C’è poi un altro, specifico motivo che mi rende particolarmente gradito questo riconoscimento: il fatto che esso proviene dai penalisti e dai criminologi della vostra Università, nella quale si è sviluppata – ad opera proprio di Queralt Jiménez e di Iñaki Rivera e, prima di loro, di Santiago Mir Puig e di Roberto Bergalli – una cultura penalistica e criminologica garantista, che grazie al suo impegno nella difesa dei diritti umani in materia penale e delle loro garanzie ha restituito in questi anni alle discipline penalistiche quella dimensione civile, fatta di rigore scientifico e di passione politica, che fu propria delle loro origini illuministiche.
Come molti di voi sanno, io non sono un penalista, ma un filosofo e un teorico del diritto. Ci sono tuttavia due temi che a mio parere non possono essere ignorati dalla riflessione filosofico-giuridica: il primo è quello, da sempre al centro della filosofia del diritto, del senso della pena e dei fondamenti assiologici del diritto penale; il secondo, divenuto più che mai importante e drammatico nell’odierna età della globalizzazione, è l’ineffettività di quei patti di convivenza che sono le Costituzioni e le carte internazionali dei diritti: un’ineffettività che si manifesta nelle loro violazioni sistematiche e strutturali e che è resa possibile dall’assenza di una sfera pubblica all’altezza degli odierni poteri economici e finanziari globali.
È di questo secondo tema che qui intendo parlare, riprendendo la riflessione sull’ipotesi di una “criminologia critica globale” avanzata nel suo intervento, come abbiamo appena sentito, da Iñaki Rivera: un’ipotesi e una proposta che discutemmo anni fa, proprio qui a Barcellona, in occasione del dibattuto sulla criminologia seguito alla traduzione del libro Criminologia critica, civilización, y nuevo orden mundial di Wayne Morrison. Si tratta di un tema di carattere sia teorico che meta-teorico, che riguarda da un lato lo statuto giuridico di quella gigantesca distanza tra le tante carte dei diritti fondamentali e la realtà delle loro pesanti violazioni e, dall’altro, lo statuto epistemologico di una criminologia che intenda assumere tali violazioni – le loro cause, le loro forme e i loro effetti – come oggetto privilegiato di indagine.
La prima domanda, di carattere teorico, che dobbiamo porci è la seguente: come dobbiamo chiamare quelle pesanti violazioni dei diritti, consistenti tutte in terribili catastrofi umanitarie? Come dobbiamo qualificare, sulla base delle tante carte costituzionali e internazionali dei diritti che affollano i nostri ordinamenti, i milioni di morti ogni anno per fame, per sete e per malattie non curate, vittime dell’odierna crescita esponenziale della disuguaglianza e della povertà? Come dobbiamo configurare, giuridicamente, le centinaia di migliaia di persone che sono costrette a fuggire dalle guerre e dalla miseria provocate dalle politiche dei paesi più forti e che talora perdono la vita nelle loro tremende odissee e poi incontrano, nei nostri paesi, l’esclusione e l’oppressione razzista dovuta alle loro identità differenti? E ancora: come dobbiamo concepire, sul piano giuridico, le devastazioni ambientali di cui soffrono soprattutto le popolazioni dei paesi poveri e che sono prodotte dall’assenza di limiti e controlli sui poteri selvaggi dei mercati?
Certamente queste catastrofi non sono configurabili come crimini in senso penalistico. Al pari delle loro vittime, identificabili con popoli interi e talora con la stessa umanità, anche i loro autori non sono identificabili con singole persone, bensì con i meccanismi del sistema economico e politico. Inoltre, non diversamente dai loro effetti catastrofici di massa, non identificabili in singoli e determinati eventi dannosi, neppure la loro azione, di solito anch’essa di massa, è identificabile in comportamenti determinati, siccome tali prefigurabili come delitti, bensì in insiemi complessi di attività politiche ed economiche messe in atto da una pluralità indeterminata e non determinabile di soggetti. Si tratta, in breve, di aggressioni ai diritti delle persone non fronteggiabili con i principi garantisti del diritto penale: né con il principio della responsabilità personale, né con il principio di legalità e di determinatezza dei fatti punibili.
