Il dominio della formaAlcune osservazioni sopra «Rimi»
di Gabriele Frasca
Ezio Partesana
Uno scrittore che decida, oggi, di sottoporsi alla disciplina dell’endecasillabo sceglie la signoria e la servitù allo stesso tempo: dà forma all’esistente mediante l’obbedienza alla tradizione. Il rispetto del metro e degli accenti fa sembrare il contenuto d’esperienza astratto e impersonale, mentre in realtà il dominio sopra la materia è imposto con violenza; il soggetto che non si trova nei versi è nascosto nella forma.
Non è una opposizione, non c’è da una parte l’ingenuo sentire e dall’altra la ragione o la storia che costringono l’ispirazione entro forme rigide, non è uno scontro tra libertà e prigionia, né un’abiura. Piuttosto una ragionevole ribellione alla letteratura di tutti, alla poesia così a portata di mano che basta essere sinceri per scriverla, senza bisogno di arte né di parte. Il piacere di scrivere come si vuole è del tutto diverso dal piacere di scrivere come si deve. Il mercato incoraggia la creatività sino a quando è un’alternativa alla conoscenza, non appena sorge il dubbio che dar forma alle parole possa portare a dar forma alle cose scatta la censura dei corsi di scrittura. Quel che dovrebbe essere avvertito come essenziale, e cioè la somiglianza tra la fatica della scrittura e la coscienza del dominio, viene trattato invece come un materiale morto, come cosa che facevano sì gli antichi ma che adesso, nel regno dell’individuo liberato, non ha più alcuno scopo di esistere. In un mondo dove a male pena si riesce a essere responsabili delle proprie scelte quotidiane l’ideologia contrappone la disciplina alla spontaneità del sentire, la conoscenza all’intuito e, naturalmente, il vecchio al nuovo. Poiché sono molte le strutture sopra le quali gli uomini non riescono a esercitare un controllo, abbandonare le costrizioni metriche appare una specie di vendetta consumata postuma; si scrive come si vuole per avere un risarcimento della vita che non si voleva. Dei vecchi poeti si conserva il gesto e l’aura, non il lavoro.
È pur vero che l’arte consola da ogni cosa e persino nella denuncia più severa si scorge l’apologia delle parole, così come il canto delle sirene seduceva a una morte senza pena né desiderio. Ma l’inganno è un Mefistofele che confessa, suo malgrado, la verità, e lo fa proprio perché è in grado di sviare, per il breve tempo della lettura, l’attenzione dal contenuto e restituirla alla sintassi. La poesia trasforma l’acqua in vino ma il vino è stato nel frattempo razionalmente avvelenato.
Il libro di Gabriele Frasca, Rimi,1 è una raccolta tripartita di sonetti, prose e traduzioni. Non è facile intendere le ragioni di questa divisione. I rifacimenti da Francisco de Quevedo Villegas precedono il nucleo di Rimi e le traduzioni dal gallese Dylan Thomas chiudono il volumetto. Le prime due sezioni sono in endecasillabi, rimati e non, privi di punteggiatura, la terza rispetta, con magistrale capacità, la lingua metafisica di Dylan Thomas.2 I venticinque sonetti contengono molte citazioni, o per meglio dire “richiami”, che spaziano da Dante a Beckett, da Petrarca a Rilke,3 come se Frasca prima di incominciare a scrivere avesse voluto presentare le dramatis personae che da lì a poco sarebbero comparse in scena. Ognuno potrà moltiplicare gli attori secondo le sue conoscenze e sensibilità, il problema è, però, che dopo essere stati così cortesemente presentati non entrano mai in scena, non c’è traccia di loro nelle prose centrali né altrove. Vien da prendere sul serio, allora, non solo quel che si legge, il barocco rifacimento di svariate tradizioni letterarie, ma anche come è stato scritto. E la materia formale, per così dire, dei sonetti è davanti agli occhi: metro e ritmo, rima, lessico e punteggiatura assente. Fossero queste le dramatis personae che la recita mette in scena?
