I giovani secondo Fortini
Tre scritti sulla possibilità
di un incontro generazionale

Roberta Cordisco

Non son colui, non son colui che credi
e altro è da veder che tu non vedi.1

Quando Fortini espone il suo punto di vista in merito alle lacerazioni inferte dalla «mutazione» all’universo giovanile, è difficile non pensare a come l’eco delle sue parole possa tornare, tutt’oggi, a sostanziarsi in verbo e a ricomporsi in un discorso di scottante attualità.

Gli sconvolgimenti operati dal miracolo economico, dall’avvento del neocapitalismo e dalla cosiddetta terza rivoluzione industriale (ossia quella che secondo Jameson e Mandel segna la fase della globalizzazione e il passaggio all’elettronica e alla nuove tecnologie) hanno interferito nella dialettica tra presente e passato, tra privato e pubblico, tra innovazione e tradizione, allentando nei giovani l’obbligo morale al «ricordo» e al rispetto di un patto generazionale che vede i loro padri depositari di un’eredità culturale la cui trasmissione è alla base di un processo storico che sia innanzitutto definizione di un’identità.

1. Tre saggi, raccolti in Insistenze e scritti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, aiutano a chiarire la posizione di Fortini, ovvero: I giovani secondo Calvino, I giovani e lo scherno e Il controllo dell’oblio. Il primo è una risposta all’articolo di Calvino intitolato Il fischio del merlo dove il protagonista, il signor Palomar, intento questa volta ad ascoltare il canto variegato e discontinuo degli uccelli in giardino, tenta di mettere ordine nel flusso disordinato dei suoni che gli giungono all’orecchio e di classificare i versi dei volatili in base alla diversa modulazione del suono. Tuttavia non riesce nell’impresa, fondamentalmente perché «non è di coloro che sanno, ascoltando un verso, riconoscere a che uccello appartiene».2 La natura diviene quindi un sistema semiologico indefinibile e indecifrabile che fa dell’incomunicabilità il suo tratto distintivo. Giunge poi, nel tardo pomeriggio, il canto di una coppia di merli; il loro fischio è molto simile a quello dell’uomo. Palomar si domanda in che modo avvenga la comunicazione tra i due, se il messaggio si celi nei fischi o, viceversa, nelle lunghe pause di silenzio che li intervallano. O se si tratti, ancora, ultima desolata possibilità, di un «dialogo tra sordi, di una conversazione senza capo né coda»;3 in tal caso non solo il fischio del merlo, ma la sua stessa incapacità di rendere comunicabile un significato, accomunerebbe il linguaggio dell’animale ai dialoghi umani. Nella fattispecie quello tra Palomar e la moglie, intenta ad annaffiare le piante in giardino, è più che esemplificativo.

Come superare tale incomunicabilità? A questo interrogativo, che pone l’accento su uno stato di natura considerato come muta alterità, segue l’angoscia del signor Palomar: lui e i merli continueranno ad interrogarsi perplessi. La risposta fortiniana riesce, però, ad aprire un varco: non è vero, come sostiene Calvino, che il dato biologico, il «percorso naturale» di vita, per quanto preveda un bagaglio di esperienze comuni e condivise tanto dai padri che dai figli, resta tuttavia incomunicabile; mentre ciò che allontana e differenzia due generazioni, ovvero il dato storico, il diverso ordine sociale nel quale esse si trovano ad agire, è, al contrario, comunicabile. Se si presta fede a questo modo di impostare le basi per un discorso sul dialogo tra passato e presente, «natura» e «storia» rappresenterebbero rispettivamente una condivisione incomunicabile e una diversità comunicabile. Ma l’errore consiste, secondo Fortini, nel privare biologia e fisiologia dei loro caratteri storici:

Ma quel che il giovane sperimenta in proprio, gli errori che commette, le frustrazioni che deve patire, i rapporti che deve stabilire con la propria identità fisiologica e psicologica non sono scritti nel codice genetico più che nel codice storico-sociale, anzi il riconoscimento della umana determinazione biologica, della «condizione umana» come necessità corporea e processo materiale di sviluppo ed entropia, questo riconoscimento è esso stesso il risultato di una sviluppo sociale e storico, di una cultura e di una classe.4