E tuttavia queste catastrofi, che equivalgono a massicce violazioni dei diritti fondamentali stipulati in tante carte nazionali e sovranazionali, non sono fenomeni naturali. Non lo sono i milioni di morti per fame, per sete e per malattie non curate. Non lo sono i cataclismi e le devastazioni ambientali provocati dall’odierno sviluppo industriale ecologicamente insostenibile. Tanto meno lo sono le omissioni di soccorso di cui sono vittime ogni anno migliaia di migranti che tentano di penetrare nei nostri paesi. E neppure sono, queste catastrofi, delle semplici ingiustizie. Sono bensì violazioni gravissime di diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita, sanciti nelle carte costituzionali e nelle tante carte internazionali, messe in atto da aggressioni a popoli interi e ai loro diritti.
La seconda domanda, di carattere meta-teorico, che dobbiamo porci è allora se sia ammissibile che la criminologia, la scienza giuridica, la scienza politica e il dibattito pubblico ignorino o comunque si disinteressino di simili atrocità, niente affatto naturali ma provocate dall’odierno anarco-capitalismo globale. In particolare, può oggi la criminologia disinteressarsi di simili aggressioni ai diritti umani e ai beni fondamentali, le quali per un verso sono in contrasto con tutte le nostre carte costituzionali e internazionali e, per altro verso, sono in grado, se non fronteggiate dal diritto e dalla politica tramite l’introduzione di idonee garanzie e delle connesse funzioni e istituzioni di garanzia, di vanificare tutte le nostre conquiste di civiltà e di provocare, in tempi non lunghi, la distruzione della convivenza pacifica e della stessa abitabilità del pianeta?
Io credo che una risposta razionale a queste domande richieda una rifondazione delle categorie con le quali leggiamo e interpretiamo la realtà. Si pongono infatti, in proposito, una questione teorica e una questione epistemologica, l’una e l’altra di fondo: la prima investe la nozione di “crimine”, la seconda riguarda il ruolo scientifico ed esplicativo della criminologia. È chiaro che la parola “crimine” riveste una forte capacità di stigmatizzazione morale, sociale e politica. Ebbene, la criminologia tradizionale è sempre stata interamente subalterna al diritto penale, avendo concepito e tematizzato come “crimini” solo i comportamenti devianti previsti dal diritto penale come reati. In questo modo essa ha svolto, storicamente, un duplice effetto di legittimazione ideologica: la squalificazione come ingiusti e moralmente riprovevoli dei soli fatti previsti come reati dai nostri sistemi penali e la legittimazione come giusti, o quanto meno come non ingiusti, di tutti i fatti non configurati come reati. Si è infatti prodotto, soprattutto in questi ultimi anni, un singolare appiattimento, nel dibattito pubblico e nel senso comune, del giudizio giuridico, politico e morale sui soli parametri offerti dal diritto penale: solo i fatti previsti e giudicati come delitti, cioè come crimini in senso penalistico, suscitano indignazione e stigmatizzazione morale e politica; tutto ciò che non è vietato come reato è invece concepito come permesso. Al contrario, fenomeni ancor più gravi e catastrofici come quelli più sopra ricordati, proprio perché non trattati né trattabili penalmente, risultano di fatto accettati con rassegnazione o peggio con indifferenza.