Si prenda il sonetto XVI:
dura la fiamma solo se sopita
al morso della cenere contende
il soffio che se non la spegne accende
un’altra brace per bruciare vita
vorace a ravvivare la ferita
che aperta sempre ancora mi sorprende
sebbene l’abbia avvolta con le bende
degli anni persi in cerca d’un’uscita
non da varcare da tenere a vista
per accennarvi solo con un gesto
che fosse mio per quanto ripetuto
dalla mamma alla mummia si fa presto
a spingersi in quel mondo sconosciuto
cui il solo evento è un giro sulla pista4
Al principio il tema è quello della similitudine, usata tante volte, tra una fiamma che bruci e la vita: più arde meno tempo impiega a consumarsi. Non è nuovo neanche la «ferita» che «sorprende», taglio dal quale, non solo metaforicamente, esce la vita; non è neanche tradizione questa, è repertorio. La scossa arriva al settimo verso, a quel «sebbene» che fa comparire una volontà contraria alla metafora, la ricerca di una via d’uscita dal circolo dell’esistenza che sia non la dipartita ma qualcosa da accennare con un adeguato gesto. Già a questo punto la sorpresa del rinnovarsi dell’istinto alla vita è mitigata dalla ricerca di una spinta contraria, medicina probabilmente inutile – anzi «ripetuta» -, ma sola forza che si possa dire essere propria, «mia», del soggetto, insomma, che di tanto ardore sconta, a pensarci bene, più l’anonimato che non il tempo passato. Ma ancora peggio è la verità secondo la quale l’uscita – il principio di individuazione – è solo da indicare da lontano perché di più sarebbe entrare in un «mondo sconosciuto» dove non accade nulla se non un girare simile a quello delle giostre di un tempo: in tondo. Arrivati al fondo del sonetto, dunque, l’attacco barocco alla fiamma della vita cambia registro: non era lamentatio sopra la caducità del mondo, quanto piuttosto lectio morale degli «anni persi» in cerca di una alternativa alla ripetizione.
A guardar bene nessun punto del sonetto può essere fissato come inizio dal quale partire né come conclusione alla quale arrivare; bisogna piuttosto percorrerlo – a necessità inciampando – per cogliere quel che c’è da dire. Quando leggiamo che l’uscita sola possibile è verso un mondo sconosciuto dove si fanno solo giri di pista, la formale adesione al canone della «vita che brucia» diventa un nonnulla, una «vecchia parola» che non si sa più mettere in rima e dunque il centro del rimorso. Il rifiuto delle maiuscole e della punteggiatura non è, dunque, un vezzo da avanguardia né un tentativo di modernizzare forme poetiche antiche, quanto piuttosto un obbligo, un dovere essere della lettura che le impone tempo, attenzione e fatica.
Il luogo comune ripete che una poesia che parli di rose o altri fiori possa essere più impegnata – ma si dovrebbe dire politica – di una ballata sulla lotta operaia. Quando si tratti di spiegare, però, in quale senso debba compiersi questa inversione dal contenuto alla forma, la balbuzie prende il sopravvento, si scrive del bello, del vero, della loro impossibile disgiunzione e si conclude, infine, che l’arte è rivoluzionaria di per sé, scordando insieme al peccato anche il peccatore. Tutti i libri sono merci, vengono prodotti e scambiati, hanno un valore e un prezzo stampato sulla quarta di copertina. Il libro di Gabriele Frasca non fa eccezione, però le sue scelte tendono a ridurre al minimo il feticcio e ad accrescere al massimo l’uso. Pochi scritti sono meno merce di questo libro, pochi scritti possono venir scambiati meno di questo libro e pochi scritti, poche merci o forse nessuna, possono chiedere a chi le consumi una fatica simile. Non c’è attesa che venga soddisfatta, al contrario il consumo comporta la ristrutturazione: non del testo ma del Sé, che ne esce modificato. È davvero un’arte dopo la catastrofe quella che mostra l’irrigidimento nell’obbedienza e fa dire che così non avrebbe dovuto essere. Soggiogare la sintassi alla forma e così liberare l’esperienza, anche se solo per un momento, anche se solo per finta.