Fortini ritiene che ogni esperienza di vita umana e «biologica» non è scritta solo nel personale codice genetico dell’individuo, ma anche e soprattutto in quello storico-sociale. Ciò significa che il «naturale» delle vicende intime di ognuno fa sempre parte di un più ampio contesto culturale ed è un «segno umano-storico» che può essere interpretato e trasmesso in eredità alle generazioni successive affinché possano confrontarlo con il proprio. Si mantiene in vita, così, la possibilità di essere compresi:

Non è vero, insomma, che le generazioni non comunichino tra loro perché ognuna di esse sperimenta in proprio taluni eventi capitali e inevitabili e a tutte comuni, le cosiddette «prove della vita»; perché, a partire da uno schema certamente comune, quelle esperienze assumono valori e forme e significati diversissimi proprio a seconda del contesto cultuale e dell’apparato di interpretazione che le accompagna e circonda. Se guardo alla adolescenza di mia figlia e dei suoi coetanei, certo non posso impiegare come campo e strumento di comunicazione il ricordo delle esperienze vissute quando avevo la loro età, tanto più incomunicabili quanto più biologiche, ma potrò bensì servirmi della interpretazione del contesto culturale in cui le avevo vissute e proporlo ad essi perché lo confrontino col proprio. Adempiendo così al fondamentale compito dei «padri».5

Quindi la difficile operazione di interpretare e trasmettere il proprio codice culturale, dal momento che è in esso che affonda le radici l’unica vera incomunicabilità, è l’arduo compito cui sono chiamati a rispondere i padri, compito che risulta ancora più arduo, precisa Fortini, «in regime di grandi mutazioni come il presente». Eppure, attraverso la «grammaticalizzazione» dell’esperienze di vita in termini storici, è possibile impegnarsi a trasmettere anche l’ indicibile. Si tratta, quindi, di inserire il dato biologico e privato in una prospettiva storica più lungimirante che gli attribuisca un significato alla luce non solo di quello che si è, ma anche e soprattutto di quello che si è chiamati a fare affinché sarà.

Il fischio del merlo, il «non detto di una condizione naturale» non può negarsi come alterità conoscibile se si impara il «linguaggio straniero» della storia passata. Si è detto che il signor Palomar «non è di coloro che sanno, ascoltando un verso, riconoscere a che uccello appartiene» ed egli avverte «questa sua ignoranza come una colpa»; ebbene il dovere di ogni padre che voglia scongiurare il rischio di una colpa simile consiste nel saper ordinare e ricondurre il flusso caotico di «eventi naturali» provenienti dal passato alla propria matrice storico-culturale, così da poter lasciare un’eredità a coloro che verranno. I giovani devono capire che «quanto essi ritengo naturale non lo è, che ogni segno è umano-storico e che quindi può-deve essere mutato».6

Considerando che Fortini riconosce l’effetto più destabilizzante della mutazione proprio nella perdita di una «memoria volontaria» che rinsaldi il legame tra generazioni, è evidente la corrispondenza con il discorso finora affrontato. Il dato biologico spogliato della sua veste storica può essere visto come l’incomunicabile della memoria involontaria che torna «a spasmi» dal passato, irrelato e privo di significato. È la traccia di un percorso privato e frammentato che nulla può insegnare ai posteri senza l’intervento chiarificatore della dimensione pubblica, dell’informazione storica che è, prima di tutto, scelta consapevole di un senso, o meglio, detto in termini fortiniani, di un ricordo.

Quando Palomar «segue il filo dei pensieri risvegliati dal canto degli uccelli» si dice che «la sua vita gli appare un seguito d’occasioni mancate»7 e sembra quasi essere diventato protagonista di un altro potenziale romanzo sulla memoria involontaria; incapace di classificare i versi dei volatili con esattezza scientifica, e quindi di decodificare i fenomeni naturali in una «sovrastruttura» storica, cade vittima di una memoria inconscia che gli pone davanti una sequenza sconnessa di occasioni mancate. Nella confusione babelica di suoni e versi che il presente gli offre, e che non si traduce in una sinfonia a tutti comprensibile, l’unico passato che può ritrovare è quello approssimativo di una dimensione privata, involontaria e muta.