L’emancipazione e l’autonomia scientifica della criminologia e della scienza giuridica e più ancora del dibattito pubblico richiedono al contrario, a me pare, che la previsione di un fatto come reato non sia considerata né una condizione necessaria, né una condizione sufficiente della sua qualificazione come “crimine”. Ovviamente non può essere considerata una condizione necessaria – come del resto non l’ha mai considerata, di fatto, neppure la criminologia tradizionale – non potendosi certo concepire come crimini moltissimi reati, come i delitti d’opinione, le contravvenzioni e tutte le violazioni di quel diritto penale burocratico che è stato prodotto dall’inflazione della legislazione penale. Ma soprattutto la previsione di un fatto come reato non può essere considerata una condizione necessaria della sua qualificazione come crimine. Una criminologia scientifica non subalterna alle contingenti scelte legislative di politica penale, in breve, deve concepire come “crimini”, oltre ai fatti più gravi puniti come reati dal diritto penale, anche quei fenomeni politici, economici e sociali i quali, benché non riconducibili alla responsabilità penale di singole persone, sono però in contrasto con elementari principi costituzionali formulati nelle tante carte e convezioni sui diritti e sui beni fondamentali di cui sono dotate i nostri ordinamenti. Rientrano perciò nella fenomenologia dell’illecito giuridico, anche se non dell’illecito penale.
Propongo perciò di adottare una nozione di crimine assai più estesa di quella di crimini penali. Si tratta di colmare una lacuna presente nel nostro lessico teorico-giuridico, cioè di dare un nome a quell’altra classe di violazioni massicce di diritti e beni fondamentali stabiliti da carte costituzionali o internazionali e tuttavia non consistenti in atti individuali imputabili alla responsabilità personale di soggetti determinati. La proposta consiste nell’includere, nella nozione di “crimine”, questa seconda classe di violazioni giuridiche, non meno e anzi, di solito, assai più gravi: quelli che possiamo chiamare crimini di sistema, consistenti in aggressioni e violazioni dei diritti umani messe in atto, come si è detto, dall’esercizio incontrollato dei poteri globali – politici, economici e finanziari – e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali e la cui gravità e la cui frequente impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, parimenti trattati dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata l’istituzione della Corte penale internazionale. I crimini di sistema, consistendo in violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono sicuramente riconducibili alla fenomenologia dell’illecito giuridico. Non sono tuttavia illeciti penali, difettando di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi, quelli che, volendo usare il linguaggio penalistico, possiamo chiamare i loro elementi costitutivi, sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti di solito in popoli interi o, peggio, nell’intera umanità.
Di qui, dall’enormità di questi crimini, la necessità che la criminologia e il dibattito pubblico si emancipino dalla subalternità al diritto penale e dai filtri selettivi e giustamente garantisti dai quali sono identificati i crimini penali. È stato a causa di questa subalternità al diritto penale che la criminologia tradizionale e lo stesso dibattito pubblico hanno finito per ignorare quelli che ho chiamato “crimini di sistema”, nonché le responsabilità politiche, economiche e sociali per i danni da essi provocati a popoli interi e, nei tempi lunghi, all’intera umanità. È solo perché tali crimini non sono trattati né trattabili dalla giustizia penale, giustamente ancorata ai principi garantisti della responsabilità individuale e della determinatezza dei fatti delittuosi, che essi non producono scandalo, bensì l’accettazione acritica – l’odierna banalizzazione del male – come se fossero fenomeni naturali e comunque inevitabili. Per questo, una condizione pregiudiziale per fronteggiare e prevenire queste violazioni è la loro percezione sociale come crimini: “crimini di sistema”, appunto, onde evidenziarne il carattere umano ed illecito perché in contrasto con tutti i valori della nostra civiltà giuridica e, insieme, imputarle alle responsabilità non penali, ma politiche e morali di quanti potrebbero, grazie alla progettazione e all’introduzione di adeguate garanzie, impedirne o quanto meno ridurne la commissione.
Prendiamo le leggi e le pratiche adottate in Italia, come in molti altri paesi, contro l’immigrazione clandestina. Leggi e pratiche di questo tipo sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti alle frontiere degli immigrati clandestini. Si tratta di molte migliaia di vittime, interamente rimosse dalla nostra coscienza: più di 30.000 persone negli ultimi 15 anni. È chiaro che questi eccidi non possono essere considerati come disastri naturali, bensì come crimini di sistema, anche se non sono di solito punibili come reati le politiche e le leggi che li hanno provocati. Solo così può svilupparsi la consapevolezza della loro contraddizione con tutti i nostri conclamati valori di civiltà e può maturare, nel senso comune e nel dibattito pubblico, la necessità di impedirne come illecita la commissione.
