Esperienze, letture, incontri, missive, «occasioni». Ma anche sviste, abbagli, «operazioni microscopiche e silenziose»:1 rimuginazioni. Dietro la poesia c’è tutto questo: sono le circostanze dell’esistenza – mediate attraverso la tecnica – a nutrire la scrittura, e a tenerla in piedi, come fili sottili ma impossibili da recidere. Lo sapeva bene Vittorio Sereni, che nel 1980, in un intervento dal titolo Il lavoro del poeta, esprimeva un senso di difficoltà nel definire “lavoro” un sistema così complesso e determinato dal caso. Lo sapeva Contini, che nel 1937 pubblicava Come lavorava l’Ariosto, il suo saggio sulle varianti ariostesche. Lo sa senz’altro Niccolò Scaffai, che nel suo ultimo libro – una raccolta di saggi uscita per Carocci nel 2015 – si concentra sul mestiere del poeta: nella sua materialità, nel suo legame con l’esistenza, nel potere condizionante delle esperienze. Lo sa soprattutto perché non si concede nessuna deviazione verso la critica biografica: secondo lo studioso, infatti, «la critica letteraria non è storia aneddotica né filosofia, non è riassunto né microscopia della forma. Né tantomeno è un’esternazione apodittica, basata su pseudocategorie che vorrebbero esprimere militanza»; al contrario, consisterebbe nella «ricerca del nesso tra esistenza ed espressione, attraverso gli strumenti propri dell’analisi letteraria».2
Il volume, nel mettere a fuoco il mestiere di fare poesia – che in varia misura può sovrapporsi forse, come direbbe Pavese, a quello di vivere – vanta come suo maggior pregio una certa (salutare) sprezzatura metodologica, di stampo continiano: si passa dalla filologia alla critica, dall’annotazione stilistico-metrica al commento, senza tralasciare una riflessione sempre puntuale sull’uso delle fonti (dai carteggi, alle interviste, agli archivi), ai fini sia dell’analisi letteraria sia del commento. Queste le coordinate fondamentali che possono orientare la lettura del Lavoro del poeta, allo scopo di un corretto inquadramento degli interventi ivi contenuti, distinti nelle tematiche ma uniti da una prospettiva critica comune.
Il primo saggio – Come lavorava Montale – passa in rassegna i principali fondi ed archivi utili allo studioso del poeta ligure, nell’intento di ricostruire il rapporto tra l’immagine pubblica dell’autore e quella che emerge dalle sue carte. Presso il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia sono conservati alcuni tra i materiali più importanti: il Fondo Montale, istituito grazie a donazioni di singoli documenti da parte di Montale stesso a Maria Corti; il Fondo Tiossi, frutto di una donazione (gratuita) di Gina Tiossi effettuata nel 2004; svariati documenti sparsi in fondi diversi, prevalentemente lettere di Montale custodite tra le carte dei destinatari. Presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Viesseux di Firenze troviamo altri fondi di grande rilievo: quello costituito dalle onorificenze donate dal poeta stesso all’Archivio, e il Fondo Brandeis, che comprende le lettere scritte da Montale ad Irma Brandeis. Infine, la Biblioteca Centrale di Palazzo Sormanni a Milano conserva la maggior parte dei libri del poeta, donati dalla nipote Bianca nel 1982.
Né le carte custodite a Pavia né quelle a Firenze includono documentazione rilevante sulla seconda e la terza raccolta di Montale: la maggior parte dei materiali riguardanti queste due opere sono inclusi in fondi non montaliani. Per quanto riguarda Occasioni, si pensi ad esempio al carteggio con Contini o a quello con Bobi Bazlen; oppure al fondo della rivista «Letteratura», custodito presso l’Archivio Bonsanti. Per quanto riguarda La bufera e altro, invece, il principale testimone è il dattiloscritto delle 47 poesie, risalente al 1950 e conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (Fondo Falqui); altri testimoni andranno ricercati soprattutto nei carteggi: ancora una volta con Contini, ma anche con Maria Luisa Spaziani.
