Lavoro operaio, lavoro di cura e femminilizzazione del lavoro nella tetralogia de L’amica geniale di Elena Ferrante
Isabella Pinto

In questo scritto propongo una lettura del ciclo dell’Amica Geniale1 di Elena Ferrante mettendo al centro il tema del lavoro. Analizzerò la trasformazione dei personaggi principali, Elena Greco (Lenù) e Raffaella Cerullo (Lila), attraverso il rapporto complesso e conflittuale con le tipologie di lavori che andranno a ricoprire nel corso della narrazione e le forme relazionali ad esse connesse, a partire dai luoghi del domestico e del familiare. Infatti, Elena e Lila si trovano fin dall’adolescenza a fare i conti con imposizioni lavorative, ordinate dalle norme dei rapporti di classe e di genere, che le vorrebbero docili e disponibili, oggetti da spostare o da scambiare. Tuttavia, sarà proprio la continua costruzione del loro rapporto di amicizia a costituire l’eccedenza che permetterà ad entrambe di agire micro e macro conflitti, necessari per definire la propria identità, il proprio senso di sé, al di fuori delle relazioni esclusivamente oppressive.

La vicenda narrata nella quadrilogia di Elena Ferrante si colloca temporalmente tra il 1944 e il 2007, motivo per cui è possibile posizionare le due “personagge”2 principali nella così detta generazione dei Baby Boomers. Ciò nonostante, trovo necessario segnalare il luogo di partenza di Lenù e Lila, un rione della città di Napoli, quale elemento che colloca la vicenda narrativa ai margini di quelle città che maggiormente hanno ricevuto benefici dall’incremento del PIL durante il secondo dopoguerra. In accordo con Russo Bullaro, Ferrante poggia la narrazione su un evento storico di ascendenza statunitense, il “miracolo economico”,3 e tuttavia lo problematizza mescolandolo ad eventi storico-politici specificatamente italiani e in conflitto con l’assetto vigente imposto dagli equilibri geopolitici del secondo dopoguerra, riconducibili alle lotte operaie sindacali ed extrasindacali, alla presenza di un partito comunista tra i più partecipati a livello mondiale e alle lotte femministe.

Ferrante complica ulteriormente il quadro costruendo una narrazione realista di eventi forse mai accaduti e assegna il punto di vista a “soggetti imprevisti”, quali sono le bambine prima e le donne poi. Infatti, per raccontare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, Ferrante usa punti di vista obliqui, che le permettono un’entratura caratterizzata dal groviglio tra necessità di emancipazione e esposizione al rischio della violenza, tanto nello spazio privato della casa, quanto nello spazio pubblico di una salumeria o di una fabbrica. Ferrante non risparmia l’elemento della violenza neanche nel racconto delle fatiche della formazione e delle insidie che si nascondono dietro un percorso di scalata sociale, che risulta inoltre maggiormente aggirabile per gli uomini (Nino Serratore) che per le e donne (Elena Greco). Con l’adozione del punto di vista di Lenù e Lila, Ferrante non rappresenta la realtà storica dell’Italia degli anni che vanno dal secondo dopoguerra al 2007, piuttosto sembra intenzionata a riscrive la Storia di quegli anni, come se le donne del sud provenienti da una classe disagiata avessero potuto parlare ad un fuori capace di ascoltarle. Inoltre, similmente a Morante di Menzogna e sortilegio,4 Ferrante racconta una storia del passato per raccontare al lettore il comune presente, e porre l’accento su come le donne siano tutt’ora fulcro dei meccanismi di dominio.

Da questa premessa è quindi possibile notare che nella narrazione il tema del lavoro si intreccia innanzitutto con il tema della ribellione delle donne al potere patriarcale, potere talvolta agito anche dalle donne stesse (vedi il personaggio della madre di Elena-Lenù). I conflitti sono raccontati all’interno di due polarità, non per forza oppositive: da un lato i gesti di rivolta prendono corpo nel quotidiano; dall’altro, per far sì che essi siano efficaci, è necessaria la relazionalità, l’essere almeno in due. Lontana da una narrazione lamentosa o derealizzante, Ferrante si fa così portatrice di un messaggio di emancipazione e liberazione, elementi sempre provvisori e relazionali, da cui non traspare alcuna nostalgia di una perduta unità (rivoluzionaria), su cui anzi ironizza.

