Dario Salvetti
con Gea Scancarello,
Questo lavoro non è vita
Felice Rappazzo

Dario Salvetti con Gea Scancarello, Questo lavoro non è vita. La lotta di classe nel XXI secolo. Il caso GKN, Milano, Fuori Scena, 2024.

I.

La vicenda che riguarda la Gkn di Campi Bisenzio è ormai nota (almeno fra i lettori di queste pagine), e mi limiterò ad un accenno: un fondo speculativo britannico (Melrose Industries: il nome coniuga la durezza di industries con il dolciastro di melrose, che, a noi italiani richiama la mescolanza di miele e di rose: se è un caso, è veramente straordinario) Melrose Industries, dicevo, rileva la fabbrica, non si sa perché: ma si può capire che cosa accadrà se è vero, come leggiamo, che il suo motto è buy, improve, sell; qualcosa che richiama i “cattivi” del fantasioso film di Mel Brooks, L’ultima follia, dove costoro si chiamavano Engulf and Devour, trangugia e divora. Difatti la Melrose non fa altro che il suo mestiere: acquistare per vendere, e per mandare al macero produzione industriale, e disperdere 422 operai. Siamo ad un licenziamento collettivo per chiusura delle attività, inviata via mail a tutti i dipendenti il 9 luglio 2021. La resistenza operaia e civica che ne consegue è quello di cui parliamo, e che nel libro dell’operaio Dario Salvetti, con la giornalista Gea Scancarelli come coautrice, leggiamo nella sua interezza. Il libro è molto appassionante e coinvolgente, è un permanente crescendo di temi e analisi. Ne affronterò alcuni punti, con una digressione anticipata, tuttavia, che parte da uno fra i mille antecedenti, un fatto di cronaca né più grave né meno grave di tutti gli altri casi di dismissioni simili, ma a me molto noto perché interno ai casi della mia famiglia.

Siamo nel 1977-78 a Caltagirone, Sicilia “del grano”, provincia di Catania di circa 36.000 abitanti; la cittadina è nota per il suo centro storico, le belle ville della nobiltà e borghesia del luogo (altri tempi) e per l’artigianato d’arte (ormai decaduto) della ceramica. Nella pianura che contorna il colle su cui è distesa, area “industriale”, si mette in piedi una fabbrica di medie dimensioni. La proprietà viene da Sassuolo, ma ha usufruito di finanziamenti pubblici (forse la Cassa per il Mezzogiorno, o chissà…). L’impianto è tecnicamente avanzato, può avvalersi di un bacino di maestranze qualificate e serve a produrre piastrelle per abitazioni di pregio, decorate a mano ma realizzate industrialmente. Le condizioni lavorative sono pesanti per l’ambiente interno e la mancanza di servizi, ma il fatturato è subito alto, e le richieste vengono anche dall’Arabia Saudita. Una settantina i dipendenti, con contratto dei chimici, salari alti. I dipendenti sono selezionati sulla base di un esame delle loro capacità artigianali, ma naturalmente in parte anche per clientele locali e forse anche per richieste sindacali. Dopo poco più di un semestre di attività un magazziniere si accorge che qualcosa non va: gli acquisti di materiale diminuiscono, gli approvvigionamenti sono fermi. Vengono convocati i sindacati; una rappresentante importante, allora, della CGIL di Catania (ne ho dimenticato il nome), viene… in soccorso; apostrofa gli operai definendoli irresponsabili: se protestate, diceva, screditate il Sud (lei veniva dal Nord), e gli imprenditori, i padroni insomma, non verranno più a “sfamarvi”. I padroni lo avevano già deciso, in realtà. In poche settimane la fabbrica viene chiusa, le attrezzature smantellate e portate via, gli operai messi in liquidazione e in cassa integrazione. Lo scheletro della fabbrica giace tuttora dov’era prima. Gli operai hanno trovato altra sistemazione, o sono rientrati nel consueto stop-and-go della semi-occupazione. Decenni sono passati.