2. È nel saggio del febbraio 1982, Il controllo dell’oblio, che Fortini approfondisce il discorso sulla memoria. La mutazione che ha interessato gli anni successivi al miracolo economico è stata da lui ribattezzata «surrealismo di massa».8 Un’avanguardia che diventa di tutti, e i cui dettami sono ormai pratiche comuni consolidate a livello di massa, viene automaticamente privata delle sue potenzialità sovversive, così come la sua carica rivoluzionaria non può che essere disinnescata. L’arma più potente che una mutazione di tale portata fornisce alla coalizione dei poteri politici ed economici del capitalismo multinazionale, al fine di neutralizzare ogni possibile opposizione al sistema da parte dell’individuo, è proprio l’interdetto della memoria. Quest’ultimo, inteso come bisogno collettivo di oblio omerico, è il più potente instrumentum regni attraverso il quale si assume il controllo delle coscienze e del consenso.

Fortini sottolinea il mancato passaggio dell’esperienza degli adulti alle nuove generazioni interpretandolo come un «rifiuto di crescita» da parte dei padri-adolescenti. Proprio il non avere alle spalle una storia da ricordare contribuisce a lasciare l’individuo in balìa della dimenticanza e della cosiddetta «memoria involontaria»; citando Jacques Le Goff, Fortini ricorda che attraverso «il controllo dell’oblio» le grandi potenze riescono a privare l’individuo del senso di una temporalità collettiva che lo aiuterebbe a rafforzare la percezione della propria identità e ad inserirsi con maggior responsabilità e spirito critico nel contesto sociale che lo circonda. Ma la «memoria volontaria», che Fortini chiama «ricordo», non è solo conoscenza consapevole del passato, è anche la prima necessaria tappa verso il futuro; lo stesso Le Goff scrive:

La memoria alla quale attinge la storia che a sua volta la alimenta mira a salvare il passato soltanto per servire il presente e il futuro. Si deve fare in modo che la memoria collettiva serva alla liberazione, e non all’asservimento, degli uomini.9

Al contrario l’oblio indotto serve proprio a facilitare la manipolazione delle coscienze da parte dei poteri e ad annebbiare l’immagine di un ipotetico futuro. Anche per Fortini il passato non può essere ridotto a «pagina chiusa» ma va affrontato «a partire da un futuro prossimo o da una meta»;10 infatti è solo garantendo ai giovani una continuità con la storia che li ha preceduti che si può offrire loro la possibilità di una differenza nell’avvenire. Altrimenti l’oblio del passato comporta inevitabilmente l’oblio del futuro. Fortini sa, inoltre, che la moderna realtà dei consumi, con le sue innovazioni tecnologiche, ha contribuito non poco a svilire la funzione edificante del «ricordo».

Ebbene, quel che qui posso enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare, è che il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi della emergenze della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo».

Invece di ricordare, si gestiscono episodi di memoria involontaria preconsci o subliminali. Essi vengono così adibiti ai piccoli cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione, a delizie coatte, a forme degradate di mistica.11

Più che noto è il discorso marxiano sulle forme di esistenza alienata causate dai ritmi della vita di fabbrica; nella realtà contemporanea si ripropone un simile stato di alienazione dovuto tuttavia non alla ripetitività meccanica del lavoro, bensì al fatto che le fabbriche moderne e le comunicazioni di massa scandiscono, attraverso gli stati inconsci della memoria involontaria, perfino i tempi della vita privata. Inoltre il mercato multinazionale, producendo anche merce simbolica, aumenta sempre di più la distanza tra l’operatore e l’esito dei suoi automatismi, promuovendo così l’annullamento di ogni «materialità ed esperienza sensibile».12

Se ne deduce che l’ostinata rinuncia al «ricordo» implica una quotidianità minata dai frequenti soprassalti del subconscio, preda di una memoria involontaria che, al contrario di quella proustiana, non nasconde le «vergini intatte» capaci di riportare al presente il tempo perduto, ma le «oscene meretrici mondane che ossessionarono gli antichi monaci penitenti»13 e che ancora oggi distolgono dal compito difficile di una responsabile consapevolezza. La spaccatura tra «ricordo» volontario e memoria involontaria si affianca a quella tra universo razionale e irrazionale che l’avanguardia surrealista voleva sanare e che adesso, invece, più forte che mai, è diventata attributo imprescindibile delle società contemporanee, una «giustapposizione schizoide» sfruttata dalle istituzioni:

Lo sviluppo contemporaneo non si è davvero limitato ad attrezzare un diverso paesaggio (come, un po’ ingenuamente, avevano previsto i futuristi) e neanche a diminuire (come avevano voluto i surrealisti) la distanza fra universo della coscienza e zone del preconscio. Con tutto questo si restava ancora nella solida, diurna terra; […] Si era ancora ben lontani da quella giustapposizione schizoide fra universo del «ricordo» (ossia della razionalità e della prestazione) e universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno). O, per meglio dire, tale giustapposizione, sempre presente, non era diventata, come oggi è, costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata.14

Questa è la modernizzazione secondo Fortini. Il vero esito del progresso tecnologico è nella espropriazione del «ricordo» e della storia che ha proclamato, a sua volta, il trionfo della «cultura del nullismo» in un mondo di servi e sonnambuli. L’universo della tecnica e della razionalità ha avuto come risposta un’irrazionalità diffusa e per questo del tutto impotente. Fortini sa che scagliarsi contro gli automatismi dell’inconscio significa andare contro due suoi maestri, per l’appunto Proust e Benjamin; eppure egli non può esimersi dal denunciare la profanazione della funzione costruttiva ed educativa del «ricordo» da parte dei potenti e invita a non ignorare la tradizione storica, la sola in grado di rinsaldare la catena di una memoria collettiva che esiga un patto generazionale solido e duraturo.

È importante soffermarsi a riflettere sulla connessione tra moderne tecnologie e oblio per comprendere quanto, oggi più che mai, l’universo della tecnica, con il quale non a caso proprio i giovani familiarizzano più facilmente (basti pensare alla recente discussione sull’utilizzo degli iPad nelle scuole), influenzi le modalità attraverso le quali questi ultimi si rapportano alla storia che li ha preceduti e gestiscono gli spazi riservati alla memoria volontaria. Il linguaggio dei media, ricorda ancora Fortini, ha fatto proprio il codice estetico del surrealismo ricorrendo al suo stesso repertorio onirico e accordandosi di conseguenza al ritmo intermittente e inconscio della memoria involontaria. Il total flow15 delle televisioni che incanta bambini e adolescenti assopisce in loro il «ricordo» ordinato e consapevole del passato, interferendo con ogni azione della vita quotidiana e dilatando al massimo lo spazio ebbro di una dimensione privata ormai impotente, sospesa tra pulsioni inconsce che si susseguono confusamente come una sequenza televisiva di immagini. ( Breton aveva definito il surrealismo «automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere il funzionamento reale del pensiero»;16 ebbene quest’ultimo viene ora scandito e colonizzato dal nuovo linguaggio surrealista delle comunicazioni di massa).

Quando la pretesa della tecnica è di sostituirsi all’insegnamento coerentemente organizzato delle tradizionali istituzioni addette all’educazione e all’informazione, scuole, giornali ecc., il risultato è una massa di giovani, o meglio una «amalgama» di giovani, preda del «sogno ad occhi aperti» di cui aveva parlato Andrè Breton, ma non nel senso, come lui aveva inteso, di un’efficace arma rivoluzionaria contro l’ordine razionale della borghesia, quanto piuttosto di un «sonnambulismo» che rende schiavi. Si torna così a sentir fischiare il merlo senza capirlo.

Torna l’auscultazione senza esito di un privato che è ormai zona di confine tra il sonno e la veglia.

È in questo modo che la legge dell’oblio, che è poi la legge delle carceri, i luoghi dove si dimentica e si è dimenticati (la parola francese oubliettes indica precisamente le prigioni segrete e sotterranee nelle quali venivano rinchiusi coloro di cui non si voleva serbare più alcuna memoria ed è significativo che Fortini lo ricordi parlando dei giovani detenuti della criminalità politica degli anni Settanta) riesce ad affermarsi. Il fascino che la dimenticanza può esercitare costringe, in realtà, alla più profonda e solitaria prigionia.

3.

Gli imbecilli dissacrino, è il loro mestiere. Capire che il riso comporta un grado elevato di complicità con il potere e l’ideologia dominanti, non è facile da concedere, ne convengo. Che il riso non castighi i costumi ma li confermi, è duro da ammettere. Ma è così. Il riso vale come critica solo se si aggiunge a una critica che non ride.

