Quattro ricordi
di Michele Ranchetti
Franco Volpi, Andrea Cortellessa,
Alessandro Zaccuri, Enzo Mazzi

Le molte passioni di Ranchetti

Era una delle figure più singolari e versatili nel panorama intellettuale del Novecento. Studioso di Freud e Wittgenstein, traduttore di Celan e Sholem, storico della Chiesa e severo analista della recente evoluzione del cattolicesimo, Michele Ranchetti fu anche apprezzato poeta e si dilettava di pittura. Ammalatosi all’improvviso, per andarsene ha scelto Tenerife, un misto di modernità e paesaggi selvaggi e vulcanici.

Era nato a Milano nel 1925 e, dopo essere stato segretario di Adriano Olivetti, dal 1955 al 1963 aveva lavorato come consulente editoriale per Giangiacomo Feltrinelli. Poi con Paolo Boringhieri, a cui era legato da amicizia, quindi per un periodo da Adelphi, infine con Einaudi e negli ultimi anni con Quodlibet (che gli ha dedicato una bella miscellanea, Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, 1998). Parallelamente aveva mantenuto i contatti con l’ambiente universitario dove aveva svolto la sua attività di storico della Chiesa. A Milano aveva seguito l’insegnamento di Federico Chabod, poi alla metà degli anni Sessanta era passato a Firenze, dove fu in contatto con Delio Cantimori e dove succedette a Giuseppe Alberigo nell’insegnamento di storia della Chiesa.

Dal lavoro storiografico – il suo lavoro più importante in questo campo rimane Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi 1963) – Ranchetti trasse argomenti per cercare di capire come si sia formato quell’insidioso corto circuito teologico-politico che spinge la Chiesa odierna a preferire un rumoroso cattolicesimo alla conversione silenziosa. La sua aspra analisi condotta in libri come Gli ultimi preti (Cultura della pace 1997), Chiesa cattolica ed esperienza religiosa (secondo di tre tomi degli Scritti diversi, [vol. I e vol. III n.d.geo] a cura di Fabio Milana, Edizioni di storia e letteratura 1999-2000) e Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento (Garzanti 2003) – rimane di grande attualità.

Ranchetti lamentava la scomparsa della «cultura religiosa». Con lungimiranza metteva in guardia coloro che ritenevano superato il dissidio fra Chiesa e Stato: i due ordini, il sacro e il profano, procedono sì paralleli adempiendo ciascuno alla sua vocazione, ma più che di una libera autonomia fra entità indipendenti – libera Chiesa in libero Stato – si sarebbe prodotta una alleanza tra dittature. E incalzava:

Cosa mai fosse l’ordine religioso e come potesse comportarsi con quell’ordine civile, e soprattutto cosa mai fosse o potesse essere il sacro, nella sua violenza e nella sua estraneità alle ragioni della ragione, questo non sembra che potessero saperlo, o almeno non vi è traccia di una resistenza “religiosa” all’interno dei due schieramenti […]. La Chiesa Romana sarebbe così diventata quella chiesa romana che si vede, che si tocca. Di tutte le note caratteristiche che nel corso dei secoli e nella tradizione cristiana avevano distinto la Chiesa, si sarebbero fatte prevalere l’autorità e la visibilità.

Un’analisi pungente, impietosa che pare scritta oggi.

L’altro grande interesse di Ranchetti era la psicoanalisi, specie la figura e il pensiero del suo fondatore, cui aveva dedicato vari studi raccolti nel terzo tomo degli Scritti diversi con l’eloquente titolo: Lo spettro della psicoanalisi. Questa disciplina dai contorni scientifici incerti e mal definiti, congiuntamente all’esigenza di assicurarle un vocabolario tecnico rigoroso, era stato un suo assillo fin da quando aveva cominciato a lavorare a fianco di Paolo Boringhieri all’edizione italiana delle opere di Freud. E alla fine diventò un’ossessione che lo spinse a progettare una ritraduzione degli scritti capitali di Freud: una temeraria impresa nella quale si avventurò anche contro l’evidenza delle meritorie e consolidate traduzioni di Renata Colorni.

Ma per Ranchetti nulla era così importante perché non gli importasse come era scritto. Di questa convinzione si nutriva la sua attenzione per la parola ovvero – come recita il primo tomo dei suoi Scritti diversi – la sua Etica del testo, che egli coltivava soprattutto con la pratica della poesia. Alle due raccolte La mente musicale (Garzanti 1988) e Verbale (Garzanti 2001), una meditazione sul male di vivere che gli valse il premio Viareggio, ne aveva giusto preparata una terza, Poesie ultime e prime che Quodlibet annuncia per fine marzo.