Qualcosa deve essere andato male, perché le quaranta prose, che costituiscono la parte centrale del libro, si interrompono: trentanove sono di lunghezza identica, una di sole nove righe.
A voice comes to one in the dark. Imagine.
To one on his back in the dark. This he can tell by the pressure on his hind parts and by how the dark changes when he shuts his eyes and again when he opens them again. Only a small part of what is said can be verified. As for example when he hears , You are on your back in the dark. Then he must acknowledge the truth of what is said5
aperti appena gli occhi sentì dire di aprire gli occhi ed ascoltare il buio. va bene disse e si girò sul fianco sperando risuonasse la parete. ovvio che il muro fosse spento e muto e invece no che un po’ di luce c’era […] l’avesse almeno persa sentì dire solo una volta quella sinfonia. ci sei ci sei ci sei come un remoto stantuffo a vuoto che ha rotto la biella.6
Quel che fa resistenza è il linguaggio, lo sappiamo; non riesce mai a dire tutto.
In un celebre racconto di Kafka, La tana,7 ci sono due personaggi, una preda e un cacciatore, che sono fusi insieme in un’unica coscienza e per questo oscillano, come due maschere, tra la paura e la soddisfazione. Una volta temono che un nemico implacabile possa scoprire tutto ed entrare nella tana sfruttando i suoi difetti, e l’altra si crogiolano tra le piccole creature che abitano quell’universo, delle quali fanno strage e scorta di cibo. Le due coscienze, ma sarebbe meglio dire maschere, che abitano questo denso libro sono similmente l’una dentro l’altra: la poesia nasconde con l’arte la sintassi, e la sintassi permette che venga «spinto fuori»8 quel che crede di entrare per una passeggiata, quel dialogo tra sé e le cose che diventa, a volte, poesia.
Sono uomini soli, quelli di Frasca, e che fanno fatica a parlare. In almeno sette prose il linguaggio è argomento oltre che forma, e non è un argomento felice. Le «vecchie parole» non funzionano, la lingua fa resistenza e la realtà da parte sua è quasi peggio. Ma c’è anche il moto contrario, e ogni volta che si apre bocca la lingua costringe l’Io a essere più soggetto di quanto vorrebbe, o potrebbe, essere. Poiché ogni raccontare, anche il più metafisico, implica un raccontatore, parlare è già, in sé e per sé, la manifestazione di un essere che in realtà esiste poco e male. È un’alternativa alla quale non si sfugge: o l’Io narrante (o narrato, qui poco importa) fa finta di niente e racconta come se non ci fosse alcun ostacolo all’espressione o accetta l’impotenza e tace; dire e tacere allo stesso tempo non è possibile. Un ospedale, una prostituta, un albero, sono gli argomenti di Rimi, e cose della vita in genere, non battaglie perse né grandi rivelazioni. Si balbetta e si scrive per fare un riassunto, quasi per tirare le somme e contare quanto si è speso e il resto che spetta. Ma anche questo poco – che un tempo si sarebbe chiamato esistenzialismo – pesa perché rivela le illusioni, e tra di esse la peggiore è proprio l’idea che le parole, disposte nel giusto ordine, possano riflettere la coscienza.
