Eugenio De Signoribus,
L’altra passione. Giuda: il tradimento necessario, Novara, Interlinea, 2020.
Chi tradisce è a noi vicino. Solo un povero illuso direbbe “il mio nemico mi ha tradito”, senza scopo. Al contrario un traditore è un falso fratello. Si tradisce per l’appunto chi si ama. Si è traditi da chi ci traduce (ecco il famoso «traducteur traditeur» di Du Bellay, contro Barthélémy Aneau, diventato proverbiale in italiano). Il tradimento è una modalità guasta o stantia, se così vogliamo dire, dell’amore. Di per sé queste realtà ci sembreranno rivoltanti; e dolorose. Lo sono senz’altro. Ma la figura di Giuda, la sua vicenda del «tradimento necessario», la sua misera fine sono oltremodo conturbanti, se appena si presta una qualche verità al racconto complessivo – a volte eclettico – della condanna e messa a morte di Gesù figlio di Maria. Per De Signoribus, attento lettore della Bibbia (Antico Testamento e Vangeli, compreso l’apocrifo secondo Giuda), c’è nella storia del tradimento un profondo enigma, sul quale pesantemente incombe il silenzio del Dio degli ebrei, il terribile Yahweh, l’impronunciabile YHWH, il Deus sabaòth. Tanto più pesante silenzio in quanto coinvolge e ferisce colui che sa di essere suo figlio, il Cristo signore condannato a «espiare le colpe degli uomini, i loro tradimenti, le loro debolezze» (p. 63). Un uomo – Ecce homo – deve infatti morire. E una sorta di buco nero, che la rima più semplice a volte ribadisce (p. 43):
dove s’ingarbugliava il pensiero
di fedeltà e tradimento
perché proprio lui?
perché tanto sgomento?
Ora, questo nuovo libro di De Signoribus si presenta quasi come un
carnet di lavoro, traccia consistente di due insiemi poetici,
Sui passi della Passione (2018) e
L’altra passione (2011-2018), seguiti ognuno da una
Nota-congedo in versi. Un
Congedo finale e una
Postilla, con la postfazione
Per un commento di Stefano Verdino (pp. 95-106), testi tutt’altro che marginali, integrano e chiudono il complesso dossier dell’opera multipla. Di per sé tale forma articolata, sofferta, dialogica appare conturbante almeno quanto la precedente
Stazioni,
1 detta dall’autore «emozionato lavoro», e sigillata già da un
Congedo quasi antesignano della futura raccolta:
l’offesa genera chiose a catena
(meno la non risposta)
La «non risposta», illustrata qui, nelle
Note a
Sui passi della Passione, dalla frase dell’anziano parroco – «Dio e basta!» – risulta di fatto incomprensibile a chi non abbia fede, se non in un dio, almeno in una trascendenza e misericordia impersonate nel «Volto di Cristo e Maria» (p. 82). Davanti alla «voragine» della propria (e universale) «colpa» (p. 27), da pochi sofferta quanto dall’autore De Signoribus (ma non affatto a lui singolare), forse ci può aiutare l’enigma della più alta poesia: come, se è lecito scriverlo senza ingenuità, quella massima dell’Alighieri. All’angosciosa domanda di Cristo al Monte degli ulivi, «Perché l’obbedienza alla consegna è stata più forte dell’obbedienza alla giustizia, all’amore verso tutti?» (p. 24), il poeta medievale rispondeva che la consegna è giustizia, ed amore, anche laddove noi non possiamo comprenderlo (
Par. XIX, 86-88). Per chi legge – e traduce – oggi un tale testo, ciò non può che rimandare alla sostanziale verità
alogica della poesia, certamente non esente da ansia “mortale”, come in questo caso, o da rabbia impotente come si vede in modo esemplare nell’opera di Pasolini. Giovanni Raboni, nella sua
Rappresentazione della Croce, fa dire a Giuda, rivolto a Maria: «una cosa, in nome di questo amore / che così diversamente ci unisce, / te la voglio promettere: la parte / che mi è stata assegnata / la farò fino in fondo». Il dolore di Maria, nel capitolo «La visita» de
L’altra passione, le permette di compiere sola un estremo atto di compassione verso il corpo morto di Giuda: per De Signoribus, espressione questa di un intimo accettato «stigma-puer della pietà e dell’interrogazione» (p. 68). È quanto, a mio sentire, di meglio si possa attribuire per l’appunto al fare e pensare poetico, in tempi di dolore. Come il nostro oggi.
