Il Natale mondiale si produce tutto a Schenzen
Intervista a Giancarlo Liviano D’Arcangelo su L.O.V.E.
Tiziano Toracca

L’intervista che segue si è svolta nel giugno 2021 e riguarda L.O.V.E. (il Saggiatore, 2020), l’ultimo romanzo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, un’opera sulla società globale, sulla potenza del denaro e sulle contraddizioni del capitalismo contemporaneo.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo (che ringrazio ancora una volta per la sua disponibilità) è nato a Bologna nel 1977 ed è cresciuto a Martina Franca. È scrittore e studioso di mass media. Nel 2007 ha pubblicato il romanzo d’esordio Andai, dentro la notte illuminata (Pequod), finalista al premio Viareggio. Nel 2011 ha pubblicato per Fandango il reportage narrativo Le ceneri di Mike con cui ha vinto il premio Benedetto Croce e il premio Sandro Onofri. Nel 2013 ha pubblicato per il Saggiatore il reportage narrativo Invisibile è la tua vera patria, sulle grandi storie dell’industria italiana dell’ultimo secolo. Ha inoltre pubblicato racconti per le antologie Juve! (Rizzoli 2013) e La storia siamo noi (Neri Pozza 2008) che aprì il Festival delle Letterature di Roma nello stesso anno. Nel 2013, sempre al Festival delle Letterature, ha letto l’inedito In morte di un amico. Nel 2014, sempre per il Saggiatore, è uscito Gloria agli eroi del mondo di sogno, sulla mitologia del calcio. Fa parte della redazione di «Nuovi Argomenti».

Tiziano Toracca: Nel tuo romanzo, oltre che una saga familiare, troviamo una rappresentazione realistica di alcune trasformazioni socioeconomiche di portata globale avvenute negli ultimi quarant’anni: il passaggio, come scrivi esplicitamente, al finanzcapitalismo. I viaggi in Iraq, durante la seconda guerra del Golfo, in Cina, presso la fabbrica di Shenzen, in Amazzonia etc. sono, come scrivi, «viaggi al servizio del capitale». La geografia del potere, degli scambi, delle speculazioni e dei detriti del capitale è molto ampia e verosimile, ed è certamente protagonista e centrale. Queste trasformazioni sono costantemente circondate da riflessioni che cercano di coglierne il senso e quindi, di fatto, da riflessioni sul senso della vita, del potere, della storia etc. diciamo idee di mondo. Ecco, vorrei domandarti perché hai scelto di far emergere queste idee, come mi pare tu faccia, soprattutto attraverso i dialoghi tra i personaggi e in particolare nei dialoghi tra Giordano Giordano, il protagonista, e altri personaggi importanti come ad esempio il padre, Santamaria, Xiang Li. Mi pare peraltro che per la costruzione di questi dialoghi tu abbia guardato soprattutto a Dostoevskij (che peraltro citi esplicitamente).