A ricordare la sua attenzione per la parola c’è il suo lavoro di traduttore: Wittgenstein (di cui raccolse una biografia per immagini pubblicata dall’editore Suhrkamp), la riedizione con Gianfranco Botola, delle celebri tesi di Walter Benjamin Sul concetto di storia (Einaudi 1997), le poesie inedite di Paul Celan e il grande libro di Gershom Scholem su Sabbetay Sevi.

Perdiamo con Michele Ranchetti uno di quei personaggi rari e inclassificabili che hanno dato vivacità al mondo intellettuale ed editoriale di questo paese.

[Franco Volpi, «La repubblica», 5 febbraio 2008]

Ranchetti storico e poeta sotto il segno dell’inquietudine

Nella notte di domenica è morto Michele Ranchetti. Quella dell’inquietudine è una delle categorie più abusate; dare anzi dell’inquieto a un pensatore è persino tautologico: chi pensa davvero come può farlo senza mettere tutto in questione, a partire dalla propria identità pensante? Ma se a qualcuno la si doveva proprio applicare, la categoria, questi era senz’altro Ranchetti. Scrivendo della più defilata ma non certo della meno importante fra le sue attività – quella di poeta, «esplosa» solo nel 1988 col formidabile La mente musicale, pubblicato da Garzanti come il successivo Verbale – Pier Vincenzo Mengaldo ha notato come «l’esistenza non esiste quasi in lui se non ruminata interiormente»; e lui stesso, ricordando uno dei suoi più grandi amici, Franco Fortini, scrisse che «l’esperienza poetica precede l’esperienza vissuta, ne è in certo modo la premessa che non ha alcun bisogno di trovare o meno conferma». Il che vale a dire che vita della mente e vita del corpo erano, in lui, una cosa sola: mai definibili se non in relazione ad altro.

Accademicamente discepolo di Martini e di Chabod a Milano, dove era nato nel 1925, Ranchetti ha insegnato Storia della Chiesa all’Università di Firenze dal ’66 al ’95, prima al fianco poi al posto di Delio Cantimori. Molto prima, però, con Adriano Olivetti, per poi prestare la sua competenza a un’editoria che, come l’utopia olivettiana, ci pare oggi di un altro mondo. Alla Feltrinelli e poi con Adelphi, Boringhieri, Einaudi, Mondadori: di volta in volta editando e traducendo classici come Freud, Wittgenstein, Bonhoeffer, Benjamin, Taubes e Celan. Il suo ultimo progetto, la collana «Verbarium», è stato appena sontuosamente varato da Quodlibet. Passare in rassegna i titoli pubblicati (dalla Guida spirituale degli attentatori dell’11 settembre 2001 all’Autobiografia documentaria di Renato Solmi) basta a evidenziare l’ampiezza sorprendente dei suoi campi d’interesse.

E insomma andrebbe scritto con la maiuscola, l’Altro prima evocato: sempre al di là di ciò che possiamo vedere e toccare. Rileggendo le sue poesie, ci si rende conto che in pochi come lui – un unico nome si può fare, quello di Clemente Rèbora – la definizione della vita si correla sempre al proprio limite: cioè con quanto viene dopo. Una mirabile serie di aforismi, in Verbale, conia un sintomatico sintagma, rigor vitæ. E spiega: «Precipita la vita nella sorte / della non vita da cui viene / e si confronta a quel nulla / la misura del vivere: il morire».

[Andrea Cortellessa, «La stampa», 5 febbraio 2008]