Non può sostituirla. Debbo sapere che la tirannide è tragica. Solo quando ciò è ben chiaro, come in Shakespeare o in Beckett, allora posso permettermi di far entrare i clowns.17

Si è detto che nel saggio I giovani secondo Calvino Fortini chiarisce qual è il dovere dei padri nella costruzione di un continuum storico che lasci un’eredità alle generazioni future: «grammaticalizzare» le esperienze «naturali» di vita in termini storici, ossia interpretare il contesto storico-sociale del loro vissuto e trasmetterlo ai giovani affinché possano confrontarlo con il proprio.

Nello scritto I giovani e lo scherno il senso direzionale del discorso si inverte e Fortini passa a specificare quale dovrebbe essere l’atteggiamento dei giovani nei confronti della storia dei padri.

La cultura dello scherno e l’abitudine a deridere il mondo degli adulti non sono che le armi attraverso le quali l’adolescente si difende da un passato che gli è rimasto estraneo e che di conseguenza avverte come minaccia all’affermazione del suo essere. Ma lo scherno dissacratore è anche il riso che esprime il «rifiuto nevrotico all’apprendimento»18 e per mezzo del sarcasmo che conferisce l’illusione della superiorità, al contrario dell’ironia che costringe a «mettere in discussione chi la pratica»,19 i giovani tentano di sottrarsi alla responsabilità di un confronto maturo con il passato. Essi tendono a concepire l’universo dei padri unicamente come insegnamento, e dal momento che l’insegnamento implica modello e imitazione, l’imposizione dall’alto di una norma è vista come pratica spersonalizzante che strappa a se stessi e alla propria identità. Ridicolizzare il mondo degli adulti, invece, consente di crogiolarsi nella convinzione, del tutto illusoria, di aver conquistato una «differenza» reale con la generazione passata. Ma la vera differenza, ammonisce Fortini, insieme alla piena coscienza di sé e di ciò che è stato, non si raggiunge con il riso canzonatorio, bensì solo fronteggiando l’ostacolo di un confronto «ad occhi aperti», indispensabile alla matura definizione di sé e alla proposta seria di un «contrario» che sia davvero realizzabile. D’altronde ogni pars destruens rischia di farsi risposta sterile e intransitiva senza l’operato della pars costruens; allo stesso modo un’identità che voglia definire i propri contorni non può scegliere di farlo ignorando lo sfondo storico su cui pretende di stagliarsi. Poter affermare «non sono come voi» implica una conoscenza dell’altro che lo scherno non può garantire. Deridere l’autorità vuol dire ribadirla in tutte le sue forme istituzionali. Eppure, avverte Fortini:

Dunque, prego, nessuno cada in tentazione di capire male: sappiamo ridere del sublime. Ma senza sconfessarlo.

Non dimentichiamo che la forza con la quale rifiutiamo qualcosa è proporzionale a quella con cui affermiamo l’esistenza del suo contrario; che il rovesciamento della norma indica la norma e può farla brillare di luce più forte; che ogni carnevale annuncia una quaresima e viceversa.20

È chiaro, quindi, perché il riso può valere come critica solo «se si aggiunge a una critica che non ride». Come avevano previsto Benjamin e Bachtin la «serietà del quotidiano», necessaria mediazione tra comico e tragico, non è sopravvissuta nel clima di totale derisione e orrore che il capitalismo tecnologico ha alimentato. Conseguenza allarmante della cultura dello scherno è il rimanere impigliati in uno stato adolescenziale continuo e ormai «reversibile» che legittima, dato il mancato passaggio all’età adulta, a ripercorrere gli stati acritici e «sonnambuli» della giovinezza. Reversibilità vuol dire ripetizione e la ripetizione, ricorda Fortini, è «il vero nome del vizio».21 È bene precisare, inoltre, che la moderna cultura dello scherno, insieme ai prodotti del «sarcasmo industrializzato», quali ad esempio dischi, fumetti, riviste pornografiche ecc., risente non a caso del repertorio del surrealismo che ha influito sempre di più nel codice estetico e morale della produzione del mercato capitalistico. È successo, dunque, che a seguito di questa degenerazione, le avanguardie storiche «hanno perso in mordente quel che si è guadagnato in diffusione». «Con che passione leggevate i dadaisti, non è vero?» – domanda Fortini ai giovani. Ma ormai quei vecchi codici non possono che risolversi nelle «adolescenze appassite» dei loro giovani eredi.

