Insegnanti e ricercatori
al tempo del precariato
Alessandro Ceteroni

1. Obiettivi e considerazioni preliminari

L’obiettivo del mio contributo sarà quello di riflettere sul tema del lavoro intellettuale umanistico con un approccio storico-letterario, considerando la presenza e gli sviluppi del tema nella recente narrativa italiana. Per prima cosa proverò a definire l’area di pertinenza di questo tema, in modo da rispondere a una questione preliminare: che cosa significa considerare il lavoro intellettuale umanistico come un tema letterario?

Credo si possa rispondere alla domanda in due modi. A seconda della risposta, la ricerca potrà assumere degli indirizzi non necessariamente opposti, ma in parte diversi. La prima ipotesi è di considerare il tema del lavoro intellettuale umanistico come l’insieme delle rappresentazioni delle professionalità, degli ambienti e delle situazioni riconducibili alle discipline umanistiche. Dal momento che tali discipline sono convenzionalmente individuate per opposizione a quelle scientifiche, l’oggetto di studio verrebbe circoscritto ai campi della letteratura, dell’arte, della filosofia, del diritto, della storia. Il tema del lavoro intellettuale umanistico sarebbe quindi attestato dalle rappresentazioni della scuola e dell’insegnamento, dell’università e della ricerca, della formazione, dell’educazione, delle biblioteche, delle librerie.

La seconda ipotesi concepisce invece il lavoro umanistico in termini antropologici, culturali e, aggiungerei, morali, vale a dire come un modo di concepire la persona e le relazioni sociali ispirato da determinate opere e da determinati valori. Pertanto l’idea di lavoro avrebbe qui una sfumatura di significato più vicina ai concetti di esercizio e di stile di vita. Il lavoro intellettuale umanistico sarebbe, in certa misura, indipendente dal mestiere del personaggio o dall’ambientazione del racconto, perché si potrebbero avere rappresentazioni di quell’esercizio anche al di fuori delle discipline umanistiche.

Consideriamo Il sorcio di Andrea Carraro. Il protagonista del romanzo, Nicolò Consorti, è un impiegato di banca. La rappresentazione di questo personaggio non andrebbe dunque annoverata nel discorso sul lavoro intellettuale umanistico, perché Nicolò fa un altro mestiere e la sua storia si sviluppa soprattutto in ufficio. Tuttavia Nicolò è anche uno scrittore di discreto successo, e in più di una circostanza la sua identità appare divisa tra l’impiego in banca e la vocazione letteraria. Filippo La Porta riconduce questo personaggio alla figura dell’inetto,1 dunque con un modello letterario che problematizzava proprio il ruolo della cultura umanistica all’interno della società moderna, che ne stava progressivamente incrementando la marginalità. Per il primo approccio la figura di Nicolò non sarebbe quindi focalizzata sul lavoro intellettuale umanistico, mentre per il secondo approccio lo sarebbe, seppur come occasione di riflessione sui modelli e sui generi letterari.

Ma può pure verificarsi il caso contrario. Potremmo cioè leggere testi che sono ambientati nelle scuole o nelle università, e che saremmo quindi propensi a includere nel nostro tema, ma che nei fatti si incaricano di sovvertire, decostruire o parodiare l’essenza stessa della cultura umanistica. Potrei citare I baroni di Nicola Gardini, che attraverso la rappresentazione del «codice baronale»2 dei concorsi mostra una gestione delle dinamiche universitarie che non ha niente a che vedere con il lavoro intellettuale umanistico. Il codice baronale esposto da Gardini è una lotta e un’ostentazione di potere, in cui riconosco certi presupposti aziendalisti come la sfida per la conquista dei mercati (il barone più influente è infatti quello che ha un peso maggiore nelle nomine di ricercatori e associati), la capacità di influire sulle trattative (il barone concede il proprio appoggio, ma nulla gli è dovuto), il controllo della concorrenza (il barone neutralizza i competitori), il primato dell’immagine sulla produzione (il barone appare importante nonostante le sue pubblicazioni siano scarse, datate, e in certi casi la sua preparazione sia persino lacunosa, come nel caso dei docenti di letterature comparate che non conoscono l’inglese). Il narratore si spinge addirittura a sostenere che i baroni, ossia i soggetti che gestiscono i settori della ricerca e della formazione, siano la negazione dei poeti, cioè delle figure che per definizione incarnano l’essenza della cultura umanistica.3

Preso atto della complessità del tema e di queste variabili, ritengo che sia opportuno scegliere l’approccio più prudente e inclusivo. Prenderò perciò in esame i testi dedicati alla rappresentazione della scuola e dell’università italiane, valutando le prospettive, i punti di forza e i paradossi della cultura umanistica, per allargare in un secondo momento il discorso ad altre fasce sociali. Ritengo che la scelta sia legittimata anche da una considerazione di tipo editoriale. Nell’ultimo decennio si è sviluppato un segmento della narrativa dedicato proprio alla rappresentazione dell’università e della scuola. Appartengono a questo segmento testi come Pronti a tutte le partenze di Marco Balzano, il cui protagonista e narratore in prima persona, Giuseppe Savino, è un precario della scuola che si divide tra la provincia di Salerno, Milano e Lisbona mentre scrive una tesi di dottorato sul Paradiso di Dante;

Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta, ambientato a Padova, anch’esso con un giovane studioso alle prese con il dottorato di ricerca nel ruolo di protagonista e narratore; il già menzionato I baroni di Nicola Gardini, che racconta la vicenda professionale dell’autore.4 Il tema della scuola è presente in Un anno di corsa di Giovanni Accardo, che inizia con il protagonista in cammino per le vie di Padova in cerca di una scuola che possa «affidarmi una supplenza, mi sarei accontentato anche di poche ore»,5 e nella caratterizzazione di Giovanni Costa, protagonista di La cultura enciclopedica dell’autodidatta di Davide Bregola.6 Aggiungerei i possibili sviluppi del tema tra letteratura e cinema. Ad esempio la protagonista, interpretata da Isabella Ragonese, di Tutta la vita davanti, film del 2008 di Paolo Virzì liberamente ispirato a Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia, è una precaria della scuola, e scriverà un articolo accademico in cui applica le conoscenze filosofiche al call center.7 Sono tutti ricercatori e professori precari i protagonisti di Smetto quando voglio, la commedia di Sydney Sibilia del 2014 che ha riscosso grande successo al cinema.

