer School, Aix-en-Provence, 3-5 luglio 2017.

7 S. Contarini, Raccontare l’azienda, il precariato, l’economia globalizzata. Modi, temi, figure, in Ead. (a cura di), Letteratura e azienda, cit., pp. 7-24: pp. 10-11.

8 S. Giorgino, Poeti in rivolta. Lavoro e industria nella poesia italiana contemporanea, Avellino, Sinestesie, 2018.

9 A. Catalfamo, Poeti operai, in «Il calendario del popolo», LXIV, 730, 2008.

10 Cfr. la rassegna stampa presente su «Basic Income Network Italia».