Le carte del poeta disperse nei differenti fondi non montaliani, pur essendo senz’altro utili alla ricerca, non sono frutto di una volontà cosciente di archiviazione, ma dipendono piuttosto da circostanze casuali. Montale poco si curava della conservazione dei suoi autografi; solo più tardi, quando entrò in contatto con l’ambiente dei filologi, occasionalmente mostrò interesse all’autodocumentazione e donò alle istituzioni alcune carte, inerenti prevalentemente gli Ossi.
L’esiguità dei materiali su Bufera e Occasioni può dipendere sia dalla «scarsa propensione» di Montale «a monumentalizzarsi»,3 sia ad una certa (relativa) velocità di stesura. Neppure la documentazione riguardante Ossi, più cospicua e donata volontariamente dall’autore, può rivelare una modalità archivistica coerente, presentandosi piuttosto come un recupero tardo, frutto di un atteggiamento nostalgico o archeologico. Anche i lasciti più consistenti, infatti, hanno origine da piccole donazioni occasionali, prive di ordine o di logica, effettuate nel tempo.
Dallo studio delle carte è possibile trarre alcune informazioni sulle modalità compositive del poeta. A differenza di quanto accade per Ungaretti, tra le diverse edizioni a stampa delle raccolte di Montale non ci sono grandi cambiamenti. La situazione risulta più movimentata se si guarda ai manoscritti, caratterizzati da maggiore instabilità; tuttavia, le diverse stesure di uno stesso componimento differiscono per lo più per microvarianti, dovute a ragioni di vario ordine: regolarizzazione metrica; variatio e sua compensazione; espulsione di porzioni di testo. Le modalità di lavoro del poeta, inoltre, sono cambiate nel corso del tempo: se nelle prime raccolte prevalgono le modifiche diacroniche di una stessa poesia, nelle opere della maturità abbondano le redazioni multiple e simultanee.
Nel secondo saggio – Interpretazione di «Notizie dall’Amiata» – viene proposta una lettura del componimento finale di Occasioni, scritto tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939. Nonostante i legami stringenti con la contingenza storica, «la Storia non è il tema né la chiave simbolica della poesia».4 Secondo Scaffai, nel testo la «dimensione psicologico-emotiva» prevale su quella «storico-ideologica»,5 connotando fortemente la soglia del volume. Il poemetto può essere avvicinato a Tempi di Bellosguardo, sia per alcuni rilievi tematici, che per la strutturazione in tre parti. Tuttavia, i luoghi coinvolti sono implicati in differenti caratterizzazioni simboliche: se il colle fiorentino si presta ad una rappresentazione classicistica, l’Amiata, così come Siena e Pico Farnese, rientra in una «diversa geografia culturale, più arcaica e remota: al tempo stesso rifugio dalle derive in corso e teatro di passioni regressive.6 Nella messa a fuoco di tale geografia, un’importante punto di riferimento è stato il volume di Barzelotti pubblicato nel 1910 – Monte Amiata e il suo profeta (Davide Lazzaretti) – che senz’altro il poeta conosceva. Nell’introduzione, Barzelotti confronta la razionalità fiorentina, o meglio il «tipo mentale genialmente realistico dello spirito fiorentino» con il misticismo senese, descrivendo Siena come una città dallo spirito «volto sopra tutto all’intimità delle cose morali».7 Nel poemetto, in particolare nel primo movimento, si possono rintracciare inoltre riferimenti testuali più stringenti al libro di Barzelotti, in merito ai punti seguenti: «la descrizione generale del paesaggio»; «la descrizione atmosferica»; «i tratti logoro-realistici dell’interno»; «il décor desolato-sconnesso delle architetture»; «il motivo dell’apparizione dell’ ”icona”»; «il motivo della “rissa cristiana”».8
