
Nella ripresa degli studi su Fortini ad opera della generazione dei figli e, più ancora, dei nipoti, la pubblicazione di Ennio Abate, esponente della prima, si situa in una regione particolare. Dopo l’avvio dell’ampia esplorazione filologica del poeta e del critico, per impulso importante del Centro Franco Fortini dell’Università di Siena, che ne conserva le carte, dopo lo studio sull’attività d’insegnante di cui si è detto in queste pagine, Abate rivendica in Fortini la connessione inscindibile tra pensiero critico, attività poetica e militanza per il comunismo. Conduce l’operazione su due piani: in sede di lettura del testo fortiniano e nella pratica in proprio di «intellettuale marginale», come si definisce, sulle orme di Fortini.
Sul primo versante, quasi subito denuncia nella nuova critica fortiniana un eccessivo sbilanciamento sul poeta a detrimento del militante: «entrambi – scrive in una lettera del 2000 al curatore del Meridiano, Luca Lenzini – ritagliate il Fortini poeta e sfumate il comunista». Non è difficile cogliere in questa posizione la doppia lettura di restaurazione capitalistica della fase storica e di risposta culturale difensiva con lo spostamento di Fortini a classico della letteratura. Il diario intellettuale di Abate propone su questo asse interpretativo documenti eterogenei concernenti sia Fortini (memorie di incontri; scambi epistolari; riflessioni su saggistica, produzione letteraria, militanza politica, biografia), sia confronti con la critica fortiniana (lettere, appunti, saggi), sia infine produzione propria (saggistica, scritti programmatici, poesia, narrativa). Il fatto che i testi provengono da riviste cartacee e online costituisce la ragione di superficie dell’effetto di provvisorio e discontinuo. D’altra parte, per ovvie ragioni di spazio e di coerenza tematica, non pochi scritti sono ritagliati da argomentazioni più estese, o rinviano a discussioni e confronti omessi, solo evocati dalle note con numerosi rimandi al sito dell’autore, avvalorandone in questo modo la caratteristica di “strumento d’uso”. Ma più intimamente tale “parzialità” è coerente con l’ispirazione di una militanza intellettuale il cui lavoro critico e artistico sia sempre in presa diretta con il contesto, proprio in nome della sua ineliminabile valenza politica. Frutto di questa scelta è anche lo sguardo su di sé, sul suo presentarsi, per dir così, fortiniano scalzo.
Se il Fortini privilegiato è quello della restaurazione capitalistica, succeduta negli anni Ottanta fino alla morte nel novembre 1994, non è solo dovuto al fatto di averlo conosciuto di persona nel 1978, ma anche e soprattutto perché l’autore trova più vicine ai bisogni della propria militanza le analisi, la poesia e le scelte fortiniane di questo periodo. Così, prendendo le distanze da quella che chiama «fastidiosa nostalgia», rivendica una strada diversa: «preferirei – scrive sempre nella lettera a Lenzini – l’ultimo Fortini, che invitava ad “attraversare la condizione postmoderna”».
Con la sconfitta dell’ipotesi comunista, «si perdevano non solo i contatti con gli operai, ma anche quelli con alcune élites di intellettuali di massa d’allora, di nostri simili, riciclatisi in tempo – scrive con acre polemica nel 2007 – nelle università, mentre noi immigrati, ex studenti lavoratori ci disperdevamo nelle filiere dell’insegnamento medio o superiore o nel basso lavoro editoriale e impiegatizio. Venne meno quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università, centri di ricerca, centri studi, esperti, sezioni politiche, cenacoli amicali, gruppi-riviste, circoli culturali, stanze di studio private e viceversa … e ristabilitasi la gerarchia rigida non solo tra “dirigenti” e “diretti”, anche l’inquietudine degli “intrusi” nelle istituzioni universitarie, giornalistiche, televisive». Una condizione che Abate legge ingabbiata tra integrazione e rimpianto, dove l’unica via di uscita è, con un’espressione di Toni Negri, l’«esodo» nella «moltitudine».
È questo il terreno del fortiniano scalzo: condanna, perché costretto alla lontananza dai centri alti del sapere, ma anche privilegio, perché immerso nell’orizzonte comune di vita dei subalterni. Da siffatta diffrazione nasce la tenacia d’incontri, riviste, la quotidiana tenuta della rivista online ormai ventennale Poliscritture e il lavoro critico che non si nasconde, messo in questione il marxismo fortiniano, la propria ipoteticità e che pertanto trova le energie migliori nella carica polemica dello stile risentito. Analoga origine ha la proposta di «moltinpoesia» coltivata dalla rivista, una concezione che, se condivide con Fortini la convinzione che la poesia ha la capacità di recare un vero oltre la miseria della sconfitta politica, non però sfugge alla celebre condanna del tardo Fortini contro il narcisismo del «surrealismo di massa», proprio perché in nome della moltitudine evita di porsi il giudizio di valore. «Se l’artista ha da essere democratico – dice Fortini nel 1989 – arte e letteratura, invece, sono aristocratiche. La democrazia non ha niente a che fare con la qualità. Né l’esistenza di Dio né la bellezza di un’opera d’arte si votano a maggioranza».
[da «il manifesto», 11 marzo 2025]