Eppure c’è qualcosa in grado di ristabilire il senso unico e irreversibile di un’esistenza che sia normale percorso di crescita: il lavoro. Ricordando uno scritto comparso su «Quaderni piacentini» in merito alla condizione del lavoro giovanile e al moratorium, Fortini riflette su come quest’ultimo stia negativamente influenzando l’affermarsi di una «giovinezza come paradigma»22 nelle moderne società frutto della mutazione. Il precariato ritarda o, peggio, annulla il naturale approdo alla maturità dell’età adulta lasciando nel limbo dell’incertezza e dell’inconsapevolezza un gran numero di giovani. La crescita tanto auspicata è di conseguenza inattuabile in una società dove si è infranto «il modello della irreversibilità delle età»,23 ossia dove anche i lavoratori adulti si trovano a vivere la precarietà dell’impiego e a retrocedere, quindi, verso le stesse incertezze dei più giovani. Il risultato è una «antropologia infantile»,24 se non addirittura criminale, che imprigiona gli individui nella gabbia di immaturità e impotenza così ben architettata dal mercato internazionale. Ma una società così organizzata è una società che non può responsabilizzarsi nell’amministrazione del presente e nel ricordo del passato. Gli interminabili precariati alimentano nei giovani «stati di atonia, ripetizione e futilità»25 che altro non sono se non anticipi di vecchiaia. Il sistema produce, sempre uguali a se stessi, «pensionati precoci» alle prese con lavori saltuari che non consentono alcuna professionalità.

Sforzo ostacolo necessità non sono solo nel lavoro mercificato; e non era difficile saperlo. Tutta una parte della nostra, chiamiamola così, cultura ha voluto invece identificare necessità con servitù, agonismo con concorrenza, durezza con virilismo, lotta con violenza; e il tutto è stato lasciato nelle premurose «mani sporche» dei politici. Avessero letta questa frase: «l’agire umano è anche il patire umano, dato che il patire, umanamente inteso, è un godimento proprio dell’uomo» scommetto che l’avrebbero attribuita a chiunque, non a Marx, che l’ha scritta nel 1844.26

Ciò che si rivela letale per una società strutturata ormai in disoccupazione è il «letargo di una tensione contro ostacoli veri».27 Il lavoro implica un processo di responsabilizzazione dell’individuo costretto a formare la propria identità nel luogo della necessità e dello sforzo che rende inevitabile lasciarsi alle spalle la cultura dello scherno fine a se stessa. L’agire umano è anche il patire umano, e il patire umano, quello umanamente inteso che può produrre qualcosa, è quello che sa riconoscere gli ostacoli anteposti al raggiungimento di una personalità adulta e che sa umilmente affrontarli accettando la logica di un sacrificio che, tuttavia, non sacrifica. Si divine vittime sacrificali solo quando la nuova cultura della mutazione diffonde a proprio vantaggio la convinzione che la necessità sia in realtà resa incondizionata ad uno stato di servilismo, che l’agonismo non possa che essere cieca concorrenza e che la lotta per affermare consapevolmente se stessi può sfociare solo in una spietata violenza.

L’aumento frenetico della competitività che interessa tutt’oggi il mercato del lavoro non è sinonimo di qualità, sembra piuttosto rievocare quella «corsa di topi culturale»28 che secondo Fortini ben descrive il processo di «snobismo di massa»29 dove ognuno sa di tutto un po’ senza in realtà conoscere niente. È l’obbligo inconscio ad eccellere che si trasforma, in atto, in «ignoranza volontaria».30

La situazione, che tutt’ora persiste, vede trionfare un’«area di antagonismo assoluto»31 dove ognuno è dichiarato nemico dell’altro ma dove «i nomi dei nemici»32 restano ignoti. Il giovane che voglia ritrovarsi in un contesto simile non può farlo nemmeno «in negativo», ossia riconoscendo coloro dai quali deve differenziarsi senza però sconsacrarli nel riso anarchico e inconsistente. L’assenza di ostacoli veri incoraggia il formarsi di una «periferia psichica»33 dove vengono rimosse, in atti di orrore e violenza, le tensioni reali che non si possono più conoscere; la realtà, come volevano i surrealisti, «è in fuga»; ma il sogno ad occhi aperti è stato invertito di segno ed è divenuto, ormai, l’incubo che inghiotte le nuove generazioni in stati irrazionali e confusi.