I padroni già da qualche anno avevano imparato che bisognava organizzare la loro lotta di classe: delocalizzare (non senza aver prima succhiato soldi pubblici), smantellare così la rissosa classe operaia, era da qualche anno la loro strategia, dopo il triennio 1969-71. A Milano, Torino, come a Catania o Caltagirone: con in più, in questi ultimi casi, quell’amaro sentore di corruzione, intese sottobanco, mediazioni clientelari ecc.

Quante volte, in quanti luoghi, si è riproposta questa manovra, quante volte si ripropone ancor oggi! Né possiamo dire che non ci sia niente di nuovo sotto il sole. C’è di peggio nel contesto generale, naturalmente, ossia la riduzione quantitativa e la trasformazione della classe operaia propriamente detta, le delocalizzazioni, le esternalizzazioni del lavoro, la dispersione della classe lavoratrice, la frammentazione dei luoghi di lavoro, la moltiplicazione delle forme contrattuali, le finte partite IVA, la precarietà, i lavori a chiamata, le aziende interinali che lucrano sulla “fornitura” di lavoro (vere forme di caporalato legalizzato, di rendita moderna), l’indebolimento delle lotte perché, semplicemente, non ci sono i luoghi di aggregazione come una volta (le fabbriche, le scuole, gli uffici pubblici e simili), e anche perché si perde così la coscienza di classe. Per questo quello della Gkn è un “caso”, e mi è accaduto di sentire più di una volta sindacalisti e studiosi esperti e affidabili sostenere che si tratta, per l’appunto, di una eccezione nel panorama delle lotte sociali e sindacali. La primazia assegnata oggi dal discorso pubblico alle «guerre culturali» ne è un sintomo e una concausa. Come giustamente ha osservato Mimmo Cangiano nel suo libro dedicato appunto alle guerre culturali, il capitale non le teme affatto, anzi le sostiene e utilizza a suo vantaggio (il che non significa che esse siano orpelli: significa che non scalfiscono l’accumulazione e il potere economico, e che distraggono e cancellano la percezione dello sfruttamento). Ma questa eccezione ha una sua ragion d’essere e – soprattutto – indica una via da percorrere, una via che possiamo chiamare di ricostruzione sociale solidale, di larga aggirata, di lunga marcia attorno al nucleo forte del potere capitalistico. Al tempo stesso la lotta della Gkn possiede una sua ragione interna (e una esterna) per essere esemplare.

In primo luogo, osserva Dario Salvetti, la lotta operaia non si è limitata alle rappresentanze sindacali interne e territoriali, né alle istituzioni. Con modalità aggiornate eppure classiche («è una storia antica, ma si ripropone sempre nuova» scriveva, parlando d’amore, il poeta Heinrich Heine, circa duecent’anni fa) il nucleo operaio della fabbrica si attiva come collettivo, ossia come comunità di lotta e di solidarietà umana, sociale e politica, coinvolgendo i vicini contesti, ossia le famiglie, gli amici e compagni, gruppi di intellettuali e studenti e così via. In questo modo la lotta esce dalla fabbrica e diventa una vertenza che crea un reticolo forte sul posto, ma che si propone ad esempio per tutto il Paese: il motto che ne scaturisce è noto: «insorgiamo». Nasce attorno all’esperienza Gkn anche un festival di Letteratura Working Class, un evento che sfonda i tradizionali argini della lotta sindacale e operaia. Dentro la fabbrica rinasce così il consiliarismo, una forma di lotta che i più anziani ricorderanno diffusa nelle fabbriche fin dal 1969, ma che risale a tempi più remoti (ricordiamo gli esempi di Torino nel primo dopoguerra, le riflessioni di Gramsci e Gobetti?); l’assemblea permanente dei lavoratori, il collettivo di fabbrica diventano il motore della lotta, e difatti Salvetti, cui non mancano certo qualità di leader, si rifiuta di parlare in proprio, e insiste sulla comunità di lotta. Si fonda una Cassa di Mutuo Soccorso, come ai vecchi tempi delle lotte sociali. Fuori dalla fabbrica si attiva la solidarietà di vicinato, la riattivazione del legame sociale nel territorio. Si coinvolgono tutti i legami attivabili, da amici e compagni che forniscono pasti a ricercatori e tecnici, anche dell’Università, che pianificano e programmano alternative produttive e studiano le linee di difesa giuridica. La lotta di resistenza, la giustissima lotta per il lavoro e l’occupazione, si allarga nel tempo ad una messa in discussione del modo di vivere e produrre entro le strutture socio-economiche dominanti. Si tratta di una resistenza al vampirismo e cannibalismo (per parlare coi termini di Nancy Fraser) del Capitale: proprio per questo esemplare. Mi sia consentita anche una rapida sortita in direzione politico-elettorale: è da tempo che si osserva che una parte consistente della classe operaia (non solo genericamente del proletariato) vota per partiti di destra, la Lega prima, adesso anche Fratelli d’Italia. Leggo qua e là che questo argomento è da ripensare e valutare. Qual è il senso dell’esperienza Gkn su questo versante, mi chiedo?

