Franco Fortini lettore della Historia duobus amantibus
Sabrina Pirri

Il 15 maggio 2022 ho avuto il piacere di parlare di Franco Fortini nel cortile di Palazzo Piccolomini a Pienza, offrendo al pubblico presente in quel luogo così suggestivo un suo testo poco noto: la prolusione con cui nel luglio 1976 inaugurò i corsi estivi della Scuola di Lingua e Cultura Italiana per stranieri di Siena. Sebbene non fossi stata presente, ricordavo di aver visto il manifesto per strada; nel 2019 il testo della prolusione1 mi è stato fornito dal dott. Luca Lenzini, del Centro di Ricerca Franco Fortini dell’Università di Siena, che ringrazio.

Ebbene è il 15 luglio 1976, ben 46 anni fa, quando Fortini, dopo il saluto del prof. Mauro Barni, Presidente, che comunicava l’avvenuto passaggio legislativo ad Università della Scuola, giunta al sessantesimo anno di vita, legge le pagine dedicate alla Historia duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini. Ci troviamo nell’Aula magna del rettorato, foderata di marmi verdi e bianchi, con la scritta latina sul soffitto, risalente al 1938, che Fortini non perde l’occasione di menzionare in relazione alla sua giovinezza («erano gli anni di un’altra tirannide, quella che parla latino sopra la mia testa»).

Fortini inizia con una recusatio, affermando: «Questa città conosce troppo bene il suo passato perché venga un foresto, e per di più fiorentino a rammentarglielo»; ma subito dopo rivendica il suo antico amore per Siena, nato durante gli anni giovanili, e l’antipatia per Cosimo de’ Medici. Giungono anche qui, dunque, gli echi del suo rapporto difficile e doloroso con la sua città natale, Firenze, cui aveva dedicato nel 1939 La città nemica dal forte timbro dantesco e infernale:2

Quando ripeto le strade
che mi videro confidente,
Strade e mura della città nemica;

E il sole si distrugge
Lungo le torri della città nemica
Verso la notte d’ansia;

Quando nei volti vili della città nemica
Leggo la morte seconda,
E tutto, anche ricordare è invano;

E «tu chi sei», mi dicono, «Tutto è inutile sempre»
Tutte le pietre della città nemica,
Le pietre e il popolo della città nemica,

Fossi allora dentro l’arca di sasso
D’una tua chiesa, in silenzio,
E non soffrire questa luce dura

Dove cammino con un pugnale nel cuore.

Inizia dunque la sua prolusione, Fortini, ricordando i 500 anni della prima edizione italiana della novella, uno dei primi testi stampati in Italia, dove la stampa era stata introdotta nel 1464 da tre collaboratori di Gutemberg, chiamati dal cardinale Nicola Cusano, e dove nel 1472 era stata stampata la Commedia dantesca. Con autoironia si schermisce, definendosi non certo uno specialista, ma un «divulgatore». Infatti nel 1968 erano usciti gli atti del convegno senese dedicato a Pio II nel V Centenario della morte; ma il docente Fortini è in realtà fiero del suo non-specialismo, che meglio risponde alla sua idea del valore e del senso e del dovere di una figura intellettuale poiché gli garantisce uno sguardo vasto non solo sulla disciplina, ma sul sistema delle discipline, sull’organizzazione e la trasmissione del sapere e sulla realtà presente.

Non si comprende la storia che egli scrive nella allora rozza e povera Vienna, pensando alla sua piccola e splendida patria senese. Né bisogna dimenticare il suo carattere di instancabile viaggiatore, che, lasciata Siena, fu a Pavia, Milano, Genova, Arras, visitò l’Inghilterra e la Scozia, valicò il s. Bernardo e il Gottardo, subì tempeste navigando nel mare del Nord e conobbe e visitò la Boemia, Francoforte, Norimberga, Vienna, Trieste, Napoli, fino a morire ad Ancona nel 1464. […] Una storia come quella dovette certo interessare anche e soprattutto chi non sapeva di latino per la curiosità implicita nell’esaltazione di un adulterio, compiuta da chi, solo 14 anni più tardi, sarebbe stato vicario di Cristo.3 Questo può forse spiegare il ritmo veloce della traduzione in quasi tutte le lingue di Europa. In italiano la tradusse subito Alamanno Donati, dedicando la traduzione a Lorenzo de’ Medici, poi venne tradotta in francese (sia in versi sia in prosa) e nel secolo seguente in tedesco: […] Gentile e veridica storia di due amanti Eurialo e Lucrezia, con tutte le particolarità dell’amore, dolcezza e amarezza, piaceri e dolori.