Lo stesso discorso può farsi per i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate e per le devastazioni ambientali. Oggi più di 800 milioni di persone soffrono la fame e la sete e circa 2 miliardi si ammalano senza la possibilità di curarsi. La conseguenza è che ogni anno muoiono circa 8 milioni di persone – 24.000 al giorno – in gran parte bambini, per la mancanza dell’acqua potabile e dell’alimentazione di base provocata da inquinamenti e carestie. Ancor più drammatica è la situazione della salute. Quasi 10 milioni di persone muoiono ogni anno per mancanza dei farmaci salva-vita: vittime del mercato più che delle malattie, essendo i farmaci in grado di curarli brevettati, e quindi inaccessibili, o peggio non più prodotti o non distribuiti per mancanza di domanda nei paesi ricchi, dove le relative malattie – tubercolosi, malaria, infezioni respiratorie, Aids – sono pressoché scomparse perché debellate.
Anche queste tragedie non sono catastrofi naturali, bensì il risultato di crimini di sistema imputabili ai poteri selvaggi dei mercati senza però che ricorra né sia concepibile, nonostante i danni incalcolabili da essi provocati, nessuna figura di reato. Si tratta infatti di una gigantesca omissione di soccorso nei confronti di intere popolazioni: un duplice crimine, dunque, consistente dapprima nelle catastrofi prodotte e poi nell’omesso soccorso alle persone e alle popolazioni colpite. Ma è chiaro che senza la stigmatizzazione di tali fenomeni come “crimini di sistema” è illusorio che possa maturare un qualche sostegno, nel dibattito pubblico, alla proposta di politiche dirette ad impedirli.
Infine si pensi alla produzione e al mercato delle armi, responsabili di gran parte dei 450.000 omicidi che accadono ogni anno nel mondo, di varie centinaia di migliaia di suicidi e incidenti mortali e di circa 2 milioni di morti ogni anno nelle varie guerre che infestano il pianeta. Basterebbe mettere al bando le armi – la loro detenzione, il loro commercio e la loro produzione – per realizzare, con il monopolio pubblico della forza, il passaggio dallo stato di natura alla società civile teorizzato più di tre secoli fa da Thomas Hobbes e così porre fine a questa strage, della quale i soli beneficiari sono oggi i fabbricanti di armi e il ceto politico con essi colluso e da essi corrotto.
Alla base di questi crimini di sistema c’è un vuoto di diritto, ben più che di diritto penale, dovuto a molteplici fattori, tutti legati all’odierna globalizzazione della sola economia e al carattere ancora locale della politica e del diritto: l’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari in grado di limitarne e controllarne l’esercizio; il conseguente ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in forza del quale non è più la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica, ovviamente a vantaggio dei soggetti economicamente più forti; il nesso infine tra l’impotenza della politica nei confronti dei poteri economici globali e la sua rinnovata onnipotenza, da questi imposta, nei confronti delle persone e in danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti.
Si è così prodotta un’abdicazione della politica al suo ruolo di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali, che peraltro è stata favorita anche da talune aporie della democrazia, emerse anch’esse con l’odierna globalizzazione. Le democrazie rappresentative dei nostri paesi sono nate e restano tuttora ancorate agli Stati nazionali. Sono perciò vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali politiche all’altezza delle sfide e dei problemi globali. Quelli che ho chiamato “crimini di sistema” e che minacciano il futuro dell’umanità – la fame e le malattie non curate, le possibili esplosioni nucleari, le devastazioni ambientali – sono così ignorati dalle nostre opinioni pubbliche e dai governi nazionali e non entrano nella loro agenda politica, interamente ancorata ai ristretti orizzonti nazionali disegnati dalle vicende elettorali. C’è poi un’altra aporia che investe le nostre democrazie. Simultaneamente alla perdita di sovranità degli Stati, sostituita dalla sovranità di quei nuovi sovrani assoluti, invisibili e irresponsabili che sono i mercati, stanno prendendo il sopravvento, nei nostri paesi, movimenti populisti – euroscettici, xenofobi, razzisti, sovranisti e nazionalisti – che mentre contestano demagogicamente quei nuovi sovrani globali, ne risultano di fatto i principali alleati dato che si oppongono alla sola politica che sarebbe in grado di fronteggiarli: la costruzione di una sfera pubblica alla loro altezza, quanto meno europea e in prospettiva globale, in grado di imporre loro regole, limiti e controlli.
