Marco Giovenale,
Il paziente crede di essere
Francesca Ippoliti

Marco Giovenale, Il paziente crede di essere, Gorilla Sapiens Edizioni, Roma 2016, pp. 140.

Il paziente crede di essere, pubblicato da Gorilla Sapiens nel 2016, arriva dopo vent’anni esatti dalla plaquette Elogio dell’opacità (Edizioni Pulcinoelefante, Osnago), esordio in volume di Marco Giovenale, autore romano che già a partire dal 1989 aveva pubblicato poesie e prose in rivista. Della sua ampia produzione si ricorderanno le raccolte di poesia Il segno meno (Manni, Lecce 2003), Shelter (Donzelli, Roma 2010), Maniera nera (Aragno, Torino 2015) e la recentissima Strettoie (Arcipelago Itaca, Osimo 2017); numerosi anche i libri in prosa, tra i quali segnaliamo i due più recenti: white while (Gauss PDF, 2014) e Numeri morali (ebook gammm, 2014). Alcuni testi – insieme a quelli di Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Andrea Raos e Michele Zaffarano – sono inclusi nell’importante antologia Prosa in prosa (Le Lettere, Firenze 2009), dedicata a un tipo di scrittura definita generalmente “di ricerca”, in quanto si snoda nell’impervio territorio di confine tra prosa e poesia, senza tuttavia rientrare nella tradizione del poème en prose, e anzi distaccandosi fortemente da quest’ultima, come anche dalla narrativa.

Il paziente crede di essere chiude per Giovenale un ventennio di scrittura caratterizzato da continui travasi e interazioni tra generi letterari differenti, e proprio per questo si sarebbe tentati di esaminare in primo luogo il suo status anomalo e difficile da definire. Del resto, una lettura così concepita sembrerebbe autorizzata dal sottotitolo: Racconti, forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo. E tuttavia, osservare il volume da tale angolazione potrebbe forse farci perdere di vista la sua vera essenza: sia perché la natura intermedia delle prose costituisce solo uno degli elementi (e non il più importante) deputati ad alimentare il disorientamento del lettore; sia perché in definitiva la questione del genere letterario sembra molto spesso un falso problema, quand’anche molto dibattuto.

Il libro di Giovenale rappresenta un sistema chiuso governato da leggi rigidissime, ma allo stesso tempo continuamente disattese da sviste, travisamenti, incursioni di elementi incongrui, deformazioni grottesche. Se fosse un edificio, sarebbe una casa a due piani, ma senza scale per passare da un livello all’altro; e chi abitasse lì dentro sentirebbe spesso i rumori di altri invisibili inquilini, ma non avrebbe mai la certezza che questi ci fossero davvero, e che non si trattasse piuttosto di un colpo di vento o di una finestra lasciata aperta. La realtà è come un sogno, il sogno è come la realtà: non esiste nessun vincolo di coerenza, ma tale assenza non è percepita come anomala. Così i nessi logici vengono soppressi, oppure appaiono deformati, impiegati in maniera alterata, senza rispettare la normale successione temporale o la connessione stringente tra causa ed effetto; tuttavia, la mancanza di connessione non genera traumi, anzi è data per scontata. Di conseguenza, non è più molto chiaro se la realtà sia descritta come un’installazione, o sia l’installazione ad essere descritta come la realtà (Nih-):

Nessun edificio intorno: l’installazione è isolata nello spazio. Solo scale senza scalini, e le porte che non si aprono.

Un guardiano dovrà avere l’accortezza d’interdire al pubblico l’accesso fisico all’installazione.

Il guardiano può non far parte dell’installazione (pp. 43-44)

e non desta stupore, rivolgendo lo sguardo ad una carrozzina, non trovare al suo interno alcun bambino, bensì una pozza di letame (Sotto i lecci):

La madre guarda dentro, nella carrozzina semichiusa, e sfila, cava fuori, dalle coperte, all’altezza della bocca del bambino, dei pezzetti, dei minuzzoli. Se li mette in bocca, li mastica e ingoia. Come fa a farlo sotto questi alberi, sotto questi lecci, non si sa. È disgustoso: i lecci ospitano gli storni la notte, e in terra è tutto guano, a strati doppi. […] Uno sguardo nella carrozzina. Nessun bambino, dentro. C’è invece una pozza ondeggiante di letame, parecchi litri, sterco liquido pieno di grumi, proprio quello degli storni. I grumi sono quelli che lei va masticando. Allora capisco, allora è normale (p. 37)

Ci sentiamo a nostro agio a circolare tra la pagine di ricevimenti abnormi conditi da episodi paranormali (Mario 2):

Poi c’erano i ricevimenti. E le ricezioni, le percezioni. (Extrasensoriali).

