Il senso del rischio
e l’amore del dono
Sergio Bologna

Ripensando alla figura di Michele Ranchetti, si ha la sensazione che il termine «cultura» – che in parte definisce la nostra esistenza – in realtà per noi stessi stia perdendo, come in una dissolvenza, i suoi contorni e il suo pieno significato, perché si stanno estinguendo le persone umane che lo incarnano pienamente, sicché – dovendo riflettere sul senso di quella parola – sempre più il pensiero corre a dei vocabolari e sempre meno a dei volti. Può darsi che questo effetto sia dovuto al meticciato crescente, sì che quella che a noi pare «cultura» sia in realtà la cultura «occidentale», cristiana e rinascimentale, illuminista e marxista. Ma il discorso vale lo stesso, perché è proprio «quella» cultura occidentale che si sta dissolvendo.

Michele Ranchetti era quella cultura, le aveva dato il corpo della sua minuta persona. Non era, grazie a Dio, uno specialista e, allo stesso modo, potremmo dire che non era un intellettuale né un professore e non lo era perché la vera cultura occidentale è essenzialmente libertà senza confini, senza segnali divisori e senza scudi protettivi. È rischio continuo, quello di cercare punti di vista diversi, idee diverse, che confliggono con l’opinione dominante, quindi granelli di novità, d’innovazione, non rifrittura. Ed è rischio dominato dall’amore per gli altri, perché si è convinti di «dare» qualcosa con le proprie idee, di contribuire alla libertà altrui. Un senso del dono che si accompagna a un piacere, a un godimento personale, una privazione che si accompagna alla sazietà. Quindi sono belle vite quelle degli uomini di questa cultura, vite di cui – dici – «meritavano di essere vissute», malgrado i dolori.

Michele Ranchetti con il dolore aveva una relazione speciale, sembrava che quello fosse il terreno a lui più familiare, lo avvicinava con forte concentrazione, come se nell’affrontarlo richiamasse tutte le sue energie e le sue doti, con senso di laico rispetto e di cristiana carità. E pertanto chi era ferito dal dolore riceveva sempre da lui sollievo. La vera cultura occidentale non ha paura né della modernità né della più sfrenata modernizzazione e se deve giocarsi con questa l’ultima partita se la gioca, non si ritira in un museo, non si impietrisce in un monumento. Meglio lasciarci le penne che percepire un sussidio di vecchiaia dai vincitori. Michele aveva conosciuto la modernità della grande impresa, dalla meccanica all’editoria.

Aveva praticato il lavoro dipendente e il lavoro da freelance, con lo stesso rigore, la stessa ironia con cui aveva ricoperto il ruolo di funzionario di stato. Aveva accettato la condizione generale di salariato ma non l’aveva mai negoziata con la sua libertà. Rotture e strappi sono stati frequenti nella sua vita, poteva permetterselo. Non perché alle spalle avesse terre o fortune ma perché poteva trasferirsi con naturalezza nello spazio infinito della poesia, della musica, del disegno. È stato un uomo fortunato e fortunati noi che gli siamo stati amici.

[«Il manifesto», 5 febbraio 2008]