È dunque il lavoro che consente di rinsaldare la catena che unisce passato e presente, essendo il lascito che ogni padre deve, storicamente, al proprio figlio. Se esso rende possibile l’accesso all’età adulta, permette anche di ristabilire l’«irreversibilità» dell’essere umano, sia nel corso naturale della vita come individuo che dall’infanzia giunge alla maturità, sia nella gestione del suo passato come individuo in grado di «ricordare» volontariamente e di non lasciarsi invece ripercorrere, lui stesso, dalle disordinate interferenze della memoria involontaria, subendole, così, allo stesso modo dell’adolescente imprigionato negli spazi anonimi del suo inconscio, dilatati all’infinito a colpi di televisione.

Il lavoro, quindi, si rivela arma efficace contro i poteri «lotofagi» del capitalismo multinazionale che mirano ad annebbiare il ricordo dei padri per rendere schiavi i giovani orfani di storia. D’altronde solo chi è diventato adulto impara a riconoscersi nel ricordo del passato.

Obbligo morale, di ieri e di oggi, è capire che il lavoro è prima di tutto definizione di un’identità, argine al dilagare del non-senso, contesto per vite sospese, cultura del serio da opporre alla cultura della beffa, accettazione di un ostacolo reale che nel momento in cui non teme di ammettere la «tragedia», non solo può permettersi di ipotizzare i clowns, ma può anche evitare la catastrofe.

Penso ai tanti giovani che compiono le fatiche dell’apprendimento e cercano con la mente gli ostacoli da combattere. Non con le parole di un vecchio potranno aprirsi una via nel bosco del passato. Come sempre accade dopo una grande mutazione, dico quella degli ultimi anni, non possono sapere di avere diritto a un passato. Né tantomeno che la via ad esso è la medesima che può portare a un futuro. Li aspetta, se sapranno resistere alla cultura dello scherno, la capacità di commozione per la grandezza, di stupore, di ammirazione, di giudizio. E invece della violenza della risata falsamente liberatrice, potranno incontrare l’ironia che si accosta alla verità senza fare rumore.34

È un altro punto su cui insiste Fortini: il ricordo del passato come unico accesso al futuro. Le «memorie» sono sempre indispensabili al «dopodomani». Ma cosa commuove oggi un ragazzo di trent’anni? È la domanda che Fortini si pone ricordando l’emozione, sua e di Pasolini, nel vedere Roma città aperta.35 Quale grandezza può instillare nei giovani la capacità di commozione che preserva dalla banalità della cultura dello scherno? Forse il vero interrogativo da porsi è questo: cosa può ancora stupire, suscitare ammirazione? Si sa, del resto, che in assenza dei paradisi naturali, subentrano quelli artificiali. E il gesto di chi si droga non è forse, come sostiene Fortini, diventato simbolico di tutti noi? La sua pietà è per lo spettacolo dei tanti ragazzi «già morti dentro gli occhi, di paura e consenso alla mafia e ai poteri»,36 per i giovani che voltando le spalle al passato ne diventano loro stessi i fantasmi.

Più il sistema si complica di tacite manipolazioni, più è difficile sorprendere i fili del burattinaio e indicare alle nuove generazioni qual è il «muro del rischio»37 da abbattere oltre il quale si può guardare avanti in piena consapevolezza. Quando Fortini immagina, con una matita, di ostacolare il percorso di una formica accade che quest’ultima subito cambia direzione e se la matita torna ancora ad ostacolarla lei, di nuovo, si volge da un’altra parte. È quello che succede nel formicaio delle moderne società industrializzate quando si ignorano i veri ostacoli da affrontare, quando non si conosce il muro del rischio che obbliga alla logica della necessità e allo sforzo della crescita. Ciò che si può offrire ai giovani, in tali condizioni, è un delirio insensato di direzioni che imprigiona in comportamenti coatti e schizoidi. Fortini, inoltre, non dimentica che tutto questo è stato causa di una crescita esponenziale del numero di suicidi, soprattutto negli anni Settanta quando i più giovani credevano, scegliendo deliberatamente la morte, di poter diminuire l’infamia della loro società. Per questo motivo Fortini si esprime Contro la retorica del suicidio;38 egli ricorda le parole di Goethe in merito al suicidio di una giovane donna per amore: «Buona notte, angelo, si abbia riguardo e resti a casa. Questa mestizia invitante ha una pericolosa attrazione al pari dell’acqua, e le stelle del cielo dall’una e dall’altra riflesse ci affascinano. Buona notte».39 L’invito è ad avere riguardo, a non lasciarsi tentare dal suicidio e dall’omicidio, ossia dal fascino della sconfitta e ad impegnarsi, invece, nella creazione di un senso di rivolta maturo e responsabile. La risposta più retorica che si possa dare a un sistema opprimente è proprio la morte volontaria; essa rinuncia anche a quel minimo di resistenza illusoria che la cultura dello scherno sembrava offrire.