Il dato che ho ricordato suggerisce di indagare le ragioni che possono aver indotto gli autori e il pubblico a manifestare un interesse per questo tema. La tesi che mi appresto a sostenere è che emerga una relazione molto stretta tra le materie umanistiche e il precariato. Ne consegue che le rappresentazioni della scuola e dell’università potrebbero essere interpretate come un discorso sul mondo del lavoro e, più in generale, sulla società italiana di inizio millennio. Pertanto i motivi su cui andrò a porre l’attenzione saranno quelli del contratto di lavoro, dello stipendio, della carriera, degli orari flessibili, della percezione pubblica del ruolo dei docenti, della svalutazione dei titoli di studio, dei percorsi di vita dei laureati, della necessità di trasferirsi all’estero, dell’isolamento degli accademici. Secondo questo approccio la rappresentazione letteraria della scuola e dell’università assumerebbe un valore esemplare per raccontare la trasformazione economica, sociale e culturale che, per semplicità, riassumo con il concetto di precariato.

2. Testo, contesto, paratesto

Il legame tra scuola e precariato emerge in primo luogo attraverso la questione delle riforme del sistema educativo che sono entrate in vigore a partire dalla fine del Novecento. Un romanzo in cui è ben attestato il tema delle riforme è Pronti a tutte le partenze. Giuseppe Savino, il protagonista, registra in questo passo lo sfogo del collega coinquilino, il professor Carlo Guerra:

L’anno prossimo, con la riforma, andiamo tutti a spalare la neve, rimarranno i vecchi nelle classi da trentacinque alunni… – La faccia gli diventava più cupa. – Io mi sono laureato e specializzato, ho fatto tutto quello che mi avevano chiesto, ma non è servito. O comunque non basta mai. Il sistema è pensato per lasciarti immobile ad ammuffire in attesa che si degnino di riconoscerti qualcosa di cui magari, nel frattempo tu non hai nemmeno più voglia. Insomma mi sono stufato di stare fermo ad aspettare supplenze tra L’Aquila, Roma e Milano. Non voglio invecchiare così – ripensai al signore coi baffi. – Questi sono gli anni più belli per lavorare a scuola, siamo pieni di energie, di inventiva. Ma se un posto non me lo vogliono dare si fottano, io non passerò i prossimi vent’anni sui carboni ardenti per vedere se rimedio quattro ore di qua e cinque di là. Mi sono stufato di consegnare lo stipendio al benzinaio e di combattere la guerra dei pezzenti per portare a casa briciole.9

In seguito sarà invece Giuseppe a contattare il docente universitario con cui ha discusso la tesi e ha intrapreso il dottorato, il professor Ramino, per avere delle rassicurazioni sulla propria carriera accademica. Giuseppe teme che la riforma precluda ai precari come lui la possibilità di insegnare in Italia, e per questo motivo si rende disponibile a trasferirsi all’estero:

Senta professore, a giorni passerà la riforma della scuola superiore e sinceramente ho un po’ paura di finire a fare il cameriere in un bar o in un ristorante. Ecco, scusi la franchezza, ma vorrei chiederle se lei può aiutarmi. Io a questo punto partirei per Lisbona anche domani mattina, se fosse ancora possibile – gli dissi sistemandomi meglio la camicia sul collo.10

Segnalo una terza occorrenza del tema delle riforme, che è interessante perché in questo caso viene sviluppato in una riflessione personale di Giuseppe:

A fine agosto arrivò la notizia ufficiale che a scuola avevano fatto nuovi tagli e applicato quella maledetta riforma delle superiori. I disoccupati erano migliaia. Per riuscire a entrare all’ufficio di collocamento e all’INPS bisognava appostarsi davanti ai cancelli al mattino presto e nelle liste dei convocati per l’incarico annuale il mio nome nemmeno compariva più. Arrivederci e grazie.11

L’elemento costante nei tre estratti è la fragilità del lavoratore: nei dialoghi si suppone che la riforma possa acuire questa condizione, mentre nel terzo passo se ne ha la certezza. Vorrei far notare che questo senso di fragilità non è artificioso, poiché le situazioni comunicative qui delineate provano la sincerità dell’emittente. Nel primo estratto si tratta infatti di uno sfogo senza reticenze, che ricalca il parlato per la sintassi irregolare, per i puntini di sospensione che simulano le pause del discorso, per le parolacce come «si fottano» che, essendo pronunciate con accanimento da un professore, attestano lo stress emotivo del personaggio. Pure nel secondo estratto viene invocata la «franchezza» del discorso, ma questa volta in una conversazione privata tra il maestro e l’allievo. Giuseppe non avrebbe nessun vantaggio a mentire a Ramino, poiché la delicatezza della questione che sottopone al professore gli impone di essere chiaro ed esaustivo. Nel terzo passo, in cui Giuseppe informa il lettore di come è evoluta la vicenda delle graduatorie, l’attendibilità delle sue affermazioni è dimostrata dal fatto che il contratto a scuola non gli sarà rinnovato.

Nel romanzo di Balzano il tema del lavoro scolastico, di cui la borsa di studio per il dottorato costituisce una variante, è quindi l’occasione per un discorso sulla società nutrito di coscienza critica e di accenti polemici. Il valore esemplare della storia, per certi versi anticipato dal plurale «pronti» del titolo, viene ricavato dalla rappresentazione della società nella sua complessità. Ma in alcuni libri il paratesto tende a sminuire questa complessità, riducendola a un fattore generazionale di minore efficacia. Prenderò in esame la nota introduttiva di Perciò veniamo bene delle fotografie, che considero tra le prove più interessanti sul piano stilistico e tematico:

Questo romanzo riesce nell’impresa, tanto classica da essere modernissima, di svelare l’essenza di un’intera generazione attraverso la forma poetica. «Non si muove nessuno, qua, perciò veniamo bene nelle fotografie»: è una delle tante immagini, geniali e disarmanti, con cui il protagonista coglie il senso di sé e dei suoi coinquilini – universitari, operatori di call center, neo manager di multinazionali. Tra un prosecco di sottomarca e uno slancio esistenzialista, questi eroi minimi condividono «giovinezze devastate dal tempo scagliato altrove» in un quartiere della Padova popolare. Francesco Targhetta, con i suoi versi liberi e visionari, costruisce una vera storia, che invita tutti a identificarsi, guardarsi con tenerezza e, infine, ridere di sé. Francesco Targhetta è nato a Treviso nel 1980. È assegnista di ricerca presso l’Università di Padova. Questo è il suo primo romanzo.