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: La mia ambizione da scrittore e romanziere, alle prese con L.O.V.E. è sempre stata quella di sancire e chiudere, con un romanzo che ne avesse la forza e il respiro, un’era umana, quella del capitalismo materico, classico, basato principalmente sulla componente produttiva di merci e sullo sfruttamento fisico del pianeta. Nel nostro tempo questa forma esiste ancora – è imprescindibile – ma è soppiantata dall’energia evolutiva del denaro, nei secoli progredito da mezzo per gli scambi a fede, religione universale condivisa, per amore o per necessità, fino al raggiungimento di un grado di astrazione e capacità autoriproduttiva assoluta, consacrate dal finanzcapitalismo elettronico. Come dopo ogni accelerazione tecnologica, e come in ogni transizione tra ere umane, a modificarsi completamente è stato il sistema valoriale degli uomini: e nella mia visione la letteratura è oggi l’unico strumento in grado di affrontare in modo profondo e completo questi cambiamenti. La filosofia può sviscerarli nell’astratto, enumerarli come concetti, ma solo la letteratura può riuscire nell’impresa di coniugare l’esperienza di vita, l’azione dell’uomo nel mondo e nella vita reale, e i grandi assoluti che la determinano. La famiglia Giordano, che in un secolo di storia è passata da un banco ambulante di pentole a un vero e proprio impero economico moderno, vive quotidianamente la grande storia che al mondo dà una forma concreta, politica, e così Giordano, voce narrante e protagonista, sceglie, rinnova, stravolge, adatta a sé le forze del bene e del male negli scenari mondiali in cui il capitale lo guida. Il riferimento a Dostoevskij, come tu sottolinei, è la grande lezione del romanzo classico esistenziale, che si proponeva esattamente di far emergere – attraverso la mimesi del reale rappresentato in tutta la sua complessità, con le ambiguità, i paradossi, gli stravolgimenti operati dalla volontà di potenza dei singoli – proprio i grandi dilemmi esistenziali che ogni essere umano vivente deve affrontare. La scelta di affidare soprattutto ai dialoghi le dissertazioni filosofiche è legata a una necessità stilistica e alla ricerca della miglior riuscita possibile. Mi sembrava che in questo modo l’intera narrazione potesse progredire con maggiore ritmo, grazie all’intermittenza tra il racconto degli eventi e l’incedere del fil rouge delle idee affidato alla coscienza del romanzo, Giordano Giordano, alle prese con i suoi antagonisti.

TT.: Giordano Giordano è il figlio incapace: parricida, infelice, solo, masochista, perdente, obeso, cinico, vendicativo etc. Si potrebbe dire che è un personaggio scostante, brutto, certo non positivo. È tuttavia ha un’energia smisurata, soffre e gode smisuratamente, si dimena, si scontra con la realtà (di cui ha orrore) e sembra andare in cerca di frammenti di un altro mondo. Per certi versi è anzi l’unico personaggio che dice la verità e che non accetta il mondo così com’è. Sei d’accordo, ci potresti descrivere Giordano Giordano? In questo caso mi pare invece che tu abbia tenuto presente Maximilien Aue delle Benevole di Littell, un personaggio scostante e spaventoso ma anche nostro fratello.

GLD.: È molto acuta la definizione del personaggio che dai. Volevo che il mio protagonista, la guida spirituale del lettore nella verità non caramellata e mediatica del mondo contemporaneo, fosse un uomo estremamente controverso, buono e feroce al contempo, morale e schiavo del desiderio. Ma il suo lato più importante doveva essere proprio il rifiuto intrepido e indomabile del mondo così com’è. E non solo per ragioni umanitarie, o per le ingiustizie sociali, per le diseguaglianze inaccettabili che la società così organizzata dispensa. Il rifiuto incrollabile doveva nascere anche da un moto egoistico, di mera sopravvivenza: il mondo così com’è, nel quale la potenza del denaro, il censo, ha lentamente iniziato a sostituire e a invertire ironicamente ogni altra forma di meritocrazia e a generare il decadimento impazzito di ogni altro sistema di valori, doveva opprimerlo: così come nella verità profonda dello spirito non ancora addomesticato a ciò che oggi il potere predica come “resilienza”, opprime chiunque, almeno fino alla resa consapevole. Giordano sa molto bene, perché è parte del suo impianto di vita esperita, che il mondo del capitalismo divenuto macchina mondiale organizzata è fondato su un grado di violenza inaccettabile per chiunque se non si operasse una rimozione quotidiana e persistente: basti pensare – per fare un esempio tra i migliaia possibili – alle miniere di Coltan in Congo necessario per il funzionamento di qualsiasi cellulare e ai bambini che rischiano di morire lì ogni giorno per guadagnare una miseria come schiavi di un business immenso. Giordano ha ben chiara questa rimozione, questa violenza insopportabile nascosta sotto il tappeto, e forse vuole che il suo fardello sia condiviso con tutti gli altri suoi simili. Il riferimento alle Benevole e al suo protagonista, è perfetto. È un orgoglio per me l’accostamento a un testo che considero tra i fondamentali degli ultimi anni. Di sicuro ho ricercato la stessa idea di romanzo, la stessa formula di narrazione classica messa a servizio del mondo contemporaneo. In una certa ottica, mi piacerebbe che L.O.V.E. fosse addirittura inteso come una sorta di ideale continuazione dell’opera di Littell, in quanto rappresentazione di una moderna forma di totalitarismo mistico e religioso – il capitalismo avanzato e spettacolare – che in taluni fondamenti ideali è un aggiornamento, un superamento del nazismo, ma con le sembianze di un luna park.