II.

Ma non basta: quel che nel libro è evidente, tanto da apparire chiaramente anche nel titolo (Questo lavoro non è vita), è proprio quel decisivo ampliamento del quadro del conflitto sociale che esce fuori dalla fabbrica, pur rimanendovi ancorato. Operai e comunità esterna maturano un’analisi del contesto globale, ripropongono in forme nuove una vecchia questione strategica: “come, cosa, perché produrre”. E proprio su questo punto troviamo che nella lotta la riflessione è stata avviata, un progetto messo in campo: un deciso sforamento della semplice vertenza sindacale. I lavoratori diventano «attivisti sociali», ossia «persone che nel portare avanti la difesa del proprio lavoro hanno una prospettiva sociale. La vertenza diventa un tema collettivo […]. Vuol dire mettere in discussione il funzionamento della società: nella lotta sei costretto a occuparti non più solo del tuo orticello, ma del mondo intero» (p. 109).

Credo che si tratti di un elemento strategico: chi non crede al green washing che, nel migliore dei casi, è un modo per riorganizzare il modo di produzione e di vita senza alterare i rapporti di classe, ossia un modo per riproporre il sistema e il modello capitalistico, dovrà riconoscere che la lotta non può essere finalizzata agli obbiettivi “produttivi”, come nelle più disparate (e disperate) vertenze sindacali, fermi restando i sacrosanti diritti dei lavoratori. Ripetiamolo: la precarietà, i lavori poveri e miseri, il ridicolo richiamo al “turismo” come panacea economica e soluzione del problema dell’occupazione e del reddito, i centri commerciali aperti sette giorni su sette, i ristorantini e i supermercati, i call center, l’agricoltura del caporalato, insomma i luoghi in cui domina l’occupazione saltuaria e a chiamata, occasionale e interinale, priva di sicurezze e di difese sociali, e perfino situazioni di lavori stabili come quelli della scuola, della sanità, dei servizi, avviliti demansionati e degradati dalle procedure e dalla burocrazia, sono oggi la frontiera decisiva della – quasi inesistente – organizzazione del nuovo proletariato diffuso e disperso. Tacciamo sulle morti sul lavoro, sul rapporto fra produzione e riproduzione, il cui richiamo risuona, nelle condizioni attuali, un retorico sberleffo, e tanto altro. Voglio dire che le lotte sindacali e operaie, se non affrontano strategicamente “come, cosa, perché produrre”, se non riescono a collegarsi sistematicamente con il lavoro informe, non potranno far altro che riproporre (nella migliore delle ipotesi) il vecchio modello produttivo e sociale, sia pure aggiornandolo, e consegnarsi così, mani e piedi legati, al meccanismo infernale del capitale, e alle fine uscirne sconfitte. E questo riguarda tutti i comparti della produzione, dei servizi, della cultura e comunicazione, insomma tutti quelli del cosiddetto “sviluppo”, la maledizione cui siamo mani e piedi ancorati: se non c’è lo sviluppo non c’è lavoro, ma se c’è sviluppo il lavoro risulta temporaneo, insicuro, malpagato, dannoso per l’ambiente, distruttivo, così come le autostrade e le grandi piattaforme logistiche, i “non luoghi” della ipermodernità, insomma; i profitti e le rendite (già, è bene ricominciare a parlare di rendite, pensando alla finanza e alle grandi e piccole piattaforme sul territorio e sul Web) invece crescono serenamente: «gli oppressi/ sono oppressi e tranquilli, gli oppressori, tranquilli/parlano nei telefoni», secondo un celebre verso di Fortini che su queste pagine sarà ben noto. Questo è il nodo – forse più inerente alla soggettività che ai dati oggettivi dell’espansione capitalistica –che appare quasi impossibile da risolvere, che può preludere solo alla definitiva contraddizione, socialismo o barbarie, pace o catastrofe. Costruire il rapporto fra queste condizioni del lavoro e la crisi climatica, le guerre e la distruzione della socialità e delle soggettività sfruttate e potenzialmente antagoniste, ecco il compito immane ma ineludibile che aspetta le nuove generazioni: un compito che – purtroppo – non può che nascere dalle crisi.

