
Recentemente la casa editrice Marietti1820 ha ripubblicato alcuni testi di Giuseppe Trotta, uomo di profonda spiritualità, nonché attento osservatore dei fenomeni sociali del proprio tempo, sguardo tanto più necessario nella ferocia dell’epoca presente. Si tratta di restituire ai possibili inespressi una chance di nuova vita. Politica e spiritualità entrano in relazione tra loro, tanto più forte perché mossa da un’istanza rivoluzionaria, come più volte sottolineato da Salvatore Natoli e Fabio Milana. Trotta è stato un uomo spirituale, consapevole della drammaticità dell’esistenza e del male «in tutta la sua serietà». Di sicuro, Trotta ha vissuto in e di una tensione escatologica, in cui vi era un bisogno di salvezza che mai l’uomo può attingere pienamente; una salvezza che, secondo le parole di Simone Weil, non risiede tanto nella liberazione dal dolore, bensì nel vivere la stessa come una via di purificazione, più esattamente di “svuotamento di sé”. Allora fare spazio fino al totale svuotamento di sé è la precondizione per lasciarsi riempire dall’«amore di Dio». Tuttavia si aspetta, perché il tempo del mondo è tempo d’esilio.1
L’amore di Dio non è affatto un’“astrazione”, ma prende forma e profondità nella dedizione agli altri: è un donare incondizionato per una superiore pienezza. In effetti, comporta un superamento di sé che viene a coincidere con un totale distacco dal proprio io egoista.2 Se Weil, nel silenzio di Dio, si consegna per intero al suo amore con esiti mistici, per Quinzio l’abbandono di Gesù sulla croce non è vissuto solo come un ritrarsi di Dio, come assenza, ma come un grido: Marco dice espressamente che Cristo spirò con un grido spaventoso. Sulla croce Dio è morto sul serio, eppure non si può far altro che credere, a fronte della delusione, non resta che continuare ad attenderlo. Di qui la necessità di vivere il presente in attesa della fine. Amare Dio nel suo fallimento e credere nell’imminenza del regno messianico. Non c’è fede se non in questa imminenza.
Decade così la pretesa egemonica dell’io di piegare a sé il reale, «l’amore di Dio […] nasce sul riconoscimento dell’io come niente» (p. 17). Weil allora chiama in causa l’intera tradizione metafisica della soggettività, la quale si è espressa nel tema della salvezza e in quello della purificazione del dolore.
Tutto il percorso che accompagna la Chiesa nel suo rapporto contraddittorio con la modernità si traduce in un disagio profondo e in una crisi delle diverse tradizioni culturali. Si assiste cioè all’esaurimento delle varie ideologie e perfino il Cattolicesimo partecipa a questa crisi. Può apparire sorprendente e paradossale che sia stato Baget Bozzo a sottolineare il fallimento della teologia e lo smarrimento dei credenti.
Sottrarsi alla minaccia dello stato di natura convertendolo nel potere dello Stato, hobbesianamente libero di dare la morte ai propri sudditi: alle origini del politico c’è la violenza, la guerra di tutti contro tutti. Gli uomini devono accettare il potere, obbedire ai comandamenti del magistrato. Se ciò non accade, si apre una conflittualità permanente.
Cogliere la verità del politico significa esercitare il nostro disincanto, che però non si traduce in nessun rifugio spirituale. Trotta si chiede quale sia il destino della democrazia, che prevede e pretende di ricondurre il conflitto politico all’evolversi delle varie forme della cittadinanza.
È quindi inevitabile chiedersi quali saranno le forme della politica,
1 «Essere schiavi è dunque la condizione dell’aprirsi alla grazia, è lo svuotamento pieno del proprio essere io, singolo, soggetto. È la scoperta del proprio nulla come condizione necessaria alla propria redenzione» (p. 20), scrive Trotta parafrasando Simone Weil. L’uomo è come sradicato da se stesso.
2 Più oltre, rifacendosi ancora a Simone Weil, Trotta ribadisce la critica al soggetto e al suo protagonismo ontologico. «L’amore di Dio viene quando l’io scopre sé stesso come attesa e dunque vuoto disporsi» (p. 17).
3 «La creazione del mondo è resa possibile dallo tzimtzum, il “contrarsi” di Dio. Nella sua totalità infinita e perfetta, che non lascia nulla al di fuori di sé, non avrebbe altrimenti potuto trovare posto ciò che è altro da lui. Lo tzimtzum non è solo far posto alle cose create, rendere possibile un punto dove non ci sia Dio, perché lì ci sia la realtà del mondo, ma significa proprio un autolimitarsi di Dio. Senza questo ripiegamento in se stesso dell’infinito Dio, non potrebbe esserci al di fuori di lui una realtà diversa, e solo questa situazione preserva le cose finite dal perdere nuovamente la loro specificità reimmergendosi nel divino» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Milano, Adelphi, 1992. p. 40).