Se tutto è andato male, in potere della scrittura restano la vendetta e il perdono. Sono allucinazioni, certo, e a essere sinceri bisogna confessarselo. Però non sono nulla, perché quel che si pensa torna indietro sotto forma di distanza dall’esperienza. È la separazione, la dialettica tra l’esperienza e il concetto che non lascia in pace la coscienza e la costringe a parlare ancora. Se si facesse scorrere via tutto, però, si ricadrebbe nell’errore di credersi eterni e onnipotenti10 e l’unica scoperta possibile sarebbe «l’infinita vanità del tutto». Dunque, a conti fatti, che cosa resta davvero saldo in mano a chi scrive? La forma, che costringe la realtà a mostrarsi ordinata, e la sintassi, che ricorsivamente struttura il pensiero. Al principio una cosa appare la più salda e indubitabile: Io, qui e ora. Ma poi la riflessione coglie che ogni Io è Io e ogni qui e ora è qui e ora, e quel che appariva il più immediato dei possessi del Soggetto si trasforma in un generico e astratto di tutti e sempre, in ogni luogo e in ogni tempo.11 Non è stata una esperienza a smentire l’ingenua certezza d’essere il centro dell’esperienza stessa, ma la riflessione, e cioè quel che torna indietro al soggetto quando cerca di mettere in forma quello che percepisce. Frasca sa bene di dover combattere, spalle al muro, con due nemici contemporaneamente: la compravendita della vita scritta, che sostituisce quella reale nella letteratura da consumo, e la consapevolezza della «infinita vanità» del tentativo di prendere possesso di un tempo e un luogo attraverso la voce. Non si fida Frasca e scompare dietro «l’incantesimo del rigo», ma, sapendo salutare con buona educazione, lascia come una traccia di sentiero che chi legge deve percorrere. Da una parte alletta il lettore con la danza dei versi, dall’altra gli dice la verità; da un’altra ancora lo costringe a «rallentare ad arte», e infine lo consegna alla sintassi, come a dire: Ecco, così è come pensiamo e ci difendiamo da noi e dal mondo. Frasca segue il comandamento che impone di provare a fallire meglio,12 e non certo perché il fallire provando porti con sé il riscatto. Se quasi tutto è compromesso – e in queste prose non c’è nulla che vada per il meglio – l’ordine di insistere è etico, non estetico; all’arte spetta il «meglio» dell’errore, non l’obbligo di continuare che può essere solo una scelta priva di fondamento. La redenzione sarebbe riuscire a separare l’esistenza dal bisogno di redenzione o agire secondo giustizia per riparare i torti. Se né una cosa né l’altra sono possibili alla letteratura, perché scrivere ancora?
Molto tempo fa tutte le poesie erano riti magici, scacciavano la mala sorte, accendevano il fuoco, davano da mangiare e conservavano la memoria. Lentamente e con fatica l’umanità ha appreso come fare a meno del mito e per sopravvivere ha inventato la tecnica. Il prezzo da pagare è stato la soppressione della differenza tra bene e male, perché non c’è nulla di buono né di cattivo in una formula matematica. Il potere che era associato alle parole è rimasto, ma non c’è più nessuno che sappia usarlo. Perché quel potere consisteva nel farsi simile alla realtà attraverso una finzione – nominare – e con questa mutare se stessi, non certo la realtà.14 La consolazione della poesia ha a che fare sia con il ricordo di quel potere che con l’abbandono alla finzione. Eppure c’è ancora da fare.