Addio a Ranchetti, poeta «fuori tempo» anche nella Chiesa

Aveva il dono dell’intempestività e, come solitamente accade in casi del genere, ne andava fiero. Tanto da scrivere in una sua poesia questi versi che oggi possono valergli da epitaffio: «Vivo in una cassa / da vivo: morto / sarò risorto». È l’autoritratto di Michele Ranchetti, l’inquieto intellettuale morto domenica a Firenze, la città in cui viveva da molti anni, in una bella e disadorna casa colonica sulle colline di via Giramonte. Nato a Milano nel 1925, era stato un bambino solitario, per il quale musica e letteratura avevano sostituito presto giochi e passatempi. Un primo segnale di quel suo essere sempre in qualche modo fuori tempo e fuori posto, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Per molti, per esempio, Ranchetti rimane uno dei nomi più rappresentativi della concitata stagione catto-comunista, lungo una linea che va dal suo classico studio su Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi 1963) fino al più recente Non c’è più religione (Garzanti 2003), un pamphlet polemico ma animato, come sempre, da passione sincera. All’occasione, però, Ranchetti si era dimostrato capace di assumere posizioni scomode anche per la stessa cultura di sinistra : direttore delle librerie Feltrinelli negli anni Sessanta, era entrato in rotta con l’impostazione, secondo lui già all’epoca eccessivamente commerciale, voluta dallo stesso Giangiacomo.

Aveva scelto allora di dedicarsi all’insegnamento universitario (fu docente di Storia della Chiesa a Firenze), senza però mai abbandonare il rapporto con l’editoria, in particolare fornendo un contributo decisivo per la pubblicazione delle opere di Freud in Italia. E proprio la nuova edizione «tematica» degli scritti del fondatore della psicoanalisi, avviata per Bollati Boringhieri nel 2006 e caratterizzata da una radicale revisione della terminologia corrente, aveva confermato per l’ennesima volta la sua fama di irregolare, di irriducibile a qualsiasi convenzione.

La vastità dei suoi interessi e l’originalità del suo punto di vista è documentata in modo esemplare dai tre volumi di Scritti apparsi tra il 1999 e il 2000 presso le Edizioni di Storia e Letteratura, ma anche dall’ampio spettro degli autori ai quali aveva prestato la propria voce di traduttore, primo fra tutti l’amatissimo Paul Celan. Pur avendo scoperto la poesia già durante la sua infanzia appartata, in versi aveva pubblicato poco, tardivamente e con esiti di straordinaria intensità, come testimoniano le due raccolte apparse da Garzanti, La mente musicale (1988) e Verbale (2001). A chi l’ha conosciuto piace ricordarlo così, come un poeta autentico. E intempestivo, si capisce.

[Alessandro Zaccuri, «Avvenire», 5 febbraio 2008]

Michele Ranchetti, lezioni di vita e di memoria

Si parla ormai di Michele Ranchetti al passato. Per parte mia preferisco, a un mese dalla sua morte, parlarne al presente. È lui stesso che c’ispira. «Vivo in una cassa da vivo: morto sarò risorto» scrive nella raccolta poetica Verbale (Garzanti 2001).

È proprio il presente il tempo in cui irrompe il suo complesso messaggio di storico della Chiesa che da un lato vede l’impossibilità strutturale dell’istituzione ecclesiastica di aprirsi a un dialogo vero, sincero, con la democrazia e d’altra parte individua con l’ottimismo della speranza spazi di apertura nella prassi del cattolicesimo di base. È una bella lezione per la politica tutta orientata, da sempre ma oggi con più ossequioso trasporto, a accattivarsi le gerarchie ecclesiastiche ignorando completamente il nuovo che nasce alla base della realtà ecclesiale.

Mettiamo a confronto, a titolo di esempio, due suoi messaggi estremamente attuali che rappresentano plasticamente come i due poli di una personalità combattuta fra pessimismo e speranza, affaticata dal bisogno e dall’impegno di pacificazione fra la vita e il proprio limite, cioè fra le due realtà del nostro essere che sono una cosa sola ma che la cultura sacrale violentemente separa: «Precipita la vita nella sorte / della non vita da cui viene / e si confronta a quel nulla / la misura del vivere: il morire», scrive ancora nel Verbale.

Il primo messaggio, quello che parla il linguaggio del pessimismo, così a me sembra, è un’analisi spietata pubblicata su La Rivista del manifesto (numero 10, ottobre 2000) col titolo Praevalebunt.

Partendo dal pontificato di Wojtyla compie un magistrale escursus, fortemente e lucidamente critico, sulla storia della Chiesa cattolica nel secolo scorso per concludere, pessimisticamente appunto, con una dichiarazione esplicita di dissenso senza apparentemente un barlume di speranza.