Nel primo volume il tema del lavoro racconta come e perché per una bambina appartenente ad una famiglia sottoproletaria della Napoli del dopoguerra non fosse possibile proseguire gli studi dopo la quinta elementare, allora limite della scuola dell’obbligo. Ad essere sotto accusa è qui la famiglia di Lila: anziché essere il nido da cui spiccare il volo ed emanciparsi attraverso lo sviluppo delle proprie singolari predisposizioni, la famiglia è rappresentata al contrario come il dispositivo che reprime le sue capacità attraverso l’uso di una violenza che si addice a chi pretende qualcosa di impossibile “per natura”. Il racconto si sviluppa con un movimento di continua alternanza tra Lenù e Lila, che porta il lettore ad un incessante paragone tra le due vicende: se entrambe sono costrette a subire la “normale” violenza familiare, Lenù avrà maggiori possibilità di liberarsene non perché la sua famiglia si riveli essere meno violenta, bensì grazie alla relazione di solidarietà che la maestra Oliviero insatura con lei. Al contrario, per Lila l’adolescenza coinciderà con una condizione di maggiore solitudine incontrata nel lavoro operaio a maggioranza maschile, da cui sviluppa il desiderio di uscire quanto prima e con ogni mezzo a sua disposizione.

Intitolato, non casualmente, Adolescenza. Storia delle scarpe,5 la seconda parte del primo volume della saga è la storia di Lila bambina che crea il modello di scarpa perfetta, ma che, finendo nelle mani del padre e del fratello, si trasforma nel motivo per cui sarà lei stessa ridotta a scarpa, ovvero ricacciata nel suo ruolo di oggetto/merce, da scambiare, usare come pegno, da promettere, da appendere alla parete di un negozio. Tuttavia, se da un lato Lila sviluppa l’ammirazione per chi possiede una vita anche poco più agiata della sua, dall’altro cercherà di trasformare questo desiderio in forza creatrice: progetterà scarpe bellissime, così come immaginerà il salto di qualità economica nel passaggio da bottega di quartiere a calzaturificio, fabbrica organizzata. Figurazioni del possibile6 si affastellano nello sviluppo del personaggio di Lila, che arriverà alla Basic Sight, il primo centro computazionale in Italia, attraverso una lotta individuale contro l’oppressione del mondo maschile, che per lei, come per molte donne in Italia e non solo, coincide con il mondo del lavoro operaio e con il lavoro di riproduzione e di cura impostole tanto dal marito Stefano tanto dalla società, rappresentata nel nostro caso dalla comunità del rione.

In accordo con il pensiero di Deleuze e Guattari circa i personaggi concettuali e le figure estetiche, potenze di concetti i primi e potenze di affetti le seconde,7 Ferrante crea due personagge che sfidano il senso comune, spiazzando il personaggio concettuale occidentale della donna svantaggiata del sud: è la loro relazionalità, complice e conflittuale, ad essere il fulcro narrativo e non la comune condizione di oppressione. Inoltre, non sarebbe così interessante leggere le vicende di Lila nella nuova salumeria del marito Stefano o nella fabbrica di mortadella di Soccavo, se simultaneamente non ci fosse il racconto delle vicende di Elena nel mondo della scuola e dei circoli intellettuali legati all’università (la Normale di Pisa). È questa simultaneità a spiazzare il lettore, è questa simultaneità che produce un senso nuovo, che si fa intreccio tra personaggio concettuale e figura estetica.