Nelle prose di Rimi ci sono solo monologhi che son tutti dialoghi. Non è una contraddizione: scambi di battute si contano sulla punta delle dita di una mano, e molti sono nel ricordo o tra il soggetto e un impersonale assente «sentì dire». Ma al contempo chi parla è sempre in polemica, e cioè in guerra, con se stesso. Lo scritto XXX è l’unico che s’apre con una conclusione sospesa e si chiude con la morale della premessa:
dove la chiusa è rafforzata dalla mancanza del congiuntivo nel periodo ipotetico. La forma poetica delle prose seduce come una finta dello spadaccino che cerca di sviare l’attenzione dell’avversario per poterlo poi colpire. Una volta ferito il nemico non ha la forza di ribellarsi, non può fare a meno di ascoltare quanto gli viene versato nelle orecchie. Non tutte le finte vengono con i fiocchi e a volte per voler dire troppo si finisce per cadere in un immediato che stride col rigore della trappola apprestata:
oppure:
Ma accanto alle cadute dello stile – dove letteralmente la forma non sorregge più la sintassi – si trovano lezioni morali che ricordano i profeti della Tanakh;18 se ci sono degli obblighi, contratti a suo tempo, Frasca non intende sottrarsi. Il dovere è quadripartito come il senso delle scritture: tradizione, esperienza, epica e consolazione; da dove si esca lo vedremo tra poco, per il momento è importante elencare almeno alcune delle verità che escono fuori dall’esperienza – ma sarebbe meglio dire: dall’esperienza e dal pensiero – nei ben coltivati orti botanici di Frasca dove, se non c’è membro che non sia ebbro, non c’è nemmeno esemplare che non sia unico: è dove l’etica si incontra con la metrica:
in replica spettrale come gli altri che sono andati via ma non da te. t’infestano la vita e tu con loro tutt’una vita passi a fare festa19
e quanto al resto quanto ai tuoi ricordi si apposteranno giusto come i miei. ma poi sbaraccheremo tutti assieme e queste strade torneranno sgombre20
e seppure si sa che non esiste alcuna immacolata percezione. al punto che nessuno potrà dirsi davvero sé sotto lo sguardo altrui. prendiamola così dal verso opposto e sentiamoci noi l’altro dell’altro21
poi fu d’istinto come nell’infanzia che si portò le mani sulle orecchie. s’intese dire solo dalla tomba come ogni bimbo torno al grembo pa22
uno teme la noia dell’identico e neanche sa come sgomenta l’unico23
e infine:
Per leggere questo libro bisogna armarsi, di pazienza e di conoscenza, e andare in cerca delle radure lungo i sentieri che non le indicano o, detto altrimenti, proprio perché la forma appare dominare sopra tutto, è dove l’astratto della lingua si lacera che emerge la verità.
Sono solo vecchie parole, è vero. Come ha confessato lo stesso Frasca in un intervento di lettura25 una poesia di Dylan Thomas con quel testo non esiste, è, come per Quevedo, un “rifacimento”:
Ma «vecchio» può voler dire molte cose. È vecchio quello che ha passato molti anni, ma anche il non più usato perché superato da altro, e il familiare consueto, come il “vecchio amico”. Può esserci anche un senso generale, le «vecchie parole» siano semplicemente l’eterno tentativo di dire la realtà in modo che cambi, o almeno che non faccia più così male. Ma non è una replica quanto piuttosto, appunto, una «protesta»; è Gabriele Frasca non Dylan Thomas.
Io non so chi abbia scelto proprio quei versi per far da copertina a Rimi. Spesso Einaudi ha indulto in scelte romantiche, diciamo così, piuttosto che illustrative, ma questa volta la decisione appare perfetta:
S’aprì una ferita che duole,
Cui non rimane chi rimi in soccorso,
Dove m’hanno condotto le vecchie parole27
si legga così: alla condizione nella quale ci troviamo non è possibile abituarsi, ma la promessa di altro è una ferita che è ancora e sempre aperta. In soccorso ci sarebbero le parole, la rima che seduce e ricorda che così non sarebbe dovuto essere, se ancora qualcuno fosse capace di intenderlo e scriverlo. Se così non è, se la storia pare avere consumato a morte la speranza, la redenzione passa attraverso la volontà di scrivere di nuovo le nostre verità, in un modo che le faccia sopravvivere, tra chiacchiera altisonante delle merci e il vizio di forma dell’Io. Insieme alle vecchie parole c’è anche il vecchio motto illuministico: Wo Es war soll Ich werden.28
La terza sezione di Rimi è, come il volume nel suo complesso, una signoria e una servitù allo stesso tempo e Frasca si fa umile come un traduttore – che non fa nulla se non riferire un messaggio – e insieme potente come colui che corregge il passato riscrivendolo. In entrambi i casi domina, da per tutto, la forma, che sia l’endecasillabo o la traduzione, la rima o la sintassi, la parola o la cosa. Ma è un dominio che ripete la dialettica: il Signore è astratto, e per questo vince, ma il Servo è sottomesso e da lui dipende il mantenersi in vita.
