Quando arrivò da Grosseto, attratto dalla fama di capitale morale conquistata da Milano in un paese lanciato verso un’euforica industrializzazione, Luciano Bianciardi (14 dicembre 1922-14 novembre 1971) si era sistemato in un appartamento di via Solferino. Il nome della via e quel teatrino costruito alla fine dell’Ottocento erano luoghi che emanavano ardenti sentimenti patriottici. Bianciardi era stato sconvolto dalla tragedia della miniera di Ribolla del 4 maggio 1954: «Rimasi quattro giorni – confessa nel testo alla ribalta – nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali e lì vidi tirare su quarantatre morti, tanti fagotti dentro una coperta militare». Così, giusto nel 1954, aveva deciso di piantare baracca e burattini, amici, moglie, figli e prendere il treno per Milano, unendosi alle migliaia di italiani, soprattutto meridionali, in cerca al nord di accettabili sacrifici per sbarcare il lunario. L’aveva mosso, a suo dire, una missione affidatagli da Otello Tacconi, uno stradino di Roccastrada: vendicare quei poveri martiri del lavoro facendo, magari, saltare in aria il torracchione della Montecatini, colpevole della terribile tragedia. Ma fino a che punto erano inscrivibili in sfoghi diaristici l’enfasi con cui Luciano giustifica la fuga dalla Grosseto-Kansas City, raccontandola con corrosivo sarcasmo nel pamphlet d’esordio del 1957 Il lavoro culturale o il deprimente spaesamento diagnosticato, senza mezzi termini, nell’acre L’integrazione (1960) e riassunto in una battutaccia rivolta al fratello sodale di avventura? «Io credo – affermava il protagonista – che noi due siamo venuti quassù […] per tentare la mediazione. Se tu ci sei venuto con l’idea di sistemarti nel ventre della cosiddetta grande città, ti sbagli di grosso e ti ripeto che sei un provinciale». Non c’è una riga dell’opera di Bianciardi che non sorga dal «terriccio» del paesaggio della sua giovinezza rustica e anarcoide, ma sarebbe un errore interpretare la sua scrittura come l’arrovellata trascrizione di un inquieto vissuto. L’attacco del romanzo ha una cadenza manzoniana. Non si tratta qui di un riemerso manoscritto ma di una digressione etimologica dell’appassionato bibliotecario della Chelliana su Brera: vi è incastonata una citazione latina («Campus vel ager suburbanus in Gallia Cisalpina»). Agra ha a cha fare con ager. La mediazione progettata tra la composta agricola Italia centrale e quella misera e depredata che non sapeva né leggere né scrivere era impresa destinata al fallimento, al pari della missione distruttiva dichiarata nel libro che portava a compimento la «trilogia della rabbia» in modi sconsolati e definitivi. Eppure La vita agra riscosse applausi fragorosi al Gerolamo, quasi fosse una canzone di Jannacci o una performance di Dario Fo: ebbe un successo da bestseller, ventimila copie vendute in un batter d’occhio, i diritti acquistati per trarne il film che avrebbe, con fastidiose licenze, girato (1964) Carlo Lizzani. Per spiegare il fenomeno è consigliabile risfogliare, a sessant’anni di distanza, il capolavoro di uno scrittore-nato, senza chiedersi perché non sia inserito nel cosiddetto canone della nostra letteratura del Novecento con sicurezza classificatoria.
Il fatto è che bisogna guardarsi dal considerare l’opera composta di getto nell’inverno 1961-62 un amaro e divertito affastellamento di ricordi. Luciano presta all’«io» che ci parla in prima persona la materia della sua esperienza, ma la traspone all’autore diventato personaggio – uno sdoppiamento – su pagina con la raffinatezza plurilinguistica di un traduttore che attingeva a vari registri. Dalle frizioni che ne risultano scaturisce la presa di un romanzo che non è un romanzo: piuttosto una «narrativa integrale», «una grossa pisciata» secondo una definizione che sarebbe andata a genio all’Enrico Molinari di New York, eteronimo dell’idolatrato Henry Miller dei Tropici, quasi reinventati dal grossetano in una sintassi incandescente e scandalosa. La complessità si scioglieva in accessibilità. Ognuno poteva – può – seguire il filo e/o i passaggi preferiti. La mania dei beffardi soprannomi o dei toponimi stravolti e il mix di parlato comune e colte allusioni ad una miriade di ipotesti accendono una chiacchierata che non lascia respirare. Un gioco di sapiente enigmistica impreziosisce una lingua unica, umorale e umoristica, contratta e ilare, follemente enumerativa o distesamente commossa. Verificate a casuale apertura di pagina. L’impatto con l’ostile metropoli: «Fuori le strade si incupivano di nebbia, le case avevano serrato porte e finestre, e attorno ai lumi c’era un alone umido e fuligginoso». Il dilagare della cattiva modernità neocapitalistica in quattro righe: «La riduzione di fine a mezzo, qui e altrove, aliena, integra, disintegra, spersonalizza e automatizza, e così viene fuori l’incomunicabilità, e così viene fuori l’uomo-massa e la prostituta moderna…». Sfila il lessico che prese a circolare in quegli anni e non sai se per pregnante esattezza sociologica o per sdegnata presa di distanza. Non sono assenti punte del selvaggismo toscano – à la Maccari –, individuate da Franco Fortini. È l’ambivalenza di Bianciardi che si tramuta in ambiguità. S’incazza, il maremmano verace, quando le parole sono usate a sproposito. Tutti discettano entusiasti di miracolo economico e lui si ribella. Miracolo? Si scorda, obietta, «che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve». Citazione cristiana per delicato omaggio o per irriverente incredulità? Il lavoro è una maledizione biblica e si apparenta nei «treni del sonno» con la paura della fine: «se uno è costretto per nascita o malasorte a lavorare, meglio che lavori di continuo finché non muore, e se ne stia fermo al posto di lavoro». Sconfitta più clamorosa della missione impossibile non poteva darsi. Serpeggia nei capitoli, di continuo interrotti da immagini e parole dell’età giovanile, l’imminenza della morte. All’inizio il tema è rappresentato dal Cristo morto del Mantegna, «grosso e grigio, coi piedoni avanti, e morto, morto senza speranza di resurrezione». Il sipario cala al sopravvenire di un sonno post coitum che equivale ad un naufragio, ad un annientamento: «e per sei ore non ci sono più». In un appunto su Kierkegaard Luciano Bianciardi ventenne aveva scritto: «Ed ecco l’angoscia: da una parte noi, dall’altra Dio, da una parte il peccato, dall’altra la redenzione, il finito e l’infinito, il vero e il falso, la luce e l’ombra, senza risoluzioni, tutto drammaticamente contrario senza possibilità di soluzione e di superamento». La vita agra è l’aspro frutto di un’irredimibile angoscia esistenziale. Chiudo il libro: dalla copertina un mostruoso biscione emette spaventosi bagliori.