In accordo con Melandri, mi sembra utile far emergere il problema del lavoro anche da un altro punto di vista, per altro già rilevato nei Manoscritti economico-filosofici8 di Marx e compendiato da alcune posizioni di Freud,9 in cui la filosofa porta all’attenzione due interrogativi radicali, ovvero: cosa spinge originariamente l’uomo a quel sacrificio di sé che è la consegna del proprio lavoro nelle mani di un altro uomo che se ne fa in questo modo proprietario? Perché il sacrificio di sé chiesto alla donna – ed espresso indirettamente dal rifiuto del femminile – affinché dia forza attiva e centrale nel processo generativo, si riduce in tramite o mediazione per una discendenza solo maschile, di padre in figlio?10 Enigma originario per Marx e enigma del sesso per Freud si addensano in un femminile a cui viene imposto di essere non specifico, mobile, fluido, sempre disposto a cambiare ruolo. In questo senso la narrazione di Ferrante sembra volgersi all’ordine simbolico maschile, che si esplica anche nella crisi delle ideologie di stampo hegelo-marxiste strutturate, in sintesi, sull’opposizione tra lavoro produttivo di fabbrica e lavoro improduttivo della riproduzione: solo il lavoro produttivo è considerato strumento di emancipazione per tutti gli oppressi. Una visione teleologica e statica che non ha permesso, e tutt’ora impedisce di vedere, i molteplici assi di oppressione che gravano sulle singole persone, in cui tanto il lavoro operaio quanto il lavoro immateriale rischia di essere uno strumento per continuare a produrre tali oppressioni. Il femminismo e il pensiero della differenza, nella loro molteplicità di voci, sono stati tra i primi ha mettere in luce questa contraddizione.

Ripercorrendo brevemente il femminismo della differenza a cui fa riferimento la stessa autrice, da Lonzi a Cavarero passando per Muraro e poi Braidotti e Haraway, la rivoluzione, anche lavorativa, per le donne inizia quindi nel prendere coscienza dei rapporti di dominio presenti nella quotidianità, nella famiglia e non solo nella fabbrica. La lotta di classe non esaurisce il desiderio di liberazione dall’oppressione, proprio delle donne. Diventa allora centrale interrogarsi sulle relazioni con gli altri. Il desiderio entra nella scena politica ed economica.11 Il lavoro delle relazioni, che sia in fabbrica o in una casa editrice o in una salumeria, costituisce la materialità del mondo del lavoro da un punto di vista femminile neomaterialista.12 Per Lila ed Elena lo scontro è sia a livello sociale che a livello singolare, prima con le proprie famiglie d’origine, poi con quelle di adozione, passando per compagni di scuola, diventati padroni di fabbriche o giovani intellettuali dell’Unità durante i mitici anni del ’68. Ricercato dalle protagoniste con intento emancipatorio, nella materialità relazionale il lavoro è strumento ambivalente soprattutto quando si rivela dispositivo di sopraffazione, di umiliazione e di abbrutimento nel rapporto uomo/donna, ma anche nel rapporto tra borghesi e proletari, così come disegnato dalla relazione tra Elena Greco e la suocera, la signora Airota. C’è allora bisogno di inventare le parole per nominare l’alienazione nei rapporti di lavoro, dove per lavoro si intende anche lavoro immateriale, lavoro di cura, lavoro degli affetti, soprattutto per le donne.13

Dentro questa cornice, attraverso il personaggio di Elena, Ferrante affresca la realtà del lavoro della letteratura dal punto di vista di una giovane donna proletaria del sud, contrapponendo la crescita costante del desiderio di narrare di Elena (in relazione con la figura e la storia di Lila) e la forma accidentale del cammino che la porterà ad essere scrittrice acclamata (condizione che si rivelerà essere, alla fine del quarto libro, vuota e poco significativa). I rapporti di lavoro sono opprimenti per le due protagoniste, le relazioni che si vengono a creare nei luoghi di lavoro non nobilitano l’uomo né tanto meno la donna, dove Ferrante riprende esplicitamente la critica femminista di Lonzi e di Rivolta Femminile alla sinistra lavorista. Così scriveva il collettivo di Rivolta Femminile:

Insofferenza per un programma di scadenze prefissato da rispettare nella pubblicazione; insofferenza a inserirsi nel meccanismo distributivo; insofferenza per gli inevitabili contatti diplomatici con esponenti della cultura e del giornalismo; insofferenza per il ruolo di donna editrice come figura di successo; insofferenza per le motivazioni ideali della nostra impresa “a favore delle donne”.14

Passo calzante per la figura di Elena, che dopo gli studi viene avviata alla carriera di scrittrice dalla famiglia borghese di acquisizione, i potenti Airota. Nel terzo e quarto volume, il rapporto tra Elena e Adele Airota, madre del marito Pietro, si caratterizza di conflitti e rifiuti, soprattutto perché Elena si ribella al lavoro di cura familiare che le era stato assegnato “per natura” dal marito. Tuttavia, nell’intervista rilasciata a Nicola Lagioia, Ferrante dà la chiave di volta per problematizzare ulteriormente questo ragionamento:

Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale nella mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli […] Ma nel racconto c’è anche il segnale di una disfunzione: alcuni personaggi studiano e tuttavia il loro percorso si inceppa. Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è stato evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento. C’è però, nel racconto, un altro modo di intendere lo studio, quello di Lila. Privata dell’intero percorso scolastico […] lo studio per Lila diventa la manifestazione di un’ansia permanente dell’intelligenza, una necessità imposta dalle infinite disordinatissime circostanze dell’esistenza, uno strumento di lotta quotidiana […]. Mentre Lena è un tormentato punto di arrivo di un vecchio sistema, Lila ne mette in scena con tutta la sua persona la crisi e in un certo senso un possibile futuro.15

In dialogo con la genealogia del rifiuto del lavoro di Lazzarato,16 il ciclo dell’Amica geniale sembra mettere in scena le conseguenze, anche creative e impreviste, dell’atto di sottrazione dalle funzioni e dai lavori imposti alle donne in una società, come quella italiana, fortemente patriarcale, avvenuto nella temperie dei movimenti femministi. Atti di sottrazione che volevano terremotare le fondamenta dell’idea stessa di lavoro come forza emancipatoria, con l’intento di mettere in discussione non solo l’identità dei produttori e le loro assegnazioni sessuali, ma anche l’idea di progresso che sottintendevano, e forse tutt’ora sottintendono, i modelli emancipatori della sinistra istituzionale. D’altro canto la ristrutturazione capitalista del secondo novecento è andata costituendosi come “femminilizzazione del lavoro”,17 che non vuol dire solo ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro, bensì anche estensione all’intera sfera della produzione delle condizioni di sfruttamento e di assoggettamento storicamente riservate alle donne.18

Ferrante sembra quindi giocare sapientemente per accumulazione con le percezioni femminil-femministe della trasformazione della società italiana all’interno del capitalismo industriale, in cui già si scorgevano le modificazioni verso un capitalismo neoliberista, cognitivo, di cura, dei servizi. Esemplare, la coincidenza delle sue personagge con la parabola di sviluppo e di crisi del modello economico egemone del secondo dopoguerra che domina la città di Napoli:

Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio […] si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. […] il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte.19

A salvarsi, forse, il lavoro della scrittura inteso in senso foucaultiano di parresia20 e cavareriano di desiderio di essere raccontata dall’altra.21 Un doppio movimento che percorre l’intero dispiegarsi della relazione tra Lenù e Lila. Scrivere dell’altra per capire se stessa, scrivere per lenire i dolori esistenziali, scrivere per esporsi, scrivere per esistere, scrivere per essere in relazione con il mondo, affermando e creando un luogo in cui poter decidere di queste relazioni. Un luogo finzionale e al tempo stesso politico, che fa venire in mente la torsione di Adorno elaborata proprio da Fortini, «non si dà vita vera se non nella falsa»,22 come già rilevato da Sara Ferraris,23 dove tuttavia la finzione è qualcosa di tangibile e reale, che sta nel tra delle relazioni. Di più, per Ferrante il rapporto tra il fuori e la scrittura sembra assumere nuovo rilievo, tanto da renderla distante da quelle interpretazioni, molto in voga oggi, che vorrebbero fare della scrittura mero esercizio “spirituale” e individuale o, al più, attività da vendere-apprendere a caro prezzo in uno dei tanti corsi di scrittura sorti all’alba del modello Baricco. Ferrante infatti racconta gli aspetti politici della scrittura, dove per politica si intende con Arendt e Cavarero un attivo esibirsi anziché un mero apparire, posizione, quest’ultima, in cui erano e ancora sono relegate le soggettività oppresse. L’esibirsi si esprime come scelta della propria misura, come differenza di scena, detto altrimenti: quell’apparire agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto soggetti di atti e parole.24 È questa la scena inedita che prende il nome di politica.25