Mi permetto di decostruire alcuni messaggi contenuti nella nota. Per prima cosa, si insiste in apertura e in chiusura sulla categoria del romanzo, ribadita pure in copertina nella formula «Romanzo in versi». Non mi interessa ora stabilire se la definizione di romanzo per questo testo sia corretta oppure o no, ma faccio osservare che la ripetizione quasi ossessiva della voce romanzo non sembra derivare dalla preoccupazione di classificare l’opera nel sistema dei generi letterari, bensì da un’operazione di marketing che mira a rimarcare l’accessibilità al testo anche per i lettori meno abituati alla scrittura in versi.

Ma suscita forse maggiore interesse la parola «impresa». Essa rinvia inevitabilmente all’epica, e forse non a caso si parla, più avanti, di classicità e di eroismo. Insomma, saremmo introdotti a qualcosa di straordinario, di fuori dal comune (sebbene gli eroi siano «minori», e quindi, ancora una volta, accessibili). La nota spiega pure in che cosa consisterebbe questa impresa: nell’aver costruito una «vera storia» (corsivo originale) che «coglie il senso di sé». Non mi è chiaro se l’aggettivo vera sia usato qui per indicare il carattere autobiografico di un racconto basato su fatti realmente accaduti (ma allora non sarebbe stata più congeniale la formula “storia vera”?), oppure se rinvii a un’idea superiore e astratta di verità. Sta di fatto che i versi di Targhetta non sembrano voler celebrare il «senso» di una generazione: semmai essi denunciano un malessere diffuso, che la poesia è in grado di riconoscere a partire dalle vicende quotidiane dei personaggi e di rielaborare attraverso una forma linguistica superiore.

Pertanto, sebbene sia corretto affermare che il testo abbia un respiro collettivo, come dimostra la prima persona plurale del «veniamo» del verso che dà il titolo al libro, il «noi» di Targhetta non ha nessuna intenzione di suscitare una facile immedesimazione basata sulla «tenerezza» per indurlo a «ridere di sé». Il «noi» di Targhetta è un noi rabbioso e tragico, perché esprime il senso di necessità che unisce i personaggi in un dramma profondo: la necessità di unirsi per sopravvivere, di condividere il medesimo appartamento, di soccorrersi in un comune destino di precariato. Il «noi» di Targhetta non è generazionale, ma sociale, nel senso che descrive il proprio perimetro in maniera liquida secondo un principio economico ed esistenziale: al suo interno, in altre parole, possiamo trovare personaggi diversi per età, sesso, estrazione sociale, etnia. Con ciò, non voglio negare in termini assoluti che il testo di Targhetta possa stimolare tenerezza e autoironia. Semplicemente, credo che presentare questa eventualità come la chiave di lettura della narrazione sia una forzatura che non rende onore alla complessità dell’opera.

Ritrovo la retorica della storia vera nella copertina de I baroni, che recita:

Questo libro è un documento eccezionale. È una denuncia e una confessione. Ma soprattutto è una storia vera: il racconto paradossale e a tratti kafkiano di dieci anni passati a barcamenarsi tra concorsi veri o fasulli, professori che tramano, promesse fatte e non mantenute, colleghi impauriti e vessazioni inutili.

Mi chiedo: il fatto che il racconto sia ispirato a fatti realmente accaduti all’autore è davvero così importante, da definire il testo «soprattutto» in virtù di questa informazione? Il motivo principale per cui varrebbe la pena di leggere il libro (e quindi di pubblicarlo) consisterebbe nel fatto che è un documento. A mio parere le parti più interessanti del romanzo sono invece proprio quelle dedicate allo sviluppo di precisi motivi della cultura umanistica, come il concetto di mito o di idea. Considero più pertinente la nota introduttiva al testo, intitolata Avvertenza per il lettore:12

Questo libro racconta la storia della mia carriera universitaria in Italia, una storia vera. I nomi dei luoghi sono stati mantenuti, non quelli delle persone. Il senso del libro, infatti, non sta nella necessità di riconoscere in questo o quel personaggio qualche individuo reale, ma nell’auspicio che altri riconoscano negli eventi narrati aspetti di un problema più generale, elementi di un malcostume purtroppo ben più diffuso del mio caso personale.

Il progetto della «storia vera» acquisisce nell’avvertenza un valore superiore. Dalla nozione di documento, che non può essere applicata alla finzione letteraria con la stessa disinvoltura con cui viene impiegata in un’aula di tribunale per indicare un atto giudiziario o in un quotidiano per citare una fonte, si passa alla categoria del realismo. Questo slittamento è espresso dalla scelta di non mantenere i nomi delle persone. È infatti evidente che in una denuncia a un pubblico ufficiale sarebbe stato impossibile modificare i nomi dei responsabili. Ma nella finzione letteraria è possibile, ed anzi opportuno, perché il libro si propone di compiere un’operazione di realismo, ossia di esporre in modo chiaro, riconoscibile e condivisibile un problema generale attraverso il destino esemplare di un personaggio. Il piano di realtà a cui mira il romanzo è la comprensione di un problema generale, e per raggiungere quel livello si può rinunciare agli elementi che attirerebbero l’attenzione su un piano marginale.