Questa Chiesa […] non ha alcun bisogno di mediazioni: essa è e vuole. Vuole la beatificazione di tutti suoi capi, indipendentemente dalla storia “profana”, si appropria di tutti i martiri, costruisce un universo di santi a sua immagine e somiglianza, invade tutti i territori della vita politica, civile, religiosa, tutti gli schermi e le formule di imbonimento (quanti frati figurano come i migliori suggeritori di prodotti culinari, come se la loro competenza provocasse la vendita di prosciutti e biscotti), disattende qualsiasi forma di meditazione, di raccoglimento, sfoggia i suoi giovani, pronti a acclamare un pontefice sofferente prima di accorrere a acclamare un probabile capo del governo che, a sua volta, si presenta come esempio di virtù cristiane, davvero improbabili.

Era necessario questo esito? È certamente coerente e corrisponde alla progressiva, forse ineludibile erosione della cultura umanistica a vantaggio delle nuove forme, anch’esse di cultura, dei nuovi strumenti che hanno, appunto, nell’immagine e nella disponibilità dei nuovi accessi all’informazione non mediata i propri caratteri. Una Chiesa come questa corrisponde anche, così sembra, all’abbandono, non detto ma praticato, del cristianesimo come religione in favore di una Chiesa visibile in cui si compendia la storia secondo il prologo della “Lettera agli Ebrei”. Senza alcuna forma di ossequio o di consenso, occorre prenderne atto.

Il secondo polo, la speranza, lo troviamo, sempre a mo’ esempio, nella prefazione da lui scritta al libro della Comunità dell’Isolotto Oltre i confini (Lef, Firenze, 1995). Fu il primo incontro diretto fra una personalità apparentemente schiva ma in realtà partecipe e la comunità «il cui carattere e la cui forza – come lui scrive – non sono mai derivate dal riferimento a figure carismatiche».

Egli parte dall’Isolotto, ma il suo sguardo si estende su tutta l’area del «dissenso creativo» fiorentino, nazionale, mondiale. Lì nella base critica della chiesa e della società, che non è contrapposizione ma costruzione positiva di una «chiesa altra» e di una «società altra», vede e analizza acutamente germi di speranza. Per la realtà ecclesiale ma anche per tutta la società.

La vicenda […] Isolotto appartiene contemporaneamente a almeno tre contesti: la storia di Firenze, la storia della chiesa locale, la storia della chiesa. Appartiene anche, molto più di quanto si sia fino ad ora considerato, alla “storia del mondo” […]

Dal 1954 a oggi, in Firenze si sono succedute diverse forme particolari di esperienza e vita religiosa, e grandi figure rappresentative di essa. Da Elia Dalla Costa a don Facibeni, a La Pira, a padre Davide Turoldo, a don Lorenzo Milani, a Luigi Rosadoni, a padre Emesto Balducci, i modelli di obbedienza e di proposta religiosa e civile si sono succeduti come momenti irripetibili, ciascuno nella sua unicità, e pure appartenenti a una sorta di costellazione religiosa, quasi un privilegio di grazia.

Un elemento importante di speranza lo vede nel carattere evolutivo e dialettico della storia:

Questo consentirà di liberare la storia dell’Isolotto dalla prospettiva, in cui viene per solito chiusa, di una conflittualità particolare, quasi caratteriale, privata, presente sì ma come elemento “perenne” della dialettica propria della storia della chiesa e alla fine riconducibile alla dicotomia fra trascendenza e immanenza o fra particolare e universale o fra visibile e invisibile o profezia e storia, ossia alle coppie e ai nessi su cui si costruisce l’esperienza religiosa.

Infine lo sguardo prospettico, la profezia, il gettare «oltre» la luce della speranza, coerentemente col titolo del libro per cui scrive la prefazione:

Per questo, in certo modo, il Concilio e le sue carenze, ma anche la restaurazione appartengono ancora, o così sembra, alle categorie del sacro, dell’istituzione, della Chiesa discente e docente, a distinzioni e caratteri che la storia di oggi, e non solo la storia religiosa, non sa più e non deve più forse riconoscere come presenti e operanti.

In questo prepotente ritorno del sacro che ci sconcerta, in questa stagione culturale e politica in cui sono così centrali i temi etici e il rapporto con la Chiesa, le riflessioni dello storico illuminato e fine poeta sono parecchio illuminanti. Purtroppo la politica difetta di cultura e non è capace di approfittare di queste lezioni di memoria e di vita.

Michele Ranchetti è ognuno di noi, la sua lotta fra pessimismo e speranza è la nostra lotta, la sua fatica di pacificazione interiore e di liberazione dal dominio del sacro è la nostra fatica.

[Enzo Mazzi, «Il manifesto», 20 febbraio 2008]