EPISODI PARANORMALI IN FAMIGLIA

E poi c’erano i ricevimenti. Daccapo.

A cui partecipavano le famiglie, le altre famiglie, e la nostra. Affetti, effetti di lusso, sfoggio. (p. 29)

o in case dove piove di più a causa dell’abbondanza di mobili (Mario 1):

Mario dice che le differenze tra dove piove e dove no, in una grande città, sono presto spiegate.

Alcune zone sono più popolose di altre.

In quelle più popolose ci sono più mobili.

I mobili raccolgono e condensano l’umidità. Con il calore, l’umidità viene rilasciata come ondate di vapore che salgono, e quando incontrano le correnti di aria fredda producono la pioggia.

Più gente c’è, più i mobili si addensano, più umidità e dunque pioggia potenziale, per logica (p. 27)

Partecipiamo alle tappe di un funerale aziendale, ciascuna indicata da un numero, ciascuna stravolta da un’ironia grottesca, ed è assolutamente normale che alla fine gli insetti ci facevano il nido (Un’intera casa di domestici):

01. per andare al funerale al funerale aziendale era prima necessario stabilire qual era il sesso della situazione.

02. fu stabilito che era maschio perché tendeva a imporsi.

03. presero tre taxi anche se erano in due. per rispetto del defunto, che secondo la tradizione e i bramini sarebbe stato immaterialmente presente nel taxi vuoto.

[…]

19. gli insetti ci facevano il nido. (pp. 85-87)

In questo clima, non si percepisce nessuna differenza semantica tra i diversi livelli di realtà, ma si attraversa invece uno stato di allucinazione perenne, o di veglia troppo nitida. Ed è allora che le battute di caccia devono replicarsi senza sosta perché se venissero interrotte «brillerebbe il vuoto del congegno, con dolore di tutti, sfiducia delle istituzioni, dunque richiesta di risarcimento, o una nuova caccia almeno» (Dalla caccia).

Una delle chiavi di lettura possibili – tra le tante – è quella ludica: come in un videogioco, bisogna superare degli ostacoli per passare da un livello all’altro, ma si tratta di passaggi reversibili, totalmente gratuiti, privi di qualsiasi scarto semantico. La reversibilità è la chiave di un libro decisamente anti-narrativo: non solo non vuole raccontarci una storia, ma mette volontariamente fuori pista il lettore che volesse cercarla. Senza alcuna ragione, la strada di casa diventa un intrico labirintico di vie che continuano a deformarsi (Radici, poi scale):

Sono scale di marmo molto fredde, per un palazzo ampio e freddo. Continuamente cercando di orientarmi passo le sale gli androni interni. Niente è mai libero, nemmeno per l’eco, le scale sono pesanti larghe ovunque. Penso non sia una buona idea muovermi così, girare-aggirarmi, si direbbe, casualmente, ma non so cos’altro fare, cercando di districarmi dai gradi gradini, e uscire a un livello di strada utile per ritrovare poi la via mia, per casa (e ormai per caso) – (pp. 45-47)

Oppure una regione assediata appare immersa in complesse dinamiche di oppressione-reazione gratuite (Difesa):

Proteggono quella cosa che sarebbe – in descrizioni favolose – l’entroterra. (Che loro non vedono). Difendono il perimetro, l’intorno, fanno insomma una cintura viva. Come le canzoni (melense). Si sporgono, a volta a volta sono schiodati via, singolarmente, uno o l’altro, chi perché indebolito, chi perché bruciato dal colorante di un succo di frutta che poi grazie a lui viene bandito, chi per fame, chi per prodotti scaduti che l’autorità rileva appunto grazie alla morte; chi semplicemente si abbatte e lascia perdere. (p. 17)

In tal senso, la percezione di una catastrofe imminente o già avvenuta, lo spirito non si sa bene se apocalittico o post-apocalittico che aleggia nelle pagine sembra anch’esso una possibilità come un’altra, neppure particolarmente spaventosa.