In conclusione, con Ferrante l’atto di raccontare in quanto lavoro artistico sembra assumere inedita rilevanza nel momento in cui è atto politico (nel senso arendtiano) ed etico (la verità del partire da sé e delle relazioni). In quanto tale la scrittura non può accontentarsi di una dimensione esclusivamente intima, anzi fa del rapporto con il fuori, con l’altro da sé, con il lettore, la propria possibilità di trasformazione e di azione nel reale, contraltare critico e affermativo ad un tempo dell’odierna appropriazione di questa forza nel comando neoliberista, che la vorrebbe ridurre a mero storytelling.26

Note

1 E. Ferrante, L’amica geniale, Roma, e/o, 2011; Ead., Storia del nuovo cognome, Roma, e/o, 2012; Ead., Storia di chi fugge e chi resta, Roma, e/o, 2013; Ead., Storia della bambina perduta, Roma, e/o, 2014.

2 R. Mazzanti, S. Neonato, B. Sarasini, L’invenzione delle personagge, Roma, Iacobelli, 2016.

3 G. Russo Bullaro, S. Love (eds), The Works of Elena Ferrante. Reconfiguring the Margins, Basingstoke (UK), Palgrave Macmillan, 2016, pp. 15-44.

4 E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 1948.

5 E. Ferrante, L’amica geniale, cit., p. 83.

6 D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it. di L. Borghi, Milano, Feltrinelli, 1995.

7 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, ed. it. a cura di C. Arcuri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 65-68.

8 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 2004.

9 S. Freud, Il disagio della civiltà, trad. it. di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2010.

10 L. Melandri, L’infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, Roma, Manifesto Libri, 1997.

11 L. Cigarini, La politica del desiderio, Parma, Pratiche Editrice, 1995; J. Kristeva, La révolte intime, Paris, Fayard, 1997.

12 F. Giardini, Dominio e sfruttamento. Un ritorno neomaterialista sull’economia politica, in A. Bertollini, R. Finelli (a cura di), Soglie del linguaggio. Corpo, mondi, società, Roma, RomaTrePress, 2017.

13 L. Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, Roma, Manifesto Libri, 1981; C. Marazzi, Il posto dei calzini: la svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Verona, Ombre Corte, 2014.

14 M.G. Chinese, È già politica, Milano, Rivolta femminile, 1977.

15 E. Ferrante, La frantumaglia, Roma, e/o, 2016, pp. 360-361.

16 M. Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, Milano, Edizioni Temporale, 2014.

17 C. Morini, Per amore o per forza: femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Verona, Ombre Corte, 2010.

18 Ivi; L. Melandri, Amore e Violenza. Il fattore molesto della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.

19 E. Ferrante, La frantumaglia, cit., p. 319.

20 M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, trad. it. di A. Galeotti, Roma, Donzelli, 2005.

21 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.

22 F. Fortini, Non si dà vita vera se non nella falsa, in G. Bechelloni (a cura di), Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Quaderno del Cesdi, Firenze, Guaraldi, 1971.

23 S. Ferraris, Non si dà vita vera se non nella falsa. Sulla tetralogia di Elena Ferrante, in «Nazione Indiana», 17 giugno 2016.

24 A. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Milano, Bompiani, 1991.

25 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., pp. 33-34.

26 C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, trad. it. di G. Gasparri, Roma, Fazi Editore, 2014.