La collocazione in explicit di Notizie dall’Amiata – una costante fin dalla prima redazione del libro, mai messa in discussione neppure dopo la stesura di Nuove stanze – si rivela fondamentale non solo per se stessa ma anche in virtù delle caratteristiche che differenziano il testo dal resto del libro: infatti, se i motivi sono gli stessi che percorrono la raccolta, il contesto è decisamente più descrittivo e didascalico, alla maniera di Ossi di seppia. Lo stesso Contini riconosceva nel componimento un legame con Ossi, cioè con la non-poesia della descrizione di uno «stato d’animo»; e tuttavia, al contrario di Ossi, segnalava che in Notizie non c’è solo la «costruzione»,9 ma anche la «concentrazione» tipica di Occasioni. Inoltre, Scaffai osserva un’altra importante differenza rispetto al libro d’esordio, che riguarda il paesaggio: quest’ultimo, infatti, non è più il frutto di un’esperienza diretta, ma è filtrato attraverso la mediazione della cultura, configurandosi quindi come un paesaggio di secondo grado o “manierista”. Una volta formulate tali premesse, Notizie dall’Amiata apparirà come «il passaggio della dinamica dell’occasione a un apparato manieristico che ne esteriorizza il valore».10 In un quadro simile, anche il ruolo degli oggetti cambia radicalmente: se nella raccolta valgono anche in sé (al di là di un possibile sovrasenso simbolico), in Notizie sono sempre gravati da un senso altro, in quanto lo scenario è «allo stesso tempo troppo connotato (l’Amiata, lo scenario cristiano-romanico) e troppo generico (o vagamente posticcio) perché il lettore – anzi: perché l’uomo contemporaneo – possa trovarvi lo specchio della propria esperienza».11
Il terzo saggio – Dalle «Occasioni» alla «Bufera»: appunti sul manierismo montaliano – si riallaccia nel titolo al celebre saggio di Contini – Dagli «Ossi» alle «Occasioni» – che nel 1938, cioè prima ancora dell’uscita della seconda raccolta di Montale, interpretava l’esordio alla luce dell’opera in preparazione, preferendo la seconda maniera alla prima. Scaffai, senza voler stabilire preferenze di alcun tipo, analizza il rapporto tra le due raccolte, da intendersi come «una dinamica di evoluzione più che di opposizione».12 Lo studioso si sofferma specialmente su quegli elementi che da Occasioni trasbordano in Bufera, assumendo una forma marcata, sia in senso paradigmatico (rimandi e corrispondenze di vario tipo tra i due libri), sia in senso sintagmatico (elementi di continuità narrativa).
Un esempio di forma marcata riguarda la divisione in sezioni: La bufera, inizialmente, avrebbe dovuto essere suddivisa in quattro parti come Occasioni e Ossi; in seguito, il piano mutò, prevedendo l’attuale suddivisione in sette (probabilmente sul modello di Les tragiques di Agrippa d’Aubigné). La prima sezione di Bufera – Finisterre – ha uno statuto particolare, in quanto entra in circolazione autonomamente, prima della raccolta. Se Montale stesso la definisce come uno “spicchio” mancante dell’arancia-Occasioni, molto forti sono anche gli elementi che invece la legano a Bufera; tali elementi diventano sempre più saldi mano a mano che la stesura del terzo libro acquista consistenza e spessore. Finisterre costituisce dunque un anello di congiunzione importante tra i due movimenti del corpus montaliano.