3. I baroni dell’università

La descrizione del professore Carmelo Corona, nelle sequenze iniziali del romanzo di Gardini, è il ritratto compiuto del barone:

Carmelo Corona non è solo un professore di Letteratura comparata. Anzi, all’insegnamento e alla ricerca si è dedicato con parsimonia. Carmelo Corona è soprattutto un “uomo di potere”, come si ama dire con espressione tipicamente italiana. Quest’espressione, si sa, è dispregiativa ed elogiativa a un tempo, e trae significato logico da quello stesso atteggiamento – anche questo tipicamente italiano – per cui molta gente, senza imbarazzo, esprime ammirazione per coloro che hanno l’abilità di fregarli senza farsi prendere.

Corona è uno che ha la mappa degli atenei davanti agli occhi dalla mattina alla sera. Palermitano, era stato fino a pochi anni prima preside di facoltà a Palermo, proprio dove si teneva il mio concorso. Da lì era venuto via in malo modo, sbattendo la porta, per ragioni che non ho mai avuto la curiosità di indagare, e ora era vicerettore dello IICC (Istituto italiano per la comunicazione e il commercio) – sigla cui, divenuto rettore poco tempo dopo, avrebbe cambiato disinvoltamente il genere grammaticale: la IICC, per innalzare, con poca spesa, l’istituto al rango di vera e propria università. Nonostante si fosse trasferito al Nord, Corona manteneva impegni e incarichi istituzionali nella città d’origine e a Roma. Era presidente di vari premi letterari, membro del comitato direttivo di alcuni teatri e tante altre belle cose collegate alla cultura. A Palermo, comunque, Corona si recava soprattutto in veste di presidente di un istituto bancario. Vedi, lettore, quanto sia distante quest’uomo dal tipico professore di letteratura.13

Per prima cosa, il narratore dice ciò che Corona non è. Paragonarlo a un semplice professore di letteratura sarebbe oltraggioso. Il concetto è ribadito nell’ultimo periodo, con un appello al lettore che conferma quanto già ricordato a proposito dello statuto finzionale che contraddistingue il genere del romanzo, anche quando rivendica una vocazione di testimonianza e di denuncia. Registro poi la vena ironica di espressioni come il dedicarsi «con parsimonia» all’insegnamento e alla ricerca, o come la natura «tipicamente italiana» di certi vizi, o come la modifica «con poca spesa» della sigla dell’istituto. Questi inserti hanno la funzione di orientare la testimonianza realista, riconducibile a una serie di dispositivi come le connessioni logico-causali tra le sequenze garantite dalla centralità del narratore, verso percorsi di fruizione diversificati. Possiamo cioè leggere il testo per conoscere il malcostume degli atenei italiani, ricavando anche un piacere dalle divagazioni, di volta in volta ironiche o erudite, del narratore.

Quando ho letto per la prima volta il ritratto del barone che «ha la mappa degli atenei davanti agli occhi dalla mattina alla sera», mi è venuto in mente il celebre murale dipinto dall’artista Blu a Lisbona nel 2010, che raffigura un uomo d’affari incoronato con i simboli delle multinazionali mentre succhia le risorse della Terra con una cannuccia. È una suggestione del tutto personale, me ne rendo conto, che dipende forse dall’accumulo di incarichi di Corona: preside, presidente di premi letterari, membro del comitato direttivo dei teatri, presidente di una banca. O forse ha concorso a stimolare quel paragone la descrizione dell’ufficio di Corona:

Sedeva, con aria soddisfatta, dietro una grande scrivania, in un ufficio grande e panoramico. Insisto sulla grandezza. Infatti, l’ufficio di Corona sembrava più che altro l’imitazione di un luogo di lavoro, come se tanto spazio non fosse necessario e avesse un puro valore simbolico. Forse l’impressione di grandezza derivava principalmente dal vuoto: le pareti erano sgombre e gli scaffali non sostenevano alcun libro.14

Il barone riposa appagato dietro la scrivania, simbolo di potere e non di lavoro. Si realizza così il rovesciamento completo del lavoro intellettuale umanistico: nell’ufficio di Corona non c’è neppure un libro, e non sapremmo neppure distinguerlo dall’ufficio di un banchiere o di un industriale. Tutto è grande: la scrivania, l’ufficio, la soddisfazione del barone. È stata forse questa impressione di grandezza a suggerirmi l’immagine del capitalista che tiene in mano il mondo intero, che per il barone coincide con la mappa degli atenei.

Durante l’esperienza palermitana, il protagonista subisce una serie di torti che confermano il legame tra la narrativa dedicata al mondo della scuola e la letteratura italiana sul tema del lavoro. Le pressioni esercitate in dipartimento dal professor Fecaloro ai danni di Nicola rientrano infatti nella casistica del mobbing. Fecaloro accoglie Nicola con le parole «Ecco il problema Gardini!»,15 non certo un benvenuto. Al protagonista accadono numerose disavventure: viene convocato a Palermo per partecipare a riunioni ed esami puntualmente cancellati, non riesce a ottenere un’aula per le lezioni, non gli vengono messi a disposizione né un ufficio né un telefono. A Nicola viene dapprima consentito e poi impedito di partecipare alle sessioni di laurea e di tenere un seminario. In definitiva, gli viene impedito di svolgere attività di ricerca e di insegnamento, mentre Fecaloro non risponde neppure alle sue chiamate.

Un altro collegamento tra la rappresentazione dell’università e la letteratura sul lavoro è offerto dalle difficoltà economiche di Nicola. Essere precari significa anche, di norma, ricevere uno stipendio basso. Di conseguenza il precario tende a svolgere più lavori nello stesso tempo, per avere un’entrata complessiva accettabile. Nicola, pur essendo impiegato in un settore di eccellenza, è esposto a queste difficoltà. In alcune occasioni egli afferma che le proprie scelte di vita sono state influenzate dal rapporto affettivo ed economico con i genitori:

Se non fossero intervenuti i miei genitori, con i loro risparmi, non ce l’avrei fatta a tirare alla fine del mese. Mi consolava il pensiero che non ero l’unico in quella situazione. L’università italiana è fatta di numerosissime persone che lavorano in posti molto lontani da casa e perciò finiscono per spendere quasi tutto lo stipendio in viaggi […]. Anch’io mi ero già dimenticato che un lavoro vero è quello che ti dà i soldi per vivere, non quello che ti costa soldi e ti lega di nuovo alla tua famiglia d’origine.16