TT.: Potresti dirmi quali altri modelli hanno ispirato la narrazione? Molti capitoli sono introdotti da una citazione in epigrafe e quella iniziale è tratta dall’ultima intervista rilasciata da Pasolini a Furio Colombo, il primo novembre 1975. La divisione totalizzante tra soggiogati e soggiogatori, la violenza esercitata da un consiglio d’amministrazione o per mezzo di una spranga: è per questo che fallisce l’utopia olivettiana progettata da Giordano a un certo punto? Perché nei rapporti di potere sono tutti, in un modo o nell’altro, legittimati a usare la violenza? Andare in cerca di sacche di irrealtà e scommettere tutto a poker, come fa il protagonista, vuol dire forse tentare di fuoriuscire da una realtà segnata dalla coazione alla violenza?

GLD.: Pasolini negli ultimi anni della sua vita aveva avuto un’intuizione fulminea, a cui aveva fornito un’estetica dirompente con il testamentario Salò o le 120 giornate di Sodoma: il film è la profezia di un futuro di disgregazione sociale in chiave darwiniana, nella quale soggiogatori e soggiogati finiscono in un’unica grande villa-arena, i primi completamente in preda all’autarchia di clan e al volano impazzito della propria volontà di potenza, i secondi completamente inermi, vittime sacrificali, che rispetto al potere che li sevizia non sanno opporre che una passiva rassegnazione o addirittura un’inconsapevole complicità. Ecco, mi pare che l’ideologia neo-liberale si fondi su questo conflitto di classe rimosso, assopito. Mai come nel nuovo capitalismo sfruttatori e sfruttati sembrano condividere modelli e aspirazioni, interessi e pensiero debole. Ma naturalmente è una posa che persegue scientemente l’immobilismo. In questa fase di capitalismo avanzato il denaro si è riunito in enormi concentrazioni, e come conseguenza dell’appropriazione della tecnologia disponibile e dell’osmosi tra pubblico e privato la società occidentale si è trasformata in una simulazione di democrazia che nasconde una coesistenza – talvolta agonistica, talvolta complice – di oasi di potere frammentate per clan, dove il censo è l’ordinamento dominante e sono aboliti etica, giustizia, valori di comunità, regole, meritocrazia. Il neo-liberismo, tolta la narrazione mediatica che gli cuce addosso l’abito buono del mercato aperto, della competizione, dell’edonismo possibile, del lusso possibile, e levato il maquillage fornitogli dalla retorica del self-made man, delle fortune create grazie al proprio talento e ai propri sacrifici, è essenzialmente violenza, rimossa o spostata nelle zone d’ombra del mondo, come l’Africa. Che è violentata due volte, come terra di depredazione e come disgregazione del suo tessuto umano, costretto, con milioni di persone resi schiavi dell’economia, a emigrare in cerca di fortuna, in paesi lontani che resteranno sempre Everest da scalare. In una società deprivata dell’occasione della comunità, dai valori di uguaglianza e solidarietà, l’unico modo intelligente di operare per non essere soggiogati, e quello di essere soggiogatori. Come diceva Max Stirner nel suo saggio mirabile L’unico e la sua proprietà, un inno all’autoaffermazione/autodeterminazione di sé come soggetto divinizzato che può fare tutto, prendersi tutto.