A livello strutturale, si nota in generale una certa «propensione al rincaro», che coinvolge non solo Bufera e Occasioni, ma anche Ossi. Tale propensione è particolarmente evidente nelle zone liminari delle raccolte: Finisterre ha una lunghezza doppia rispetto alle corrispondenti In limine e Il balcone; la chiusa di Ossi è costituita da una sola poesia, Riviere, laddove invece in explicit di Occasioni troviamo un poemetto in tre sezioni, Notizie dall’Amiata, da confrontarsi con le due poesie delle Conclusioni provvisorie di Bufera. Si riscontra inoltre un rincaro quantitativo e tipologico nella scelta dei titoli delle sezioni: se in Occasioni tutte le parti del libro sono anepigrafe eccetto Mottetti, in Bufera ciascuna sezione è fornita di titolo, quasi sempre di natura strutturale o rematica, ad esclusione di Finisterre; un’esplicita corrispondenza con l’unico titolo di Occasioni è contenuta inoltre nella sezione Madrigali privati, in quanto allude ad un genere musicale che era considerato la variante profana del mottetto. Tale configurazione dei titoli, in particolare, «suggerisce come La bufera e altro non sia la semplice continuazione narrativa delle Occasioni, ma ne rappresenti anche una forma di tendenzioso commento, quasi un’opera di secondo grado».13
Le strategie del rincaro e gli elementi di marcatura sintagmatica e paradigmatica sono una spia del manierismo di Bufera, e della distanza ormai maturata rispetto al classicismo dominante di Occasioni, che al contrario rientra in una sorta di «moderno stilnovismo». In particolare, in Bufera alcuni elementi già presenti in Occasioni (come il nome di Clizia) diventano espliciti, e cresce notevolmente il numero delle fonti (ad esempio la citazione da Les tragiques in esergo alla poesia omonima) allo scopo di infittire le corrispondenze con la raccolta precedente. Infine, l’esperienza personale rispetto ad Occasioni appare sempre più mediata dalla cultura, e tale mediazione spesso determina la trasformazione dell’io lirico in personaggio: non più, dunque, esperienza liricizzata, ma esperienza che diviene racconto. In questo quadro rientra anche il diverso trattamento della figura femminile: se in Occasioni una stessa figura poteva rimandare a persone diverse, in Bufera a ciascuna di esse corrisponde una persona sola.
A fronte di tale osservazioni, Scaffai definisce Bufera come «un’opera di secondo grado rispetto alle Occasioni».14 Per questo, se un commento a Bufera dovrà dare ampio spazio, sia nelle note che nei cappelli introduttivi, all’approfondimento della rete intertestuale, in Occasioni un simile lavoro non sarà necessario: infatti, pur essendo possibile reperire numerose corrispondenze anche in Ossi e in Occasioni, il fenomeno dell’intertestualità acquista rilievo strutturale solo in Bufera. Inoltre, l’intertestualità in Ossi e Occasioni fa riferimento comunque a quello che Scaffai definisce continianamente come un primum esistenziale, mentre in Bufera il primum è ormai soprattutto culturale.
Dopo aver affrontato Notizie dall’Amiata, e aver delineato i rapporti tra prima e seconda raccolta del poeta ligure, Scaffai nel quarto saggio – Livelli di lettura e intertestualità nel «Sogno del prigioniero» di Montale – si dedica all’analisi del componimento finale di Bufera.
In merito ad alcuni specifici aspetti, Il sogno del prigioniero, con il suo interno conflitto tra struttura classicista ed espressività manierista, presenta diverse tracce della successiva evoluzione della poesia montaliana in Satura e, allo stesso tempo, intrattiene con Bufera rapporti di sicura stabilità. Il tema trattato – quello della prigionia – si presta a diversi tipi di lettura: storico-politica, letteraria, biografico-esistenziale. In particolare, mentre Riccardo Scrivano15 interpreta il testo in senso positivo, rintracciano al suo interno una vitalità non estinguibile, la maggior parte dei critici – si pensi specialmente a Ugo Carpi16 e a Romano Luperini17 – avallano un’interpretazione per lo più negativa, sotto il segno di uno scacco storico-esistenziale. Scaffai, se da un lato mette in luce «l’impossibilità dell’azione e della sintonia con la Storia», dall’altro recupera alcuni elementi della lettura di Scrivano: secondo lo studioso, infatti, il «pessimismo ideologico» non osta all’ «ottimismo dell’immaginario», come se il poeta si rifugiasse nell’«auspicio impossibile (e commovente) che il visiting angel ritorni, in un tempo irreale», tipico della dimensione onirica. A causa di tale duplicità, Il sogno del prigioniero, «anche se ben implicata nel contesto politico del suo tempo, è paradossalmente tra le poesie meno impegnate di Montale».18