Sarà così necessario, e questo è il secondo nodo, avviare una seria riflessione e una seria pratica su una politica (e una cultura) del decongestionamento del sistema produttivo e dei suoi servizi, che al tempo stesso offra un percorso di soluzione al lavoro dignitoso nel tempo di massima concentrazione del capitale e del suo impazzimento neoliberista e autoritario (su questo argomento, ricco e complesso, non posso che limitarmi a questo accenno). Anche sotto questo aspetto il “caso” Gkn è esemplare. Il grido di battaglia «tutti insieme insorgiamo» diventa perciò il richiamo alla «convergenza», alla consapevolezza che l’assemblea permanente del collettivo di fabbrica «si apre completamente all’esterno e si fa contaminare da chiunque ritenga che la nostra lotta lo rappresenti» (p. 125). Ecco una casamatta ben presidiata! La lotta di fabbrica si apre dunque al contesto, non solo a quello locale ma anche a quello globale: tant’è vero che fra i progetti che scaturiscono dalla lotta per il posto di lavoro emergono quello per pannelli solari di ultima generazione quanto quelli per i cargo bike. L’esigenza di giustizia sociale sposa quella per la giustizia climatica, il particolare guarda al generale, e anche (questo almeno è il mio parere) a un percorso che recuperi e valorizzi stabilmente modi di essere e di vivere che contrastino l’accelerazione incontrollata di ogni processo, contrabbandata come ideale dell’umanità. Dalla lotta di fabbrica si intravede insomma l’alternativa a un’organizzazione della società che fissi e accetti per se stessa un piano, un progetto, una linea di vita e di valori, di scelte e di priorità che contrastino l’ideologia del “progresso” a tutti i costi, preteso come miglioramento del genere umano; anzi, ormai, oltreumano…; che lavora, contro lo “sviluppo”, per una sottrazione di valore aggiunto alle merci e ai servizi, e – allargando il campo – alla vita ormai sussunta non solo nelle logiche ma, soprattutto, nelle strutture produttive e ideologiche del capitalismo. Usiamo pure la sinistra parola «pianificazione», conferendole tuttavia, accanto a quello economico e produttivo, anche uno spessore di progetto umano, anche etico; e perfino la parola impronunciabile e maledetta, comunismo. Sbaglierò, spero, ma lo sviluppo economico sganciato dai fini e dai destini collettivi dell’umanità e del mondo vivente, che non stabilisca obbiettivi comuni e limiti, può avere solo un esito, quello della catastrofe generale, per guerra o inquinamento. Non sarà la fine del mondo, ma la fine del mondo quale lo conoscono i viventi di oggi, sempre più precariamente.

III.

Ho divagato forse troppo, ma spero di essere rimasto nella sostanza entro la logica del libro. A dire il vero avrei voluto utilizzarne vari spunti da commentare articolatamente: ma avrei finito col ricalcarne intere pagine. Così cerco di ritornare al suo interno, sinteticamente, su due altri punti specifici: in primo luogo quello del mutualismo (cui ho già accennato); in secondo quello del tempo, anzi dei “tempi”.