Vorrei sottolineare due elementi. Il primo è la dimensione collettiva del fenomeno, che tuttavia non origina una comunità. Nella riflessione di Nicola non riscontro nessuna concessione alla retorica del «noi» o della generazione. Egli parla di «persone» che sembrano aver «dimenticato» la coscienza di classe. Ci si potrebbe allora chiedere come mai lo sfruttamento oggettivo a cui sono sottoposti non susciti in loro una reazione comune, tanto più che essi dispongono di un livello culturale molto elevato. La responsabilità è soprattutto dei baroni, che basano il proprio potere sulla disgregazione della forza lavoro (i dottorandi, i ricercatori, gli studiosi). Costoro, per migliorare la propria condizione, non possono affidarsi a principi trasparenti e meritocratici, poiché l’azione segreta dei baroni mina il rispetto reciproco e inquina le regole della competizione. Non si vincono infatti i concorsi, spiega Nicola, per merito, per bravura o per titoli: i vincitori dei concorsi vengono stabiliti a tavolino dai baroni in base a giochi di alleanze e di potere.

Eppure, se il massimo grado di formazione accademica risulta del tutto slegato da ogni tipo di azione concreta ispirato ai principi e ai valori che i ricercatori dovrebbero aver acquisito durante gli studi, la responsabilità non può essere soltanto dei baroni. I meccanismi di raccomandazione e di competitività hanno permeato anche le menti e gli animi degli studiosi più giovani, come sottolinea il protagonista in diverse occasioni. Il senso di co-munità sopravvive soltanto nel nucleo familiare. In termini narratologici, i genitori sono i principali aiutanti del protagonista, mentre i baroni e i loro adepti sono gli oppositori.17 Allo stesso tempo, Nicola è cosciente delle limitazioni imposte dalla mancata indipendenza dalla famiglia. Si recupera in tal modo uno dei concetti alla base della figura dell’inetto: la necessità di trovare un equilibrio tra la formazione umanistica e la passione letteraria del personaggio, da una parte, e la lotta per la sopravvivenza nella società moderna, dall’altra. A tal proposito, bisogna osservare che Nicola non è un inetto, poiché non rinuncia alla lotta: semmai egli, appurato che le carte sono truccate, sceglie di giocare a un altro tavolo. Questo dato andrebbe messo in relazione alle novità apportate dalla recente letteratura sul precariato sul versante dei tipi letterari. Ricordo infatti che questa letteratura ha sviluppato un sistema di motivi ricorrenti e di neologismi per esprimere la condizione di dipendenza dal nucleo domestico originario: penso, tra gli altri, ai lavoratori-giocattolo di Celestini o agli adultolescenti di Masotti.18 In questo quadro assume grande importanza la relazione tra Nicola e il padre, afflitto da una malattia degenerativa.19

Ma quali sono le conseguenze che i baroni e il precariato producono sulla qualità del mondo universitario? Il punto è che a rimetterci sono gli studenti italiani. Da ciò scaturisce l’opposizione tra il modello italiano e quello americano, forse talvolta sviluppata con giudizi troppo netti,20 ma comunque capace di restituire un sistema di opposizioni spaziali e simboliche efficaci. Per esempio l’università di Feltre, in cui Nicola ha l’opportunità di organizzare un corso sulla cultura americana, diventa un’anti-Palermo. Questa alternativa diventa concreta quando Nicola abbandona l’Italia. Il triste paradosso di un’università incapace di preservare la cultura umanistica persino al proprio interno viene perciò scongiurato dall’emigrazione del protagonista. Conviene segnalare che non si tratta di una fuga, ma di una partenza consapevole. La necessità della partenza, vera e propria parola-chiave della narrativa sul precariato, emerge nelle pause narrative che consentono a Nicola di sviluppare le proprie riflessioni sui classici, sulla letteratura e su concetti come il mito, la felicità, il linguaggio, la poesia, la memoria, la speranza, l’impegno. In definitiva, il messaggio che possiamo ricavare dalla carriera di questo personaggio osteggiato dai baroni è che quel sistema clientelare può essere combattuto ispirandosi proprio ai valori che i baroni disattendono ogni giorno con il loro operato dispotico e maldestro.

4. I precari della scuola

Giuseppe Savino è il prototipo dell’insegnante precario. Giuseppe accumula una serie di esperienze difficili da eguagliare: insegna in Italia e all’estero, al sud e al nord, in classe e in carcere, nelle scuole pubbliche e negli istituti privati. Inizierei dalla descrizione del luogo senza dubbio più negativo e sconfortante in cui Giuseppe ha occasione di insegnare: il “diplomificio” di Salerno:

Era una scuola per figli di arricchiti, a diciott’anni già con la cabriolet e la cocaina in tasca. Ragazzi convinti che con un padre che gestisce appalti, che fa l’agente immobiliare o il costruttore studiare sia una cosa insensata. Ricordo il preside, un uomo vergognoso, intrallazzato con certe scuole parificate di Roma e Caserta per far promuovere quella gente che gli versava, già ai tempi, seimila euro ogni anno per recuperare in una sola tornata due o tre bocciature […].

Gli altri colleghi sorridevano ciondolando la testa e mi davano grandi pacche sulle spalle. Erano prof in pensione che non volevano starsene a casa o passare le mattine ai giardinetti, oppure ragazzi che come me si erano appena laureati o che ancora dovevano discutere la tesi. Tutti rigorosamente in nero o al massimo con partita iva.