La lettura critica acquista maggiore spessore se messa a confronto con l’approfondimento di un altro testo liminare, Notizie dall’Amiata. In entrambi i componimenti si instaura una dialettica tra interno ed esterno, mentre l’io si trova in una condizione di esclusione, che però in Occasioni non sfocia in una vera e propria prigionia. Inoltre, se nel Sogno del prigioniero non c’è differenza tra il giorno e la notte – «Albe e notti qui variano per pochi segni» – in Notizie dall’Amiata l’opposizione tra il buio e la luce resta fondamentale, in quanto la donna ha ancora un valore metafisico, e l’«icona» può dunque schiudere il suo «fondo luminoso». In entrambi i componimenti però resta salda la possibilità di una dimensione ulteriore e irreale: infatti, «nelle conclusioni sia del secondo che del terzo libro montaliano, il soggetto contrappone alla propria solitudine la prospettiva, magari onirica e illusoria, di una continuazione o di un non raggiunto esaurimento».19
Nel quinto saggio – L’intervista con l’autore: il caso Montale – Scaffai si interroga sull’uso di una tipologia di fonti molto particolare, vale a dire quella delle interviste. Tale fonte ha un ruolo di grande rilievo per il Novecento, in quanto, essendosi evoluta in misura cospicua, ha assunto quasi i tratti di un vero e proprio genere letterario. Si tratta di «un fenomeno che a volte compensa, pur con effetti decorativi e caricaturali, il debole riconoscimento di un “mandato sociale”»;20 rientra inoltre nel quadro della cultura postmoderna, poiché consiste nell’inserimento di un elemento di cultura alta in un contesto basso come quello della rivista o del quotidiano. L’intervista può rivelarsi di grande utilità per il critico letterario; eppure andrà consultata tenendo presente non solo i possibili conflitti tra essa e il testo letterario da interpretare, ma anche la sua natura di strumento ausiliario ed esterno nella filologia testuale.
Per quanto riguarda il caso Montale, esistono un gran numero di interviste, classificabili in varie tipologie: alcune puntano per lo più al chiarimento di luoghi precisi della poesia montaliana, altre hanno per oggetto il commento di determinati aspetti della società e della cultura, altre ancora forniscono informazioni meramente biografiche. Inoltre, non va sottovalutata la categoria dell’intervista immaginaria, così come quella a struttura narrativa, in cui un personaggio autobiografico fornisce le risposte che avrebbe dato l’autore. Se da un lato l’abbondante materiale disponibile testimonia di un poeta non reticente al confronto con i giornalisti, dall’altro è innegabile la sfiducia di Montale verso gli strumenti di comunicazione della società di massa. Una delle conseguenza di tale disposizione è osservabile nel Montale intervistatore: egli infatti non riproduce mai mimeticamente le parole dei suoi interlocutori, ma al contrario le rielabora.
Molto spesso l’intervista era per Montale «un esercizio di ambiguità»: dal vero e proprio depistaggio, fino a piccole incongruenze, che concorrono all’elaborazione di un mito. L’uso di una simile fonte, a causa delle numerose criticità ad essa legate, dovrà essere sorvegliatissimo: lo studioso potrà avvicinarsi ad essa soltanto come ad una forma espressiva, senza considerarla un documento oggettivo.
Nel sesto saggio – “Una frazione di parte in causa”. Lettere e apparati in edizioni di poeti italiani del Novecento – Scaffai si sofferma sull’impiego dei carteggi nella redazione di edizioni critiche di poeti del Novecento. Il materiale epistolare del secolo scorso presenta alcune caratteristiche specifiche: non solo è piuttosto consistente, ma è fortemente condizionato dallo stretto dialogo tra autori ed editori, che sempre più si trovavano a lavorare fianco a fianco sullo stesso piano; inoltre, vengono meno le regole e i topoi che avevano caratterizzato il genere nei secoli precedenti, ed attraverso un processo graduale la lettera si trasforma da prodotto letterario a strumento di comunicazione privata effettiva, arricchendosi di dati strettamente biografici. Infine, è molto probabile che dopo il Novecento non sarà più possibile servirsi dei carteggi negli apparati: con il prevalere della posta elettronica, non solo scemano le possibilità di conservazione delle missive, ma il testo va incontro ad una progressiva semplificazione dei contenuti.