Colpisce ad apertura del libro il tono realistico, nell’accezione antica del termine, di una voce dolente sorretta, come accennato sopra, da parche figure metriche o retoriche:
il chiodo è battuto
il chiodo trapassa
la carne e il legno
e infissa l’eterno
il cielo è in attesa
ed è attesa del cielo (p. 7)
i fedeli malfermi
gli ipocriti con gli ori
vesti di imperatori
più nudi dei vermi (p. 9)
– ove sarebbe difficile non osservare le ripetizioni, il chiasma, i parallelismi, le rime e/o assonanze, l’anisosillabismo, l’uso della comparazione (ecc.) di tipo sostanzialmente pre-dantesco, più jacoponiano che guittonesco senz’altro, anche se la condanna morale e politica di Guittone d’Arezzo non è assente dalle “invocazioni” dell’uomo poeta ferito. Il quale infine, come l’Ungaretti del Dolore, dichiara (in explicit, e solo tra parentesi):
(Sono in quel grido strozzato).
La dimensione icastica di una poesia pensosa, a volte gnostica com’è quella di De Signoribus, è portata qui al suo apice. E, a parte i numerosi Compianti italiani dei secoli XV-XVI, se si volesse cercare una seppur vaga
correspondance visiva, forse più vicina al nostro tempo, ma senza ragionata pertinenza cronologica (né di geografia), penserei ai Cristi umiliati di Georges Rouault o alla
Via crucis di Gabriel Saury per la chiesa di Orchamps-Vennes (Doubs), stazioni scultorie di terracotta a lungo censurate dalla gerarchia cattolica (1949).
2 Non a caso, forse perché anche questi artisti avrebbero potuto dire, anzi gridare: «Non ho nulla da chiedere, nessuno può riparare la mia vita!» (p. 83).
Eppure, alla fine, «La donna-madre» trasmette a tutti una pietà universale, quindi anche laica, mentre il suo doppio sublimato de «La Madre-madre»
nel suo pianto s’ammuta
[…]
perché chi ha peccato attenda
il suo sguardo mite
la sua mano tesa (p. 54)
verso una forma di apertura nonostante tutto, come, ancora una volta, nella Lauda di Jacopone da Todi: «Mamma, perché te lagni? / Voglio che te remagni, / che serve mei compagni / ch’êl mondo aio aquistato»… Quasi rassegnazione alla presenza del male, che i poeti purtroppo tendono ad assorbire tutto, come l’io poetico confessa alla fine, nel Congedo di chiusura apertamente lirico:
non posso far finta di niente
su niente, neppure volendo
non posso, assorbo ogni cosa
tormento di macchia spugnosa (p. 87)
Il male, quasi anticipato in questi tempi di peste, dilaga però sempre e dappertutto. Ancora in un inedito recente, De Signoribus di nuovo si chiede: «tutto questo strazio, perché? / è servito al nostro vivere?». Il male, oggi e ab origine, sembra onnipresente:
la vena della vita
è intasata di pena
[…]
ma la vena terrena
è marchiata di pena (pp. 11-12)
E la corrispettiva prosa ribadisce: «Non c’è speranza» (p. 28), così come la sezione de L’altra passione fa da eco (o magari anticipava già nel 2011, come non possiamo sapere):
c’è traccia del male
già dal primo momento (L’albero, p. 45)
La grandezza e dignità di questo nuovo libro poetico di De Signoribus risiede proprio, a mio sentire, nella sofferta ma ferma costatazione, più volte affrontata e ripetuta, del dilemma o contraddizione ineludibile tra pietà e condanna, innocenza e sentimento della propria colpa. Il dubbio viene a insinuarsi forse in modo definitivo, nella vasta allegoria delle Passioni, quando Giuda riceve dall’amato signore il boccone che lo designa agli altri discepoli in quanto traditore: ché il colpevole, anche nelle nostre moderne carceri, perde la sua personalità per diventare, appunto, il condannato, colui che «“sarebbe meglio […] se non fosse mai nato!” (Matteo 26, 24)» (qui a p. 31). Se, «dopo quel boccone, satana entrò in lui» (ibidem), lo possiamo capire forse perché col boccone sparisce la fede assoluta; Giuda dubita, e si sente – lui – designato, quindi tradito dal suo Messia e Signore. Il tradimento secondo, all’apparenza predestinato già, sarebbe allora la colpa insinuata del dubbio medesimo (e dal suo veleno). L’emarginazione di Giuda visto in quanto altro. L’impazienza di Lucifero. Quello che Dante (autore, narratore e personaggio) riesce a evitare, grazie al sostegno della sua vera “dolce guida”: per cui, infatti, è sempre giusto ciò che Lui vuole.