Passavano le settimane e gli studenti più che fare lezione mi prendevano per quello che ero, un inesperto che non aveva capito né dov’era finito né chi aveva davanti. Studiare non studiavano, ascoltare non ascoltavano, anzi la maggior parte non aveva né un quaderno né un libro né uno zaino. Però se gli chiedevo qualcosa parlavano volentieri. Raccontavano dei loro genitori in giro per affari, mostravano i bigliettoni che avevano nel portafogli e i cellulari su cui scaricavano i film porno. Alcuni avevano compiuto diciott’anni e avevano già l’appartamento in centro.21

L’istituto è «una scuola per figli di arricchiti». Non è un collegio prestigioso, in cui il costo di iscrizione risulterebbe legittimato dalla reputazione della struttura e dalla qualità dell’insegnamento. Il diplomificio attira chi dispone di denaro per l’acquisto di titoli di studio e per il recupero degli anni scolastici, ma gli studenti non hanno neppure i libri. Le riforme della scuola hanno pertanto legittimato la proliferazione di istituti che equiparano il titolo di studio a una merce: l’impressione è che si sia affermata una logica di compravendita basata sul denaro, speculare al sistema di potere dei baroni nelle università.

L’analogia appare ancor più fondata se confrontiamo il ritratto del preside scolastico con quello del barone universitario. Pure il preside del diplomificio insegue i meccanismi di potere (è «intrallazzato») e di scambio (i «seimila euro»). Gli zaini di questi studenti, perlomeno di quelli che ne hanno uno, sono privi di libri come gli scaffali dell’ufficio di Corona. Questi ragazzi non sono in grado di capire il valore del denaro, non avendolo guadagnato con il proprio lavoro, similmente ai servi dei baroni che procedono per raccomandazioni. In definitiva, è la ricchezza culturale e morale di cui si nutre il concetto di lavoro ad essere stata smantellata dal diplomificio, come conferma l’irregolarità dei contratti proposti agli insegnanti. Quando Giuseppe pretende dal preside di essere assunto con un contratto regolare, viene licenziato:

Siccome dopo qualche settimana il contratto non era arrivato, una mattina decisi di andarmi ad acquattare come un anfibio davanti all’ufficio del preside.

– Non mi ha ancora messo in regola – gli dissi senza salutarlo quando si decise a uscire dalla stanza.

– Guardi che è inutile che continua a seguirmi come un segugio. Qui noi paghiamo in questo modo e non credo di doverle molte spiegazioni. Se non le sta bene è libero di lasciare anche oggi stesso. Per fortuna c’è sempre una lunga coda di gente che chiede di lavorare nella mia scuola […].

Il giorno dopo a scuola non c’era più un solo registro, né quelli di classe, né quelli dei singoli insegnanti, ma ci vennero date delle fotocopie su cui segnare assenze e voti. Il preside mi guardò trionfante dai corridoi. – Buon-giorno professore! – esclamò teatralmente scortato dalla segretaria che gli portava carte e cartellette. Aveva eliminato ogni traccia della mia presenza.

Il giorno dopo ancora, il bidello (uno scugnizzo di fiducia del preside) mi accolse all’entrata con un pastore tedesco che tirava il guinzaglio e si impennava sulle zampe e io me ne tornai indietro.22

Le violazioni e le intimidazioni testimoniate da Giuseppe sono molto gravi, se consideriamo che i titoli emessi dal diplomificio hanno la stessa validità delle altre scuole. Questa pratica del tutto irregolare è consentita proprio dal precariato, poiché, per dirla con le parole del preside, fuori c’è la «coda di gente che chiede di lavorare».

Certo, non tutte le esperienze di Giuseppe sono negative. In altre scuole il ruolo del docente è tutelato, e con alcuni allievi egli istaura un rapporto di fiducia che sopravvive nel tempo. L’episodio più interessante è ambientato nel carcere di Opera, dove il protagonista riceve una supplenza breve. La sequenza dei cancelli23 e l’abbraccio con il detenuto che si toglierà la vita24 vanno certamente annoverate tra le pagine migliori del romanzo. Il narratore affronta temi impegnativi come il senso di colpa, la responsabilità personale, la solidarietà tra i detenuti. In questa costellazione tematica si inserisce pure la riflessione sul ruolo della cultura umanistica. È possibile riscoprire il valore della letteratura in ambienti come il carcere? Si può recuperare un’idea di educazione e di partecipazione attraverso i classici? Tra alti e bassi, Giuseppe riesce a raccogliere dei risultati positivi, le piccole tracce di senso che rovesciano la visione distopica emersa nel diplomificio.

Ma ciò che collega esperienze dai modi e dagli esiti così diversi è pur sempre la precarietà del protagonista. Tornando dunque a riflettere su questo grande tema, penso che andrebbero distinti due ragionamenti. Da una parte, si può considerare il precariato come una condizione esistenziale, che Giuseppe traduce nelle metafore del catrame,25 della ferita26 e della marea.27 È la dimensione psicologica e, per certi versi, intima del precariato. Intrecciandosi alla vocazione di Giuseppe per lo studio e per l’insegnamento, il precariato risulta determinante pure nella sua vita affettiva. Giuseppe conosce la compagna, Adelìa, in una libreria portoghese, ed è interessante notare che la loro unione cresce nel rispetto del lavoro reciproco (Giuseppe in università, lei tra la libreria e il ristorante dei genitori), nutrendosi di conversazioni sui libri.

D’altra parte, il precariato indica pure un percorso di militanza e di autocoscienza. In questa accezione assumono un ruolo importante i personaggi che circondano Giuseppe: il padre, che in più di una situazione lascia intendere di voler “menare le mani”; il professor Ramino, che dopo aver accompagnato Giuseppe nel percorso di laurea, lo sostiene durante il dottorato; i coinquilini milanesi, che nel conferire al racconto una connotazione multietnica, formano «una famiglia a tempo determinato».28

La sfera privata e quella pubblica si uniscono così nel tema della lotta. Il personaggio-chiave per questo discorso è Tarzan. Tarzan è il soprannome che Giuseppe e i coinquilini hanno assegnato al vicino di casa, uomo dall’accento bergamasco e dall’aspetto selvaggio che cambia lavoro in continuazione. Questo personaggio, che durante una cena aveva esposto una visione grezza, razzista e reazionaria della società, vive una trasformazione radicale, al punto da diventare il leader di uno sciopero per il diritto alle assunzioni regolari. Durante lo sciopero al narratore sono ben chiare le posizioni dei servi29 e del padrone.30 I dimostranti occupano il tetto di un palazzo e in strada accorre molta gente: viene così abbozzata una solidarietà di classe che unisce, in una schiera quanto mai eterogenea, i lavoratori precari.31 Segnalo che «Tarzan» è l’ultima parola del romanzo.