Una prima distinzione da fare è tra le lettere che occasionalmente contengono dati di rilevanza critico-filologica, e quelle che invece sono specificamente dedicate alla pubblicazione di un libro.
Scaffai definisce occasionali le varianti contenute nella prima tipologia, teleologiche quelle riportate nella seconda. A questa distinzione si affianca quella tra varianti organiche, cioè relative ad una serie di testi o ad un libro intero, e varianti disorganiche, cioè relative al singolo testo. Se le varianti organiche e teleologiche sono spesso evolutive, quelle disorganiche e occasionali sono per lo più genetiche.
Ogni epistolario assume ovviamente delle caratteristiche specifiche, in virtù delle quali si potrà scegliere se riprodurre le missive in apparato. Per quanto riguarda Montale, ad esempio, raramente nei carteggi si rintraccia la genesi delle poesie; tuttavia spesso le lettere presentano il testo intero (definitivo o provvisorio) di un componimento. Totalmente diverso è il caso di Ungaretti, che infatti elaborava nella corrispondenza epistolare alcuni motivi fondamentali che poi confluirono nell’Allegria. Tale configurazione dei carteggi non è casuale, ma risponde ad abitudini compositive differenti: se in Ungaretti prevale «una catena di assetti provvisori», in Montale la nascita di un testo avviene tramite «un processo di lenta lievitazione e accumulazione».21 Secondo il poeta ligure, infatti, «la poesia è questione di memoria e di dolore. Mettere insieme il maggior numero possibile di ricordi e di spasimi, e usare la forma più interiore e più diretta. Non ho fantasia; mi occorrono anni per accumulare poche poesie. L’esecuzione materiale, poi, è rapida; spesso è questione di minuti».22 A fronte di tali differenze, anche gli apparati dei due autori andranno costruiti diversamente: se una édition genetique sarebbe forse possibile per Ungaretti, potrebbe invece essere fuorviante per Montale (e in fatti l’edizione Bettarini-Contini del 1980 non è un’edizione genetica).
Nel settimo saggio – “Il luogo comune e il suo rovescio”: effetti della storia, forma libro ed enunciazione negli «Strumenti umani» – Scaffai analizza la terza raccolta di Vittorio Sereni, pubblicata nel 1965. Il libro, pur possedendo una struttura unitaria e autonoma, si caratterizza per una progressione di senso non lineare, ed estremamente variabile: si tratta di un sistema dinamico, ricco di «controspinte».23 Uno dei centri generatori dell’instabilità è la dimensione temporale: da un lato, infatti, agisce la tensione verso il futuro, dall’altro quest’ultima si scontra con la simultanea persistenza del passato. Il ruolo del tempo nella struttura della raccolta «dà conto di una difficoltà, quella del soggetto che fatica ad accettare lo svolgimento del tempo e che, anche per questo, non riesce a “mettere in racconto” gli eventi».24 Alla volontà dell’io lirico di raggiungere la condivisione dell’esperienza, corrisponde – nonostante la tendenza narrativa del libro – un’impossibilità di raccontare, di percepire la propria esperienza nel tempo; il fenomeno va di pari passo con l’impossibilità del colloquio amoroso, segnalata dall’assenza del tu femminile.