[…] Cos’è dunque questa Historia? È un’epistola e si presenta come una lettera da Vienna che Enea Silvio Piccolomini scrive al consulto senese Mariano Sozzini (o Socini).

La storia viene presentata come vera (et non finxi) accaduta nell’inverno 1432-33, quando l’imperatore Sigismondo, in viaggio verso Roma per esser incoronato da Papa Eugenio IV, sosta a Siena col suo seguito, di cui fa parte Eurialo (che viene identificato con Kaspar Schlick). A questo punto, trovati degli intermediari, il racconto si fa epistolare, secondo il modello ovidiano delle Heroides. Gli amanti si scambiano complessivamente otto lettere, quattro per ciascuno. Ricche di citazioni mitologiche quelle di Eurialo, cui Lucrezia risponde con altrettanto numerosi riferimenti classici. Eurialo replica: «Se volevi diminuire il mio amore, quella tua cultura avresti dovuto non mostrala»: «Non oportuit culturam tuam ostendere».

Si noti (e qui mi rivolgo in particolare ai giovani studenti) che nel frattempo Eurialo aveva provveduto ad imparare un po’ di italiano. Il giovanotto era molto preoccupato, «angebatur quia sermoni italicis nescius era», e si era dato a studiarlo «ferventi studio»: l’amore lo faceva diligente e, dice il nostro autore, in poco tempo l’ebbe imparato.

Quest’appello di Fortini ai giovani studenti è pedagogicamente interessante: l’apprendimento è determinato dalla motivazione. E quale motivazione più forte dell’amore? Eurialo deve lasciare Siena per due mesi, accompagnando il sovrano a Roma. Lucrezia si chiude in casa disperata fino al suo ritorno, quando, travestito da scaricatore di grano si avventura nella casa di Lucrezia, coperto da un sacco e riesce ad incontrarla. Quando lei lo riconosce sotto quel vile abito è la prima volta che i due possono abbracciarsi. Sopraggiunge il marito che sta cercando un documento. Fulminea decisione di Lucrezia: «in periculis subitaneis mulierum quam virorum promptius ingenium» (cioè: quando ci sono delle decisioni da prendere sul momento l’intelligenza delle donne è superiore a quella degli uomini).

Lucrezia lascia cadere dalla finestra una cassetta che contiene dei preziosi documenti e «siccome le case all’uso toscano» sono piuttosto alte e i gradini da scendere molti, Eurialo fa in tempo a nascondersi altrove. […] Ma Lucrezia doveva essere davvero affascinante.

Infatti si innamora di lei anche un cavaliere ungherese, la cui lettera d’amore finisce nelle mani sbagliate, prima quelle di alcuni studenti e infine quelle del marito:

Qui il Piccolomini certo rammenta la sua gioventù di studente e il conflitto che oppose gli studenti senesi agli uomini d’arme germanici di fronte alle ragazze e alle maritate della città. Gli studenti erano «genus pergratum nostris matronis», ma poiché alle donne piace più «armorum strepitus quam litterarum lepor» – il frastuono militare piace più della finezza intellettuale – gli studenti finirono per vendicarsi e la lettera amorosa dell’ungherese perviene al marito di Lucrezia, che minaccia vendetta e le fa una scenata.

Dopo altre disavventure, Eurialo si rivolge come intermediario a Pandalo, cugino di Menelao, promettendogli di richiedere per lui presso l’Imperatore il titolo di conte Palatino. Dunque Pandalo «lenocinio nobilitatus est»: «si ebbe il titolo nobiliare col mestiere di ruffiano». Ma l’Imperatore sta per tornare a Roma, e dopo l’incoronazione ci sarà il ritorno. Eurialo segue l’imperatore a Roma, cade gravemente ammalato, e al ritorno a Siena, annuncia all’amata la propria partenza. Lucrezia è alla finestra, mentre lui passa a cavallo. Piangono tutti e due, come se gli avessero strappato il cuore dal petto. «Lucrezia si veste a lutto e si lascia morire di disperazione»: appresa la triste notizia, Eurialo prende il lutto fin quando l’Imperatore gli trova moglie. La morale è: «in amore l’aloe è più abbondante del miele, le amarezze abbondano più delle dolcezze».