Scrivere mi proteggeva, mi proteggeva studiare, perché non mi toglievo dalla testa che occuparsi di letteratura non voleva dire starsene sulle nuvole e che anzi aveva ancora più senso farlo proprio in quel momento, proprio per cambiare quella situazione. Un giorno in cui ero particolarmente adrenalinico per questi pensieri li riferii via mail a Ramino, e fu l’unica volta che mi rispose. «Caro Savino, le sue parole sembrano quelle di un garibaldino. Vanno bene, ma cerchi di mantenere la calma».32

Bisogna trovare un altro codice, un altro modo di connettere le cose che si sanno con quelle che si vivono, altrimenti non ha senso, viviamo per frammenti, ci riduciamo ad essere inutili banche dati.33

La letteratura, lo studio, la scrittura, non devono mai allontanare dagli uomini, altrimenti anche loro diventano volgari. Diventano una giustificazione, una scusa, o peggio ancora un vizio […]. Vede, me ne sono accorto solo ora che sono vecchio. Prima no, mi sembrava di essere in tempo. Mi sembrava normale rimandare a domani.34

Ripensavo alle parole di Ramino, a quando puntava l’indice in aria per ripetere quella citazione di Forster, «only connect», e si animava nel dirmi che cultura vuol dire solo collegare quello che si sa perché senza collegamento nulla si comprende veramente e qualsiasi conoscenza rimane una monade triste.35

Credo che la riflessione sulla cultura come collegamento del sapere e come esercizio quotidiano sia la conclusione ideale del mio intervento. A partire dall’individuazione di un insieme di testi dedicati alla scuola e all’università, mi sono impegnato a esplorare gli sviluppi, i paradossi e gli sconfinamenti del tema del lavoro intellettuale umanistico, per dimostrare il vincolo che unisce, in questa fase storica, la rappresentazione di questo tema al discorso sul lavoro e sul precariato.

Note

1 I riferimenti sono: A. Carraro, Il sorcio, Roma, Gaffi, 2007; F. La Porta, «Il sorcio» di Andrea Carraro, in «I dieci libri dell’anno 2008/2009», Scrittori e critici, a cura di A. Berardinelli, 2008, pp. 101-112.

2 N. Gardini, I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 129.

3 «Il Poeta è l’opposto del Barone. Il Barone vuole a tutti i costi avere ragione. Il Poeta, al contrario, non fa nulla per avere ragione. La poesia è tutto tranne che ricerca di consenso. Il Poeta, come diceva Canetti, è sempre contro il suo tempo. Per questo non ha un ruolo nella società. Il Barone, invece, vive in funzione esclusiva della società; addirittura, pretende di crearne una. L’unico ruolo concepibile per il Poeta è quello che si dà lui stesso all’interno della sua stanza. Ma più che di ruolo bisognerebbe parlare di “rapporto” – il rapporto che il Poeta stabilisce con l’immagine di sé, in ogni momento della giornata. Il Barone, invece, non ha un’immagine di sé, ma solo l’immagine che ritiene che gli altri debbano avere di lui»: ivi, p. 125.

4 M. Balzano, Pronti a tutte le partenze, Palermo, Sellerio, 2013; F. Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, Milano, Isbn, 2012.

5 G. Accardo, Un anno di corsa, Milano, Sironi, 2006, p. 14.

6 D. Bregola, La cultura enciclopedica dell’autodidatta, Milano, Sironi, 2006.

7 M. Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Milano, Isbn, 2006.

8 Se si accetta il collegamento tra le rappresentazioni della cultura umanistica e il tema del precariato, sono tre i piani di analisi in cui converrebbe scomporre la riflessione. Il primo è la relazione tra le opere e il contesto storico, che mette in evidenza l’urgenza con cui viene recepito il tema del precariato. Queste opere hanno in varia misura anticipato, recepito e rielaborato una trasformazione epocale della società, che ha riguardato un insieme di questioni come il ruolo degli insegnanti, il valore del titolo di studio, l’ingresso nel mondo del lavoro. Il secondo piano da esaminare è il paratesto delle opere. Da esso si ricavano due informazioni fondamentali: dalle biografie e dalle interviste degli autori si evince che molti di loro hanno raccontato la propria storia personale; dai titoli e dalle strategie editoriali si comprende invece che queste storie sono state spesso presentate come singole espressioni di una retorica generazionale. Il terzo piano, quello formale, mostra infine che il tema del precariato scolastico viene sviluppato, di norma, all’interno di una narrazione di impianto realista, in cui la riconoscibilità dei luoghi e la tenuta dell’impianto narrativo possono assumere pure una funzione di denuncia.

9 Balzano, Pronti a tutte le partenze, cit., pp. 126-127.

10 Ivi, p. 155.

11 Ivi, p. 162.

12 Gardini, I baroni, cit., p. 11.

13 Ivi, p. 24.

14 Ivi, p. 25.

15 Ivi, p. 38.

16 Ivi, p. 48. In seguito Nicola viene contattato dall’avvocato Radicchi, che si rivelerà essere un megalomane. In questa occasione Nicola afferma che «acconsentii solo perché la lettera si concludeva con una promessa di adeguati compensi. Come ho già ricordato, da quando avevo preso servizio a Palermo, la mia situazione finanziaria era andata precipitando di giorno in giorno e io sentivo sempre più urgente il bisogno di risolverla» (ivi, p. 63). Segnalo anche questo passo: «Lavorare a Palermo, già solo quel primo anno, mi aveva ridotto sul lastrico. I miei genitori mi davano una mano, attingendo dai risparmi di una vita, ma non era giusto che alla mia età dipendessi ancora da loro» (ivi, 76).

17 Ai baroni sono peraltro rivolte le dure invettive del narratore, come questa: «Questa è un’altra caratteristica dei Baroni: che la loro memoria storica non si trasforma mai in coscienza, cioè in uno stato permanente del pensiero; ma sprofonda e riaffiora secondo la necessità o, meglio, l’utilità. Un Barone, insomma, ricorda solo quando è costretto a ricordare. Di dimenticare non si vergogna. Per tale motivo, il mancato rispetto dei patti non costituisce assolutamente per il Barone un problema morale» (ivi, p. 132).

