Laurea honoris causa a Ljudmila Petruševskaja
Siena, 23 novembre 2022

Il giorno mercoledì 23 novembre 2022, ore 10.00
presso l’Aula Magna Virginia Woolf dell’Università per Stranieri di Siena,
piazzale Carlo Rosselli 27/28

in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico si terrà la

Cerimonia di conferimento della laura magistrale honoris causa
in Scienze linguistiche e comunicazione interculturale
a Ljudmila Stefanovna Petruševskaja

seguita dalla lectio magistralis dell’autrice e artista russa:
La prima lezione della professoressa Petruševskaja.

A conclusione della giornata, alle ore 18.00,
presso la stessa Aula Magna Virginia Woolf,
sarà possibile assistere all’esibizione di Ljudmila Petruševskaja nel suo caratteristico spettacolo di concerto-cabaret.

Scarica la locandina della cerimonia, la locandina della serata, e il programma della giornata.

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Ljudmila Stefanovna Petruševskaja. Una presentazione
a cura di Giulia Marcucci

Ljudmila Stefanovna Petruševskaja è una delle maggiori scrittrici della Russia contemporanea. Autrice di racconti e romanzi brevi, pièce teatrali, favole per bambini e per adulti, sceneggiature per film d’animazione (il più noto è Tale of Tales, diretto da Jurij Norštejn) e poesie-paradossi, dagli esordi alla fine degli anni Sessanta a oggi non ha mai smesso di ricercare e sperimentare nuovi generi con originalità e talento. La sua spiccata vena artistica e la sua versatilità trovano spazio anche nella pittura: Ljudmila Stefanovna disegna autoritratti e dipinge; gli ultimi suoi quadri esprimono il dolore della guerra in Ucraina, fonte di grande sofferenza per lei, che ama definirsi «moscovita-ucraina» e che, anche di recente, ha ribadito le sue accuse a Putin, chiamandolo con ironia e disprezzo “Pu”.

Da alcuni anni, Petruševskaja si esibisce in un singolare “concerto-cabaret”, adattando noti brani di famosi cantautori e cantautrici stranieri grazie a traduzioni libere e creative. La scorsa estate ha girato le Repubbliche baltiche, esibendosi per i tanti emigrati russi dissidenti che hanno lasciato la Russia dopo il 24 febbraio, e in questi giorni, alla vigilia del suo arrivo a Siena, i biglietti per lo spettacolo-cabaret nelle capitali dell’Armenia e della Georgia sono andati a ruba. Indossa sempre un cappello a tesa larga personalmente decorato. È un segno di protesta e, al contempo, di solidarietà: in epoca sovietica gli intellettuali non potevano portare questo tipo di copricapo, che li esponeva addirittura al rischio della fucilazione. E anche le immancabili chemisette da lei indossate sono fatte con le sue mani. Sin da piccola, nei campi per pionieri, dove alla fine degli anni Quaranta restava per più turni perché la madre non sapeva a chi lasciarla, avrebbe imparato a «ballare, cantare, partecipare agli spettacoli, recitare poesie, cucire i costumi e mettere insieme una parrucca con le bende e la stoppa (la sfilavamo dalle intercapedini delle baracche)», come ricorda nel racconto autobiografico La bambina dell’hotel Metropole.

Petruševskaja appartiene a una famiglia di intellettuali ribelli e sovversivi. L’amato bisnonno Il’ja Sergeevič Veger, uno dei primi bolscevichi e medico, si mise a curare di sua iniziativa tutti i malati che andavano a bussare alla sua porta, non solo quelli della fabbrica a cui era stato destinato, così che per punizione fu spedito in Turkestan a curare i malati di peste e di colera. Due dei suoi quattro figli vennero arrestati nel terribile 1937 e fucilati lo stesso anno. Passati dieci anni dalla condanna, che allora veniva comunicata ai familiari delle vittime con la formula edulcorata «dieci anni senza diritto alla corrispondenza», Il’ja S. Veger si recò alla Ljubjanka per avere notizie dei figli. Di ritorno verso casa fu “misteriosamente” investito da un furgoncino che consegnava il latte. Di questo amatissimo bisnonno, rievocando il viaggio da Mosca verso Kujbyšev nell’ottobre del 1941 allo scoppio della guerra, Petruševskaja fornisce uno dei ritratti più poetici presenti nella Bambina dell’hotel Metropole:

Ricordo che stavo sempre in braccio a Tato, chiusa dentro alla sua doppia pelliccia di lupo con la fodera di seta (il disegno era orientale, a righe), e dal buchino che lasciavo per gli occhi sbirciavo la fiamma nello sportello aperto della stufa. Si può restare ore e ore a osservare la danza del fuoco. Avevo la casetta calda che ogni bambino vorrebbe. Per colpa mia Tato era come un canguro gravido; mi lasciava uscire dal marsupio solo per sgranchire le gambe.

Quella «casetta calda» è uno dei rari posti accoglienti della sua infanzia, trascorsa tra il 1941 e il 1947 a Kujbyšev da sfollata e in un appartamento in coabitazione, senza la madre, con la nonna seminferma e la zia, accusate di appartenere a una famiglia di nemici del popolo e sfuggite alle repressioni staliniane solo fingendosi pazze. Quando il 9 giugno del 1947 l’amata e tanto desiderata madre va a riprendere la piccola Ljudmila per tornare insieme a Mosca, le due iniziano a peregrinare di appartamento in appartamento, vivendo per un periodo anche nello spazio angusto ritagliato sotto il tavolo della stanza del nonno materno, il linguista poliglotta di nobili origini Nikolaj F. Jakovlev. Le timide obiezioni di quest’ultimo a un articolo di Stalin del 20 giugno 1950 su questioni linguistiche gli costeranno l’emarginazione e, di conseguenza, la disperazione e la follia. Quando, anni dopo, il vecchio amico Roman Jakobson tornerà dagli Stati Uniti a Mosca e chiederà di incontrarlo, «ebbero pietà di entrambi, non glielo fecero vedere», ricorda Petruševskaja.