TT.: Immagino tu abbia fatto alcune ricerche per scrivere L.O.V.E.. So che non sei stato in Cina a visitare una fabbrica o in Amazzonia a visitare un mattatoio o in Iraq durante la guerra o nel Pacific Trash Vortex ma so che hai consultato molti documenti. La tua narrazione è del resto molto verosimile. Puoi dirmi come hai condotto le tue ricerche? Credi più in generale che sia un compito necessario per chi voglia rappresentare avvenimenti realmente accaduti e di portata globale?

GLD.: La capacità di mimesi è la prima, grande caratteristica che deve possedere uno scrittore. Quella forza immaginifica straordinaria di trasferire sulla pagina luoghi che non ha visto, ere che non ha vissuto, personaggi che non ha conosciuto davvero. In L.O.V.E., la mia ambizione era di portare i lettori nei luoghi dove ha origine o fine – come nel caso del Pacific Trash Vortex – il proprio stile di vita legato al ciclo rigido e radicale di produzione e consumo inarrestabili, con tutta la violenza necessaria a sostenerlo, che come dicevamo, è totalmente rimossa. Vivere sulla pagina il mattatoio senza filtri ci fa capire che la macellazione intensiva che ribalta l’assunto logico della sopravvivenza in natura, ovvero “prima la fame poi il cibo”, in “prima il cibo poi la fame”, non sarebbe accettabile da nessuna coscienza o quasi, e può esistere solo se realtà rimossa e confinata in una zona d’ombra. Troppo duro accettare tali esplosioni di violenza brutale: non solo uccisione ma condizioni di vita impossibile per le bestie, farmacologia spinta, spietatezza fuori controllo. Stessa cosa per i già citati bambini di otto anni che in Congo sono impiegati nelle miniere di Coltan, o per i minorenni che nelle province cinese producono giocattoli per i loro coetanei occidentali. Il mondo può essere migliore di così, e la scrittura, con il suo potenziale di mimesi e il suo potere di trascinare l’immaginazione di chi legge nell’altrove è l’unico media in grado di restituire la complessità del mondo in uno spazio mentale dilatato, nel quale siamo pronti ad accettare contraddizioni che convivono, ambiguità, dissonanze cognitive, prospettive non convenzionali. Naturalmente, chi scrive è tenuto a uno studio meticoloso, all’osservazione quasi ossessiva di tutto il potenziale significante di luoghi come quelli che ho provato a raccontare.

TT.: In L.O.V.E., a partire dal paragrafo omonimo, c’è tanto sesso ed è sempre o quasi sempre violento, sadomasochista, legato al denaro, al prestigio, alla prostituzione, alla morte. È sempre in qualche modo inquinato, asimmetrico, eccitante ma anche estremamente mortificante. Penso al rapporto tra i fratelli Giordano e Erika, all’avventura di Giordano in Iraq con Zakiyyeh, ai discorsi di Isacco con Janni, alla dominatrice e al continuo desiderio masochista del protagonista. Che ruolo ha il sesso in L.O.V.E.?