È invece precisamente questa la sola risposta razionale che la politica e il diritto possono offrire ai crimini di sistema e alla conseguente crisi delle nostre democrazie: lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della sfera pubblica, del costituzionalismo e del garantismo, al di là dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali: in primo luogo un costituzionalismo di diritto privato, cioè un sistema costituzionale di limiti, vincoli e controlli sopraordinato ai poteri privati, oltre che a quelli pubblici; in secondo luogo un costituzionalismo di diritto internazionale, all’altezza delle aggressioni planetarie all’ambiente – il riscaldamento climatico, l’inquinamento dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità – che richiedono l’introduzione di norme, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia anch’esse di livello planetario.
È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi o se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono però certe. La prima riguarda l’alternativa di fronte alla quale è posta l’umanità. Oggi o si va avanti nel processo costituente, dapprima europeo e poi globale, basato sulla garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, ma indietro in maniera brutale e radicale. O si perviene all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa, magari ad opera di un’Assemblea costituente europea, oppure si produce una disgregazione dell’Unione e un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei tanti populismi che stanno crescendo in tutti i paesi europei. O si impongono limiti, nell’interesse di tutti, allo sviluppo sregolato e selvaggio del capitalismo globale, oppure si va incontro a un futuro di ancor più catastrofi crimini di sistema: alle devastazioni ambientali conseguenti a uno sviluppo industriale ecologicamente insostenibile; alla minaccia nucleare in un mondo affollato di armi incomparabilmente più micidiali di quelli di qualunque epoca del passato; alla crescita esponenziale della disuguaglianza, della miseria e della fame, nonché del crimine organizzato e del terrorismo. Si aggiunga che, diversamente da tutte le altre tragedie passate della storia umana, le catastrofi prodotte da questi crimini di sistema sono in larga parte irreversibili. Per la prima volta nella storia c’è il pericolo che si acquisti la consapevolezza della necessità di cambiare strada e di far fronte a tali crimini quando sarà troppo tardi. Potremmo, in breve, non arrivare in tempo a formulare nuovi “mai più”.
La seconda cosa certa riguarda il carattere niente affatto utopistico, ma al contrario razionale e realistico del progetto costituzionale disegnato dalle tante carte dei diritti prodotte dal costituzionalismo novecentesco. «La povertà nel mondo», ha scritto Thomas Pogge, «è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo. Uccide un terzo di tutti gli esseri umani che vengono al mondo e la sua eliminazione non richiederebbe più dell’1% del prodotto globale»: precisamente l’1,13% del Pil mondiale, circa 500 miliardi di dollari l’anno, molto meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti. D’altro canto c’è una grande, positiva novità che è stata generata dalla necessità di proteggere i diritti e i beni fondamentali dai crimini di sistema e che consente una nota di ottimismo: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo, basata sull’esistenza, per la prima volta nella storia, di un interesse pubblico e generale ben più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza dell’umanità e all’abitabilità del pianeta, assicurato dai limiti imposti a qualunque potere, sia politico che economico, dalla garanzia dei beni comuni e dei diritti fondamentali di tutti. L’alternativa, dobbiamo saperlo, è un futuro di regressione globale, segnato dalla crescita delle disuguaglianze, dei cataclismi, dei razzismi e delle paure e, insieme, della violenza, delle guerre, dei terrorismi e della generale insicurezza.
[lezione tenuta all’Università di Barcellona, 29 gennaio 2019]