Lo statuto del tu si evolve nel corso della raccolta. Nella prima metà di Strumenti umani, il pronome si riferisce per lo più ad un interlocutore generico, oppure rappresenta una «variante enfatica dell’io»; può capitare che si riferisca ad una personificazione allegorica, e solo eccezionalmente è rivolto ad una figura femminile. Nella seconda metà, il tu è indice di uno «sdoppiamento del locutore, che alterca con un destinatario fittizio in una sorta di dialogo interiore»,25 ed è il frutto dell’aspirazione sereniana alla plurivocità. In particolare, la presenza di più voci è resa tramite diversi strumenti: «la vociferazione o discorso corale»; «il discorso riportato»; «la dizione interiore e rimuginante e quella spersonalizzata dello stereotipo».26
Nonostante la polifonia sia di sicura attestazione linguistico-sintattica, il fenomeno non si estende al piano metalinguistico: più che ad un insieme di voci differenti, ci troviamo di fronte alla stessa voce – per dirla con Segre – «infinite volte rifratta».27 La tensione sereniana verso il dialogo, dunque, resta perennemente insoddisfatta. Per questo non si può parlare di teatralità di Sereni in senso proprio: se è vero che rispetto a Frontiera e Diario d’Algeria si registra un’apertura polifonica, in realtà non esiste una «vera correlazione drammatica tra i personaggi»,28 per cui l’unico confronto possibile con il teatro comporterebbe un riferimento ad autori come Beckett o Ionesco. La raccolta si fonda dunque su un’impossibilità: del dialogo, della narrazione, dell’amore, e dell’ancoramento al tempo. Tramite queste chiavi, Sereni riesce ad andare al di là della lirica, senza negarne gli istituti formali, come al contrario farà Montale in Satura.
L’inquadramento di Strumenti umani prosegue nell’ottavo saggio – Lettura di «L’alibi e il beneficio» di Vittorio Sereni – attraverso l’interpretazione del quinto testo della penultima sezione.
Dal punto di vista stilistico, il componimento si caratterizza per «l’assenza o la debolezza di un baricentro metrico, sostituito dalla macrofigura retorica dell’iterazione (vera dominante formale, come ha mostrato Mengaldo, degli Strumenti umani)».29 L’iterazione, se da un lato produce un disorientamento continuo del lettore, dall’altro assume valore strutturale; tale duplicità rappresenta il corrispettivo formale del motivo dominante del testo, cioè l’immagine della nebbia.
Quest’ultima è sia beneficio che alibi: infatti, essa nasconde la realtà e la camuffa, determinando un’illusione di indeterminatezza e di vuoto, all’interno della quale è reso possibile il ricordo; allo stesso tempo, però, può agire come scusa per non impegnarsi nel presente. Secondo Scaffai, è la funzione positiva a prevalere nel finale, segnalata dalle immagini della fioritura primaverile e della «globalità del possibile».
Nel capitolo nono – Appunti per un commento a «Stella variabile» – lo studioso riunisce alcune osservazioni derivate dal suo lavoro di commento (ancora in corso) del quarto libro di Sereni. Il critico che volesse realizzare un’impresa simile dovrebbe cercare sia di capire il testo che di farlo capire, senza cedere all’accumulo autoreferenziale di dati. Nello specifico, il commento a Stella variabile dovrà tenere conto prima di tutto della complessa dinamica di evoluzione e conservazione che lega la raccolta a Strumenti umani; in secondo luogo, dovrà registrare e interpretare le numerose varianti subite non solo dai singoli testi ivi contenuti, ma anche dall’impianto strutturale.
Rispetto al volume del ’65, Stella variabile presenta un’organizzazione interna più labile, caotica, meno consapevole, cosicché la forma-libro ne risulta piuttosto sfaldata; tuttavia, è ancora possibile rintracciare delle sequenze di testi accomunate dalla presenza di tratti simili. L’erosione della forma-libro va di pari passo con la sfiducia nella possibilità della scrittura di aderire all’esperienza. Proprio il dubbio sul ruolo della scrittura fa sì che la raccolta sia piuttosto inclusiva dal punto di vista tematico, tuttavia senza mai sfociare in una «forma di assuefazione al mondo e alla storia».30 Tale tendenza appare sensibilmente nell’analisi dell’intertestualità, che coinvolge non solo la letteratura ma anche la musica, l’arte e il cinema, oltre a testimoniare di un «rapporto privilegiato»31 del poeta con gli autori che egli traduce. Tale rete di rimandi consente a Sereni di mettere la sordina alla tradizione del grande stile, dalla quale ormai si sente distante; allo stesso tempo, però, «è anche una forma di riappropriazione e aggiornamento di quello stile, assimilato all’esperienza».32
Un eventuale commento a Stella variabile non potrà non tener conto dei collegamenti intertestuali, ma il suo scopo non sarà lo svelamento erudito dei rimandi: l’obbiettivo resta sempre quello di un’interpretazione a tutto tondo.