Se Rimi fosse la Divina Commedia Quevedo sarebbe l’Inferno, Frasca il Purgatorio – là dove le anime si dannano per essere degne di salire al cielo – e Thomas il Paradiso, dove chi ce l’ha fatta si gode la beatitudine, ma così non è. Eppure, in un qualche modo, la parte dedicata alle traduzioni deve indicare una via d’uscita, fosse anche solo quella che si consuma quando nel testo le dramatis personae hanno svolto la loro parte e si arriva a un finale perché il tempo è scaduto e non c’è altro da aggiungere. Però, ancora, persino al di là delle intenzioni, sono traduzioni quelle che chiudono il testo di Frasca, e cioè un lavoro che sta a metà strada tra la conoscenza e l’uso dell’esperienza, il pubblico dominio, dove ogni testo è consumato, e la privata servitù al sogno di una cosa. Forse, allora, non è così sconsolata la battuta finale, e Where have the old words got me si può leggere anche al contrario scoprendo, con sorpresa, come queste vecchie irritanti nemiche siano anche la materia di cui sono intessuti i sogni di libertà.
Note
1 G. Frasca, Rimi, Torino, Einaudi, 2013.
2 A rigor di termini esiste una quarta sezione, nascosta però nell’indice del volume stesso. A p. 129, infatti, compare una traduzione da William Butler Yeats, a sua volta adoperato da Beckett in But the Clouds o, nella versione tedesca Nur noch Gewölk.
3 Cfr. Frasca, Rimi, cit.: «chi un’intensa bellezza per ventura / scorge una volta tanto se ne accende / che nell’anima impressa eterna dura» (p. 7); «e sebbene un ingresso è il solo certo / un’ampia scelta abbiamo dell’uscita / ritorna a noi il finale di partita / del breve gioco che c’è stato offerto» (p. 13); «tocca così l’estremo il mio sconforto / e non so se temere dalla sorte / lunga la vita o rapida la morte» (p. 12); «ahi quanto l’uomo improvvido s’inganna / che in terra teme che cadrà la vita / e non sa che vivendo cadde in terra» (p. 21).
4 Ivi, p. 20.
5 S. Beckett, Nohow On, New York, Grove Press, 1996, p. 1.
6 Frasca, Rimi, cit., p. 35.
7 F. Kafka, La tana, in Id., Racconti, trad. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1970.
8 «scomunicati e tutto perché all’arte non si richiede che spingere fuori. chi è fuori già da sempre eppure crede che stia facendo quattro passi dentro»: Frasca, Rimi, cit., p. 58.
9 Ivi, p. 57.
10 Cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1962, p. 229.
11 Il riferimento è, ovviamente, alle prime pagine della Fenomenologia dello spirito. Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 1988, pp. 69 sgg.
12 Cfr. Beckett, Nohow On, cit., p. 89: «All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better».
13 Frasca, Rimi, cit., p. 102.
14 Naturalmente il riferimento è al libro di Th.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1982.
15 Frasca, Rimi, cit., pp. 91-92.
16 Ivi, p. 55.
17 Ivi, p. 37.
18 Cfr., per intendere, Osea, Profeti posteriori, in Bibbia ebraica, a cura di D. Disegni, Firenze, Giuntina, 2011.
19 Frasca, Rimi, cit., p. 34.
20 Ivi, p. 56.
21 Ivi, p. 58.
22 Ivi, p. 64.
23 Ivi, p. 101.
24 Ivi, p. 89.
25 Cfr. Gabriele Frasca legge «Dove m’hanno condotto le vecchie parole». I poeti leggono se stessi 11, in «Nuovi argomenti», 30/09/2015.
26 Un esempio solo, Cfr. R.M. Rilke, Elegie Duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Einaudi, Torino 1978.
27 Frasca, Rimi, cit., p. 124.
28 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, trad. it. di M. Tonin Dogana ed E. Sagittario, Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 485.