GLD.: In L.O.V.E. il sesso è una protesi dell’immaginario dei protagonisti. Perde la sua natura potenziale di scambio, gioco altruistico tra anime e corpi, non trova la sua sublimazione nella reciprocità profonda della complicità, ma nella sublimazione identitaria del proprio desiderio e della propria volontà di potenza. È dunque, a mio parere, un vero e proprio paradigma di vita, conscio o inconscio. Giordano, che tra tutti i personaggi di L.O.V.E. è quello che ha sempre la possibilità di inabissarsi in considerazioni su di sé come individuo del mondo, è completamente soggiogato da una sessualità sadomasochista, che in parte è il risultato di una adesione estetica – il potere strabordante e magico del corpo femminile reso statuario, liscio e prorompente dalle materie morte come il latex, il cuoio, il nylon, la pelle – e in parte è il risultato di una liberazione del sé possibile grazie a una verità profonda, ovvero che ogni relazione umana è, in ultima istanza, una relazione di potere, e che sebbene appaia illogico o irrazionale la compartecipazione della “vittima” all’universo del “carnefice”, in qualsiasi zona dell’umano, è un fatto conclamato. Non è un caso che l’estetica sadomasochista sia esplosa in questo tempo contemporaneo come perfetta sintesi sensuale del capitalismo avanzato. Il ruolo segnico e feticistico degli oggetti: fruste, dildi, corpetti, scarpe, maschere. La sostituzione dello scambio legato ai giochi di seduzione e alla scoperta dell’altro per mezzo del contratto schiavo/a – mistress/master, con il capitolato di prestazioni acquistabili e di desideri da soddisfare. La traduzione dell’esuberanza erotica in un’energia identitaria autarchica che è incanalata in modo unidirezionale in un’energia del desiderio che cerca solo la sua soddisfazione momentanea, la sua eruzione, la coazione a ripetersi, e non l’osmosi libera e sorprendente. Nel sadomasochismo è resa possibile la messa in scena, spesso con ribaltamento dei ruoli, del mondo esterno e delle sue dinamiche di potere. Per Giordano l’onere di decidere, di dover prendere una posizione in un mondo dove regna l’indecidibile, di dover costruire un super-io competitivo è dominante nel mondo diurno, è un obbligo insopportabile. Nell’abbandono del proprio super-Io alla sconfitta e con la sua resa volontaria al destino genitale del femminile, e all’estetica stessa del femminile erotizzato – che pur nella sua messa in scena mascherata, e anzi proprio, in quella, svela la sua vera essenza di sesso dominante in natura per mezzo del potere divino di riprodurre la vita – sì, proprio in quell’uscita dal proprio super-Io, Giordano trova gli attimi di felicità più profonda che è in grado di concepire. E più l’uscita dal super-Io è realizzata nel concreto, con la messa in scena e gli atti di totale umiliazione del sé, più il senso di libertà interiore è grande, completo, totalizzante, irrinunciabile, e costringe a un gioco di rilanci sempre più vorticoso e abissale.

TT.: I capitoli 19-20-21-22 sono dedicati al «lungo cammino verso il tesoro». E prendono avvio dagli anni Trenta del XX secolo. Sono inserti che raccontano per l’appunto la nascita e la trasformazione dell’impresa dei Giordano a partire dagli uliveti e i vigneti di nonno Luigi. Ma sono anche quadri storici ad ampio raggio. Perché hai voluto inserirli? La Giordano & Giordano si trasforma in Sunrise Inc. Spa nel 1989, con la fine dell’Unione Sovietica. Da lì cominciano i viaggi in Romania, in Russia, in Albania. Comincia la globalizzazione, il capitale arriva dappertutto. È questo il momento della grande trasformazione del capitalismo in finanzcapitalismo?

GLD.: All’arco di trasformazione individuale del protagonista, che avviene per tutto il percorso orizzontale della timeline di L.O.V.E., e nello sviluppo della sua precipua vicenda nel mondo, volevo che vi fosse un contraltare che conducesse il lettore nel passato di una storia di evoluzione familiare eppure collettiva. La crescita dell’impero dei Giordano, dagli anni Venti fino ai giorni nostri, è la storia economica del Novecento. Dal familismo amorale del periodo post-fascista al boom economico, dal momento apicale dell’impresa statale che creò le acciaierie in alcuni dei luoghi paesaggisticamente più belli d’Italia, come Taranto, promettendo un benessere pressoché eterno già smentito dalla storia recente, allo scioglimento degli accordi di Bretton Woods sulla corrispondenza tra moneta e riserva aurea, momento chiave della storia economica recente in quanto rottura di un vero e proprio paradigma filosofico. L’azzeramento del referente solido per un mezzo astratto come la moneta, che da quella liberazione ha potuto definitivamente affermarsi come valore di scambio impazzito e transitare nella proliferazione finanziaria, alla caduta del muro di Berlino, che ha smantellato – provocando un’accelerazione ulteriore – l’ultimo ostacolo a una globalizzazione definitiva del modello neo-liberista. Era molto affascinante per me scrittore – dopo aver studiato crescita e declino dei grandi poli industriali italiani nel saggio narrativo Invisibile è la tua vera patria, offrire al lettore questa moltiplicazione di contesti storici collettivi e individuali, con la speranza che in questo gioco di specchi la luce diretta sulla bellezza crudele e sulla complessità inafferrabile del mondo potesse amplificare i meccanismi in atto grazie ai suoi abbaglianti chiarori.