18 A. Celestini, Lotta di classe, Torino, Einaudi, 2009; D. Masotti, Ci meritiamo tutto®. Nessuno pensava che sarebbe finita così…, Bologna, Pendragon, 2012.

19 È di particolare interesse il parallelismo tra i destini di Nicola e del padre, costruito attraverso la metafora della malattia: «I mesi passavano così, nella vacuità. Vivevo, non solo a Palermo, sporto da una terrazza. Aspettavo una soluzione. Aspettavo il nuovo concorso, illudendomi che avrebbe cambiato le cose. Ma le cose andavano sempre peggio. La sorte, che è capace dei più sofisticati parallelismi narrativi, impose che lo svolgimento della mia carriera accademica italiana coincidesse perfettamente con il progressivo crollo cerebrale di mio padre […]. Entrambi, io e mio padre, combattevamo una lotta impari: lui contro una malattia inguaribile, io contro un sistema cancrenoso che aveva diramazioni e metastasi ovunque nel corpo del paese» (Gardini, I baroni, cit., pp. 100-101). Segnalo che l’immagine del personaggio affacciato alla terrazza, che trascorre il tempo nella vacuità di un presente simile a una prigione senza aperture verso il futuro, potrebbe essere interpretata con la categoria del personaggio “inerte” (rinvio ad A. Ceteroni, Dall’inetto all’inerte. Il personaggio narrativo nella crisi economica, in N. Dupré, M. Jansen, S. Jurisic e I. Laslots (a cura di), Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, Firenze, Cesati, 2016, pp. 75-84).

20 Mi riferisco a giudizi come questo: «Uno studente americano, se è interessato a quello che studia, capisce e discute con abilità critica nozioni generali come potere, religione, razza, sesso, e tratta la letteratura per quello che è stata per secoli, in Italia e in Europa: una riflessione sul rapporto dell’individuo con la società; un discorso sulla responsabilità personale. Per questo autori come Dante, Boccaccio o Machiavelli godono di grandissima popolarità in America. Gli studenti italiani, in confronto, hanno dimenticato l’importanza delle idee, il valore della volontà individuale. Loro tendono, per colpa della scuola, a vedere nella letteratura solo dei libri» (Gardini, I baroni, cit., p. 79).

21 Balzano, Pronti a tutte le partenze, cit., p. 45.

22 Ivi, pp. 45-46.

23 «A Opera si arriva con la metropolitana e poi cambiando due autobus per una ventina di fermate. Andare a Opera non è andare a San Vittore dove, come per miracolo, si continuano a vedere bar eleganti, autobus affollati, gente che si affretta. Andando a Opera sembra di isolarsi sempre più, come un aereo che sta uscendo dalla sua rotta. Più di ogni altra cosa impressionano i cancelli. Ne superi uno via l’altro e ogni volta che le guardie carcerarie li sbattono, il cuore ti vuole scappare via e veramente senti che il mondo l’hai perduto, è rimasto fuori. Allora immagini qualcuno – non sai chi – che ti possa proteggere e aiutare – non sai da cosa, forse da quelle stesse mura piene d’ombra» (ivi, p. 129).

24 «Salvatore Aiala, un sabato mattina, senza che potessi fermarlo, mentre un altro mi parlava dei racconti di Čechov, e un altro ancora dei casi di Maigret, interrompendo continuamente un terzo che mi stava dando un’interpretazione personalissima del Cavaliere e la morte di Sciascia, si alzò e venne alla cattedra. Mi guardò negli occhi, mi infilò le sue mani lunghe sotto le ascelle e mi sollevò in piedi. Mi teneva fermo e rimaneva zitto. Anche il resto della classe rimaneva in silenzio. Io guardavo di sbieco la porta e seppure sono alto, lui era veramente un armadio e io sembravo una camicia spiegazzata appesa nell’angolo. Pensavo a un raptus, a uno scatto di rabbia per una parola mal detta, a un istinto violento. Sudavo. Mi tirò a sé dalle spalle e mi strinse. Quell’abbraccio a me pareva che mi stritolasse e lui intanto agitava il petto pieno di convulsioni. Piangeva. Piangeva a dirotto, sempre più scosso, e non si riusciva a fermare e più piangeva e più mi stringeva, e più mi stringeva e più mi faceva male alle ossa» (ivi, p. 133). In seguito un ex-detenuto scarcerato confiderà a Giuseppe che «Aiala è morto. Si è ingoiato delle batterie e delle lamette. Ha gridato per due notti come un cane e poi per fortuna è finita» (ivi, p. 163).

25 «Alla fine di ogni giornata sentivo il catrame della mia vita» (ivi, p. 65).

26 «Mi sentivo addosso il solito bruciore di ferita aperta» (ivi, p. 107).

27 «Restai qualche minuto imbambolato ad ascoltare il mio malessere che cresceva come una marea» (ivi, p. 111).

28 Ivi, p. 79.

29 «Arrivai fino alle transenne davanti al portone. Buttai lo zaino per terra, alzai la testa e finalmente vidi anch’io dieci uomini in riga sull’impalcatura, uno di fianco all’altro. Immobili sulle travi con le braccia incrociate» (ivi, p. 192).

30 «I vigili fecero scudo davanti al proprietario dell’impresa. Gli erano arrivate monete a pochi centimetri dalla faccia e iniziavano a volare oggetti e male parole» (ivi, p. 193).

31 «Si sentivano altre storie e altri guai dai megafoni. Ricercatori, operai, impiegati, studenti, pastori sardi, artigiani… tutti lavoratori finiti a reclamare per strada o sulle gru o sopra i tetti. Uno gridava i nomi di tutte le persone che si erano suicidate per aver perso il lavoro» (ivi, p. 194).

32 Ivi, p. 115.

33 Ivi, p. 166.

34 Ivi, p. 172.

35 Ivi, p. 178.