I libretti di Verdi
Piergiorgio Bellocchio

Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti. Riproponiamo oggi la sua recensione ai Libretti d’opera di Luigi Baldacci (Vallecchi, 1974), uscita originariamente su «l’Unità» il 30 marzo 1992, e poi inserita in Oggetti smarriti.

Negli anni del boom, anche editori medi e piccoli avevano tentato di battere la strada della BUR e degli Oscar. Con esiti commerciali inevitabilmente cattivi, da addebitare anzitutto a inadeguatezza strutturale e debolezza economica. A cui in molti casi si aggiungeva una buona dose d’ingenuità. Scorrendo, per esempio, il catalogo dei Tascabili Vallecchi, troviamo sì titoli di tutto rispetto, ma l’intento in sé lodevole di valorizzare certi autori della casa, offrendoli al pubblico vasto e indifferenziato delle edicole, non poteva che fallire. Se già c’era da dubitare del successo dei Pesci rossi di Cecchi o di Un uomo finito di Papini, che sorte poteva mai toccare alle Novelle di Cicognani, al Diario di un parroco di campagna di Lisi, a Vita in villa di Clotilde Marghieri? O magari al prestigioso Dizionario dei sinonimi del Tommaseo travasato in quattro volumotti di oltre 500 pagine l’uno?

Mescolati a questi e altri titoli più o meno incongrui, ce n’erano però anche di adatti al mercato degli economici (non so se premiati dal pubblico o travolti nel medesimo insuccesso dei primi): per citarne qualcuno, i Romanzi di Tozzi, I cento giorni di Joseph Roth, Poesie di Yeats, Inni e frammenti di Hölderlin, L’Italia e la Grande Guerra di Thayer. Metterei tra questi, Libretti d’opera (1974) di Luigi Baldacci, per la popolarità dell’argomento, anche se il libro è tutt’altro che facile. Si tratta di una raccolta che comprende diversi saggi di critica letteraria (su Carducci, Tozzi, Valeri ecc.), ma la sezione più unitaria e cospicua (cinque pezzi per un centinaio di pagine) è quella che dà il titolo al libro.

I limiti di spazio mi permettono solo di accennare all’assunto di Baldacci, che «tra libretti e partiture ci sia una corrispondenza strettissima, e che insomma l’archetipo platonico della soluzione musicale sia già nei libretti» (p. 213). Tesi che capovolgeva il radicato luogo comune secondo cui la musica di Verdi è grandissima nonostante i pessimi testi dei vari Solera, Cammarano, Ghislanzoni e soprattutto Francesco Maria Piave, e solo alla fine Verdi troverebbe con Boito un degno librettista. Per Baldacci, invece, «il realismo di Verdi nasce sui libretti, prima che nella sua musica, e a poco a poco diventa realismo di linguaggio musicale» (p. 178). Se la qualità letteraria dei libretti di Piave è spesso modesta, notevolissima per contro è la loro forza drammaturgica, in perfetta coincidenza con le idee e i sentimenti che Verdi intendeva esprimere in musica.

«Il vero librettista di Verdi non fu il Boito», sostiene Baldacci, «ma il Piave, il quale non solo dette a Verdi il libretto più bello del suo teatro (Rigoletto), non solo fu il garante dell’operazione drammaturgica più culturalmente avanzata che il teatro d’opera avesse tentato fino allora nei confronti di Shakespeare (Macbeth), ma fu anche colui che più da vicino (cioè nella sostanza viva del linguaggio) rifletté la drammatica alternativa verdiana tra innovazione e conservazione (La traviata)» (p. 216). Boito è letterato di rango superiore a Piave ma «al tempo di Otello (1887) Verdi non domina più la propria drammaturgia: ne ha ceduto l’appalto a Boito e, quanto a sé, si limita a fare il musicista» (p. 175).

Scegliendo, per necessità e comodità, di sintetizzare le tesi di Baldacci, ho sacrificato il meglio dei cinque saggi dedicati all’argomento. Avvalendosi di strumenti stilistici, psicologici e sociologici, ma soprattutto con quella sensibilità alle sollecitazioni dei testi che è la miglior dote del critico, Baldacci analizza i temi e i motivi principali del teatro verdiano (la famiglia, l’autorità, i conflitti tra ordine sociale e passioni), seguendone le variazioni da opera a opera. Particolarmente acuto è lo studio dello stile della Traviata, tanto più censurato e «travestito» in quanto la vicenda è contemporanea, laddove lo stile si fa più naturale e realistico in opere come Rigoletto e La forza del destino ambientate in tempi lontani.

Va ancora detto che Baldacci ha curato e prefato Tutti i libretti di Verdi (Garzanti 1975), che a differenza del tascabile Vallecchi è tuttora reperibile in libreria. Mi resta l’imbarazzo di aver parlato di un critico letterario del calibro di Baldacci per un settore marginale della sua attività. D’altra parte, non sarei in grado di trattare adeguatamente lo studioso dei Lirici del Cinquecento, dei Poeti minori dell’Ottocento, di Foscolo, Pascoli, Tozzi, Palazzeschi ecc. Vorrei infine citare poche righe dalla polemica Notizia introduttiva ai Libretti d’opera, anonima ma trasparentemente autobiografica:

Nel 1962 Luigi Baldacci diventò titolare della rubrica di letteratura di un grosso rotocalco. Erano anni in cui si poteva ancora dire qualcosa in quelle sedi, anni cioè in cui non era stato ancora perpetrato da parte degli imprenditori culturali un sistematico smontaggio della critica militante, e da quella esperienza nacquero centinaia di articoli, per gran parte sulle letterature straniere contemporanee quand’esse erano, assai più d’oggi, ricche di fatti e di risultati: i tedeschi, gli americani. Nel 1969 Baldacci rientrava all’Università come incaricato e nel ’73 si trovava a coprire una cattedra di Letteratura italiana presso il Magistero di Firenze, senza che alla cattedra egli avesse mai pensato durante gli anni della militanza. Ma oggi egli esprime agli amici che l’hanno spinto su quella strada la sua riconoscenza.

Quanto a me, estraneo all’Università, devo invece esprimere il rimpianto per la perdita del critico militante.

[«l’Unità», 30 marzo 1992; poi in Oggetti smarriti, Milano, Baldini&Castoldi, 1996, pp. 42-46]