In questo contesto, assume un grande peso la figura dell’accumulo, declinata in due modi: l’affastellamento caotico di dettagli, che spesso si annullano tra di loro proprio in virtù del loro eccesso; la creazione di elenchi sovrabbondanti, che si estendono per più pagine consecutive. L’impiego dell’elenco, in particolare, rovescia un topos lirico tipicamente novecentesco, e non sarà un caso l’inclusione di uno «specchio ustorio» nella lunga sequenza di oggetti di A levare, non certo priva di ironia:

Slaccia il gancio e le toglie la muta, la tuta di iuta, quella di neoprene, i nastri bisticci del paracadute, la fondina del coltello, la striscia parazanne in cuoio rosso, le vaschette dei lari, il loden verde, gli anfibi, la calzamaglia mimetica, lo swatch, il tagliabalsa, il dente di narvalo, lo specchio ustorio, il piercing, il bolas, il poncho […] (p. 81)

Nella nostra tradizione poetica, l’accumulo di dettagli e oggetti assolveva a diverse funzioni: esprimere un ultimo baluardo di salvezza, incarnata in pochi elementi dispersi ma carichi di valore semantico; mimare il frammentarsi della realtà, che tuttavia poteva continuare ad avere una sua consistenza, anche se di caleidoscopio incrinato; connotarsi in senso elegiaco-crepuscolare, spesso come mero tratto di décor, o magari come strumento di abbassamento tonale. Nel Paziente di Marco Giovenale, invece, l’elenco è usato in chiave decisamente anti-lirica e si caratterizza come figura del non senso o meglio della rinuncia al senso, riallacciandosi alla lezione delle avanguardie. Il dilatarsi della strategia dell’accumulo è coerente con la struttura del libro, perché desacralizza il testo e lo priva di aloni mimetici, sfiancando con una scrittura volutamente non memorabile – cioè che si sottrae alla memorizzazione, a differenza di quanto accade nel grande stile – chiunque cerchi invano uno scarto sempre disatteso (con rare eccezioni). Tuttavia l’impiego troppo frequente e insistito dello stilema finisce per diventare stancante, e nella maggior parte dei casi ci appare piuttosto il risultato di una manovra arguta, che non di un affondo gnoseologico.

In definitiva, tali linee convergono in una prosa che vuole rifiutare qualsiasi forma di immedesimazione emotiva, lavorando in senso contrario al mito tutto novecentesco dell’attimo privilegiato e, con esso, a quello della salvezza. Ne consegue che anche la gestione ritmica del testo annulla le escursioni e assume un andamento piano e allo stesso tempo anti-cantabile, senza sussulti, lontano dalle misure colme e dalle cadute, e tuttavia inceppato (sempre di proposito) da continui elementi d’attrito che ne impediscono la piena fluidità. Riguardo a questo, sarà utile spostarsi sul piano dell’esecuzione: quando l’autore stesso legge i propri testi, si nota che le pause vengono distribuite in maniera volutamente arbitraria e forzata, con stanchezza, troppo lentamente o troppo velocemente, e che la lettura trae la sua forza proprio da questo suo essere decentrata, come se si evitasse uno sviluppo lineare e progressivo, in favore di uno più fratturato e divagante, che forse risente della suggestione della musica dodecafonica. Anche l’organizzazione prosodica, dunque, pare sottrarsi (o almeno volersi sottrarre) al dominio mnemonico: la poesia di Giovenale non vive infatti la temporalità in termini dialettici di annullamento e resistenza tramite la memoria di una dizione esemplare, quanto piuttosto in termini di movimento continuo e centrifugo.

Il paziente gioca la sua partita sulla distanza – attraverso lo straniamento, l’ironia, l’onirismo, il catastrofismo, il decentramento ritmico-prosodico – e si potrà dire, senza timore di sbagliare, che la sua partita è molto ben giocata, poiché ci restituisce indubbiamente un libro di grande interesse. Tuttavia, di fronte alla posizione di estraneità che è quella assunta dal Paziente, ci si chiede se sia possibile giocare anche un’altra partita, una partita diversa, dove non si punti a una presa di distanza ma al contrario alla conquista di una solida vicinanza, da costruirsi con materiali di fortuna, sapendo di poter perdere tutto – come chi sprofondasse le mani in un braciere. E se anche questa, come l’altra, abbia modo di trovare qualcuno che sappia giocarla bene.