Nel saggio conclusivo – Una costante di Caproni: l'”uso (in un certo modo) della parentesi” – Scaffai analizza uno stilema tipicamente caproniano, che tanta importanza avrà nel corso del Novecento. L’uso delle parentesi – già cospicuo nel 1936 in Come un’allegria, e in continuo aumento fino al Conte di Kevenhüller nel 1986 – permette all’autore di «mediare tra l’io e la realtà», tra il «controllo razionale dell’esistenza fenomenica e la dispersione».33 Se nel primo Caproni lo stilema assolve la funzione di inserto lirico, successivamente diventa strumento di variazione melodica, evidente soprattutto nel Congedo del viaggiatore cerimonioso. In particolare, si passa dalla variazione del punto di vista alla variazione delle voci, vale a dire che si verifica un’evoluzione dello stilema in senso polifonico.
Partendo dalle utili osservazioni di Scaffai, sarebbe interessate capire come la compresenza di voci distinte – registrabile secondo modalità differenti in Sereni e Caproni – abbia agito sulle generazioni di poeti che esordiscono negli anni Settanta, nei quali la tematica della dissoluzione dell’io è molto forte e si esplica spesso nell’utilizzo di stilemi grafici – trattini, parentesi, puntini sospensivi, corsivi – volti a segnalare uno statuto del soggetto instabile e dai contorni poco definiti.
Si pensi, ad esempio, ai componimenti di Somiglianze (1976) di Milo De Angelis, dove però il contrappunto delle voci o del coro, invece di assumere una declinazione esteriorizzata e teatrale, acquista una dizione per lo più interiore. Una riflessione sulla plurivocità, inoltre, permetterebbe di approfondire la resa grafica dell’intonazione, nel suo evolversi nel corso del Novecento, fino ad assorbire al suo interno la funzione strutturale un tempo svolta soprattutto dalla regolarità sillabica.
Note
1 V. Sereni, Il lavoro del poeta (1980), in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013.
2 N. Scaffai, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, Roma, Carocci, 2015, p. 12.
3 Ivi, p. 24.
4 Ivi, p. 37.
5 Ivi, p. 39.
6 Ivi, pp. 39-40.
7 G. Barzelotti, Monte Amiata e il suo profeta (Davide Lazzaretti),Milano, Treves 1910, p. 14.
8 N. Scaffai, Il lavoro del poeta, cit., pp. 52-54.
9 Ivi, p. 42.
10 Ibidem
11 Ivi, p. 43.
12 Ivi, p. 66.
13 Ivi, p. 69.
14 Ivi, p. 79.
15 R. Scrivano, «La bufera», in Id., Metafore e miti di Eugenio Montale, Napoli, Edizioni scientifiche, 1997, pp. 21-68.
16 U. Carpi, Su «La bufera e altro», in Id., Montale dopo il fascismo, da «La bufera» a «Satura», Padova, Liviana,1971, pp. 73-121.
17 R. Luperini, Storia di Montale [1986], Roma-Bari, Laterza, 2006.
18 N. Scaffai, Il lavoro del poeta, cit., p. 83.
19 Ivi, p. 89.
20 Ivi, p. 102.
21 Ivi, p. 119.
<2 E. Montale, Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti, F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p. 37, lettera del 5 dicembre 1933.
23 N. Scaffai, Il lavoro del poeta, cit., p. 138.
24 Ivi, p. 145.
25 Ivi, p. 160.
26 Ivi, p. 162.
27 C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, p. 5.
28 N. Scaffai, Il lavoro del poeta, cit., p. 166.
29 Ivi, p. 175.
30 Ivi, p. 202.
31 Ivi, p. 203.
32 Ivi, p. 204.
33 Ivi, p. 205.