TT.: Nelle pagine iniziali il protagonista afferma che se Marx fosse vivo si occuperebbe di questa piaga, riferendoti al fatto che l’1% della popolazione mondiale detenga quasi la metà della ricchezza planetaria. Gli illuminati, aggiunge Giordano, sono pronti a giurare che la disuguaglianza sarà il problema principale per l’umanità nel prossimo secolo. Sei d’accordo col tuo personaggio? Viviamo in un mondo oligarchico e antidemocratico?

GLD.: Il tema della disuguaglianza di risorse a disposizione tra i pochissimi e i moltissimi è già, a mio parere, il tema clou dell’era contemporanea, perché naturalmente non è solo un tema economico o sociale, è soprattutto un tema politico. È etico che pochissimi clan di esseri umani detengano la quasi totalità delle risorse disponibili sul pianeta? È sostenibile questa situazione, o come la storia insegna, ciò porterà a una società sempre più violenta e conflittuale? In tal senso mi sembra di poter dire che le élite di primissima fascia posseggano oggi una coscienza di classe molto più evoluta e cristallina delle classi subalterne, e tra le loro priorità vi è la promozione di un nuovo modello identitario da offrire alle masse, non più basato sull’appartenenza e il riconoscimento economico delle proprie esistenze e del proprio posizionamento nel mondo in dialettica con gli altri (un privilegio di realtà che tengono per sé stesse), ma sull’appartenenza e l’identità psichica, fondata sul genere. L’input è rimuovere del tutto il riconoscimento di classe al di là delle caratteristiche individuali di razza, sessualità, genere, è atomizzare le identità con la retorica dell’autodeterminazione incontrollata. Isolare cellule e non lasciare che proliferino in organismi. La raffinatezza di questa operazione mi pare sia tutta nel modo in cui è attuata, per mezzo di un martellamento di retoriche nate nei college privati americani e propalate sui media organici di tutto il mondo, come per esempio sulle grandi testate giornalistiche del Novecento in mano ai gruppi elitari. Nonostante siano per lo più gruppi economicamente segnati da enormi perdite annue, questi apparati resistono in vita come mera occupazione fisica dello spazio culturale-informativo, come avamposti di egemonia. Attraverso questi canali l’atomizzazione delle identità, e l’affermazione agonistica delle proprie istanze peculiari come zone irte di confini passano per inclusione, quando invece si tratta soltanto di un taglio differente di percezione identitaria. Così, una donna vessata da un contratto di lavoro svantaggioso non solidarizzerà più con il suo collega maschio che vive le sue stesse esperienze a parità di grado, ma solidarizzerà con l’avvocatessa dell’upper class metropolitano o con l’influencer che su media “acustici” per eccellenza, come Instagram o Facebook, propugna nominalmente e astrattamente contenuti di genere neppure approfonditi. E lo farà sentendosi dalla parte giusta, e partecipando a un’immagine di sé di donna impegnata, moderna, progressista e informata. Non sospettando neppure che ogni violenza verso l’altro è quasi sempre il frutto di una disuguaglianza concreta di mezzi, di opportunità, e del mancato riconoscimento nel tessuto sociale di valori vitali come abilità, talento, passione. Grazie al depistaggio, non si accorgerà di vivere in uno pseudo-ambiente in cui conta soltanto la discriminante dell’onnipotenza del censo o il valore di scambio della propria esistenza o della propria produzione, che invece sono rimossi del tutto come fattori. In definitiva, dunque, direi che sì, viviamo in un mondo oligarchico e antidemocratico, ma soltanto se si è in grado di accorgersene. Per lo sguardo di quelle anime che, come Giordano, non vogliono arrendersi alla crisi dell’umanesimo perché amano troppo la vita, e hanno gli strumenti per comprendere la verità del mondo in cui agiscono.