Questa storia non la si capisce se non ci si rende conto che è stata scritta nell’autunno del Medioevo, e che Lucrezia sta tra Boccaccio e Machiavelli. Questi elementi tardogotici sopravvivono proprio nell’uomo Enea Silvio Piccolomini. Vi si può allegare la ben nota avversione che Pio II portò al ceto mercantile, alla simpatia manifesta che ebbe invece per il mondo dei monarchi e dei rapporti cavallereschi, il che giustifica il tentativo, alla vigilia della morte, di organizzare una crociata. Tuttavia, osserva Fortini: «il senso ultimo di questa narrazione ci lascia perplessi. Qualcosa, leggendo ci sfugge: «medio de fonte leporum surgit amari aliquid», «dalla fonte festosa nasce qualcosa di amaro» (Lucrezio, De Rerum Natura, IV).

Avviandosi alla conclusione Fortini allarga lo sguardo dalla novella, rivolgendosi ai giovani presenti:

i giovani come voi, che hanno davanti a sé la straordinaria pienezza naturale e storica della civiltà toscana, dovrebbero saper cogliere in queste quaranta pagine del grande umanista, qualcosa di agro, di inquieto, starei per dire di tormentato, di mancato e di contraddittorio. D’altronde Enea Silvio Piccolomini a ventidue anni non aveva forse ascoltato predicare la quaresima, nel Campo di Siena, da Bernardino degli Albizzesi? A cinquantasei anni non sarà lui a proclamare santa la tormentosa Caterina Benincasa?

Passa poi a parlare di Siena e delle Logge del Papa:4

nella snellezza degli archi che il papa dedicò gentilibus suis Picolomineis c’è qualcosa di fin troppo leggero e mai veramente saldo. E nel ’400 senese mi è parso sempre di avvertire, frutto che non può giungere a maturazione, quasi l’incompiutezza che è il fascino celato di questa città, della sua cultura, del suo passato, di fronte alla messe anche troppo matura di Firenze.

Dunque Fortini conclude contrapponendo di nuovo, come all’inizio, le due città: Siena e Firenze, ribadendo la sua preferenza per la prima.

Note

1 F. Fortini, Historia de duobus amantibus, in «Annuario Accademico 1976-1982», Siena, 1983, pp. 21-32 [prolusione del 15 luglio 1976].

2 Rimando al lavoro di Luca Daino: Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Milano, Unicopli, 2013.

3 Siena come Civitas Veneris: questa definizione, che potrebbe risultar quasi sacrilega e comunque opposta a quella ufficiale di Civitas Virginis, non è un unicum: basti pensare a che ne fu l’esplicito cantore: Antonio Beccadelli, detto il Panormita, fu a Siena nei medesimi anni in cui Enea Silvio frequentava le lezioni di Mattia Lupi, docente nello Studio Senese nel biennio 1423-24. Ebbene contro Mattia Lupi il Panormita vergò ben undici epigrammi, tra cui il seguente: «Annua publicitus tibi larga pecunia, Lupi, / Solvitur, et pueris quot legis ipse? Tribus!» («Lupi, con soldi pubblici ricevi ogni anno un grosso stipendio: e a quanti alunni insegni? Tre!» Cfr: Il Panormita, Ermafrodito (Einaudi 2017) a cura di Nicola Gardini.

4 Confesso di aver sottoposto questa frase di Fortini al giudizio di Alessandro Angelini, curatore del volume Pio II e le arti (2005) che a p. 21 scrive: «si ha l’impressione che la loggia vicino a S. Martino fosse solo il primo elemento di una serie di edifici che il papa intendeva costruire in quel quartiere della città nella quale dominava la sua consorteria. Tra il 1459 e il 1460 Pio II tentava infatti di imporre la propria influenza sulle istituzioni senesi che con il governo dei riformatori avevan voltato le spalle alla nobiltà. Fu allora che il papa abbandonò quasi del tutto le sue speranze e le ambizioni coltivate a Siena e di conseguenza concentrò le sue mire edilizie su Corsignano». Ebbene, Angelini mi ha confermato che le parole di Fortini gli sembran del tutto adeguate a cogliere le caratteristiche di un progetto piccolomineo per Siena che non ebbe poi pieno svolgimento per le questioni politiche cui accenna nel libro del 2005.