Di queste esperienze si nutrono l’espressività e il crudo realismo documentaristico di Ljudimila Stefanovna, per la quale l’emarginazione, le situazioni familiari caotiche e assurde, la solitudine delle donne, l’alcolismo e il degrado sociale sono temi ricorrenti, affrontati sin dalla fine degli anni Sessanta, quando – dopo pallide apparizioni su alcune riviste letterarie – i suoi testi furono vietati (sarebbero rimasti tali fino al 1988). Petruševskaja racconta che la censuravano nei modi più disparati: a volte rifiutavano di pubblicarla e basta, altre lasciavano accesa fino all’ultimo una piccola speranza e poi il testo pronto per la stampa veniva bloccato e ritirato. Nel 1969 il redattore capo della rivista liberale «Novyj mir» Aleksandr Tvardovskij, leggendo un racconto di Petruševskaja, iniziò a cerchiare l’aggettivo «pjanyj» (‘ubriaco’), sostituendolo con la perifrasi ‘che aveva bevuto’, ma al quinto cerchio gettò a terra il racconto. Appena un anno dopo, nel 1970, Tvardovskij stesso, grazie al quale nel 1962 era uscita Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn, sarebbe stato costretto a dimettersi dal suo incarico: una tragedia personale presto seguita dalla morte (nel 1971). «Novyj mir», però, restò in contatto con Petruševskaja e non dimenticò le sue opere “depositate su uno scaffale”; tant’è che quando l’attore del Teatro d’arte di Mosca (Mchat) Michail Anatol’evič Gorjunov le lesse, telefonò subito all’autrice con la richiesta di scrivere qualcosa per lui. Nacque così la pièce Uroki muzyki (Lezioni di musica, 1973), rifiutata dal Mchat e rappresentata nel 1979 in un teatro studentesco dal regista Roman Viktjuk, fra i protagonisti della perestrojka teatrale e fra i registi più amati da Petruševskaja.

Uroki muzyki mette in scena due strambe e litigiose famiglie, quella dei Gavrilov e quella dei Kozlov, ciascuna alle prese con la propria quotidianità stralunata e con due ritorni che mettono ancor più in difficoltà il precario equilibrio familiare: ritorna dalla prigione il marito alcolizzato di Granja Gavrilova, Ivanov, e ritorna dalla leva il giovane Nikolaj Kozlov. Il primo pretende di essere riaccolto tra le mura domestiche, ma deve scontrarsi con la resistenza di Nina, la primogenita di Granja; Nikolaj, invece, deve fronteggiare una famiglia ostile alla sua relazione con Nadja, un’imbianchina che vive in ostello, fuma e beve vino. Il bieco e a tratti assurdo tentativo dei genitori e della nonna di Nikolaj di farlo sposare con Nina fallisce, e la pièce termina con l’immagine di Nadja – che nel frattempo ha partorito un bambino senza testa, che così «non dovrà essere nutrito», commenta laconica – e di Nina vicine, sedute su due altalene. Un’immagine di solidarietà e alleanza femminile prende il volo nel finale contro l’autoritarismo dei Kozlov adulti e la debolezza di una mascolinità irresponsabile incarnata da Nikolaj e Ivanov. Sapersi far carico della tragedia della vita, in Petruševskaja, è una prerogativa delle donne.

Documenti di un’epoca: così Petruševskaja definisce tutte le sue opere. Sin da piccolissima, impara ad ascoltare la nonna materna, che le recitava a memoria i grandi classici della letteratura russa, Nikolaj Gogol’ in particolare; e poi da adulta, con lo stesso interesse di allora, ascolta le storie trasmesse di bocca in bocca e cresciute fino a diventare patrimonio di un folklore alternativo alle narrazioni ufficiali, un seme già forte quando lei lo raccoglie – come ha detto –, e che a lei sta solo di rafforzare ancora dandogli una forma. Una volta un’amica le telefonò entusiasta, dopo aver letto uno dei monologhi femminili degli esordi, Seti i lovuški (Reti e trappole), ed esclamò: «Ljusja, tu sei Hemingway nata e sputata». Non si era tuttavia accorta che quel racconto riguardava proprio lei.

Nella scrittura di Petruševskaja i segni del trauma che accomuna la narratrice e i suoi personaggi sono rappresentati dalla sintassi sussultoria, dalle imperfezioni verbali e dalle oscillazioni di registro, dalla disomogeneità lessicale e di stati d’animo, dagli scivolamenti illogici e dall’effetto straniante spesso contenuto in un inciso о in una parentesi. I suoi personaggi fioriscono in una lingua che oscilla tra registri diversi, spaziando da radici slavo-ecclesiastiche fino all’invenzione di neologismi, alcuni già entrati nel russo contemporaneo. Questi procedimenti sono amalgamati con un’intonazione a tratti fiabesca e con la «polifonia profonda» di cui ha parlato Mark Lipovetskij: una comunanza di esperienze e del sentire piuttosto che una ‘semplice’ coesistenza di voci. E poi c’è la totale assenza di giudizio e di rabbia, per lasciare libero spazio alla sete di vita che non smette mai di vibrare nelle opere di Petruševskaja.