È chiaro come il discorso sul moratorium si riallacci a quest’ultima riflessione: il precariato del lavoro diventa precariato di vita e rende i giovani «emigrati interni», stranieri nel loro stesso Paese; ma il grido di Fortini non può rimanere inascoltato: «Abbiamo “riguardo”, dobbiamo esserci tutti!».40 L’«amalgama» ha quindi ragion d’essere, ma non come formicaio che offra terreno fertile all’attecchire dei processi alienanti del «surrealismo di massa», quanto piuttosto come coalizione che obbliga ognuno a fare la sua parte, a riconoscere se stesso nell’altro e, di conseguenza, il diritto di ciascuno ad esserci.

Che i padri ricordino ai giovani che devono esserci tutti, affinché essi possano dire: «vogliamo esserci tutti!».

Note

1 F. Fortini, A un giovane, in Id., Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003. Si tratta di due versi danteschi: Inf. XIX, 62 e Inf. XXIX, 12.

2 I. Calvino, Il fischio del merlo, in Id., Palomar, Milano, Mondadori, 1994, p. 26.

3 Ivi, p. 28.

4 F. Fortini, I giovani secondo Calvino, in Id., Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985, p. 122.

5 Ibidem.

6 Ivi, p. 123.

7 I. Calvino, Il fischio del merlo, cit., p. 26.

8 F. Fortini, Il movimento surrealista, a cura di L. Binni, Milano, Garzanti, 1977.

9 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1982, p. 6.

10 F. Fortini, Ad un buon uso del passato, in Id., Insistenze, cit., p. 23.

11 F. Fortini, Il controllo dell’oblio, in Id., Insistenze, cit., p. 134.

12 Ivi, p. 135.

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 134.

15 Così lo definisce R. Williams in Television: Technology and Cultural Form, New York, Schocken Books, 1975, trad. it. Televisione. Tecnologia e forma cultural: e altri scritti sulla tv, a cura di E. Menduni, Roma, Editori Riuniti, 2000.

16 Manifesti del surrealismo, a cura di G. Neri, Torino, Einaudi, 1966, p. 30.

17 F. Fortini, Il riso conferma i costumi, in Id., Saggi ed epigrammi, cit.

18 F. Fortini, I giovani e lo scherno, in Id., Insistenze, cit., p. 125.

19 Ivi, p. 127.

20 Ivi, p. 129.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 126.

23 Ibidem.

24 Ibidem.

25 Ivi, p. 128.

26 Ivi, p. 126.

27 Ivi, p. 129.

28 F. Fortini, Contro lo snobismo di massa, in Id., Un dialogo ininterrotto, interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Boringhieri, 2003, p. 549.

29 Ibidem.

30 Così s’intitola una sezione di Insistenze.

31 F. Fortini, I giovani e lo scherno, cit., p. 127.

32 Così s’intitola un’altra sezione di Insistenze.

33 F. Fortini, I giovani e lo scherno, cit., p. 127.

34 Ivi, pp. 129-130.

35 L’episodio è raccontato in F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.

36 F. Fortini, Esecuzioni, in Id., Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 14.

37 F. Fortini, Il muro del rischio, in Id., Insistenze, cit., p. 15.

38 F. Fortini, Contro la retorica del suicidio, in Id., Insistenze, cit., p. 158. Le parole scritte da Goethe a Charlotte von Stein, il 19 gennaio 1778, si riferiscono a Christel von Lassberg, una giovane donna che si era tolta la vita per amore gettandosi nellefredde acque del fiume Ilm, in prossimità della casa di Goethe.

39 Ibidem.

40 Ivi, p. 161.