Mutualismo, dunque: gli operai della Gkn organizzano la loro lotta e, accanto ai sindacati, rilanciano il collettivo di fabbrica e attivano una Cassa di Mutuo Soccorso: al di là delle evidenti forme di sostegno alle famiglie operaie in difficoltà, questi strumenti (che, inutile ripeterlo, costruiscono un ampio terreno di solidarietà attorno alla lotta di fabbrica) riprendono quelli del mutualismo che era stato l’invenzione di una fase importante della classe operaia, prima delle organizzazioni sindacali. Ne ha riproposto l’attualità, in anni recenti, Salvatore Cannavò, sulla scia di proposte e ricostruzioni “eretiche” di Pino Ferraris e di Maria Grazia Meriggi. Il mutualismo non è solo una prima fase di autorganizzazione di operai e lavoratori in genere (celebre l’esempio dei minatori belgi di fine Ottocento), e dunque una prima fase ingenua che prelude alle moderne forme di rappresentanza e di organizzazione (dal sindacato alla cooperazione). Nella caduta di un ampio orizzonte di classe, esso, sostengono dapprima Ferraris e poi Cannavò, va ripensato come componente importante della lotta dei lavoratori. Anche sotto questo profilo il caso Gkn ha qualcosa da insegnare e da prospettare ad altre esperienze: «Il Collettivo di fabbrica» – scrive fra l’altro Salvetti (p. 62) – «le strutture fluide che ci siamo dati alla Gkn, ce le siamo date anche per tornare alla partecipazione, per ovviare all’inibizione che la macchina sindacale può suscitare». Mutualismo e consiliarismo si fondono e si sostengono reciprocamente. Diventano modalità organizzative e aggregative che comportano uno spessore – oltre che politico – anche etico e antropologico, che si contrappone all’impersonale e cieco procedere della logica capitalistica. Il mutualismo e il consiliarismo non intendono soppiantare il sindacato, ma controbilanciare il meccanismo delle deleghe con una diretta e differenziata partecipazione umana.

Infine i tempi: dai tempi di lavoro al tempo di vita. La fabbrica, si sa, incarna un modello di efficientismo, di “rendimento” alienante che è peraltro spesso introiettato dal lavoratore; eppure è spesso segnale dell’«inefficienza produttiva» delle aziende: «Se tutto è urgente, niente è urgente. Se tutto è emergenza, niente funziona normalmente» (p. 64). Sul taglio dei tempi esiste (è esistita) una vasta letteratura, che possiamo benissimo far risalire al Marx del Capitale. Il controllo dei tempi è l’essenza del lavoro di fabbrica, la sostanza del controllo del padrone sull’operaio, e il controllo della produzione è stata la tattica da sempre adoperata nelle fabbriche per instaurare un contropotere operaio. Da molto tempo però il controllo del tempo ha travalicato la fabbrica e il luogo di lavoro, e ha invaso la vita. Non si tratta solo di seguire un ritmo produttivo imposto, si tratta di lavorare anche nei week-end, di tenere aperti i centri commerciali sette giorni su sette, di trasformare ogni istante libero in una occasione di consumo, in una scarica adrenalinica. Anche nella condizione di stabilità dell’occupazione, la vita nel capitalismo è una prestazione, una competizione che si estende a ogni istante della vita. I sociologi, da Simmel in poi, anche gli psicoanalisti (vedi Lacan, quello del “discorso del capitalista”, vedi alcune riprese di Massimo Recalcati) lo sanno. Ci piace ancor di più che un’esperienza di fabbrica, una lotta sociale moderna eppure antica, abbia ritrovato e messo in discussione, dall’interno del processo produttivo e dal conflitto con l’oppressione irrazionale del capitale, un’acquisizione culturale e valoriale di primaria importanza. Possiamo andare anche più in là, senza enfasi: questa lotta, per le modalità con cui si è arricchita e sviluppata, per la carica umana che vi è stata immessa, contribuisce a riscrivere spazi di immaginario solidale e pienamente umano, nuovissimo e antico al tempo stesso: quello per cui gli esseri umani scoprono e ancora riscoprono, con il cuore e con la mente, un significato comune – nel doppio senso: valido per tutti e quotidiano, elementare, percepibile; e dunque tutt’altro che banale – del vivere associato.