In questo intervento1 mi prefiggo di approssimare, più che affrontare, un tema la cui trattazione organica esigerebbe quel molto lavoro preliminare – sui contesti, le fonti, le varianti – che è lecito attendersi proprio dall’annunciata edizione critica delle opere.2 Un simile requisito filologico potrebbe essere aggirato o abbreviato dai referti di un connoisseur; in difetto di tanta competenza, dovrò avvalermi del palato di quanti mi hanno preceduto su questo terreno ancora in via di esplorazione. Le voci bibliografiche di cui mi servirò per mettere almeno in prospettiva il nostro tema non sono molte; ma il loro peso specifico è tutt’altro che trascurabile, come si vedrà, credo, già dai nomi degli autori.
Per avvicinarci a don Milani scrittore occorre credo rimuovere anzitutto una remora posta da Milani stesso a un simile approccio, nei diversi luoghi in cui reagisce con sufficienza, o con sarcasmo, o addirittura con sdegno al rilievo di un commentatore che gli aveva attribuito uno «stile personalissimo». Ripulsa che però già Franco Fortini nel 1980 gli ritorceva contro, imputandogli, invece, proprio quello «stile personalissimo».3 Le prove a carico non consistevano tanto in una determinata selezione e gerarchia degli “attrezzi nella cassetta” letteraria, peraltro, quanto in una qualità per così dire pragmatica della sua scrittura, la messa-in-opera, propriamente messinscena, del discorso: una sorta di sacra rappresentazione capace di stringere attorno all’oratore, di vincolare a lui personalmente un uditorio di fedeli e di assenzienti entro un rito comunitario basato sull’esclusione di un terzo, un avversario – un vescovo o una professoressa. Per inciso, è anche il luogo dove culmina «la rancura» del critico nei confronti di una personalità di cui per altri versi avverte visceralmente l’attrazione.4 Ma, appunto, una personalità, e non una scrittura. Lo «stile personalissimo» di Milani, ravvisabile in quella certa messa in posa della parola, è agli occhi di Fortini esattamente quanto impoverisce di interesse e di profondità lo scrittore, mentre rinvia per contrappasso a una dimensione tragica della sua vita – questa sì veramente degna di attenzione, veramente moderna cioè, come attraversata da contraddizioni non conciliabili e non conciliate.
Così siamo già messi – certo non su una falsa pista: era anzi doveroso partire da un contributo come quello di Fortini, che è, e resterà a lungo, di riferimento sul nostro tema; ma per lo meno – su un binario morto: con uno «stile personalissimo» in una mano, e uno scrittore modesto nell’altra. Mentre la nostra inchiesta muove da una premessa simmetricamente opposta: l’ipotesi di uno scrittore di vaglia cioè, che si appresta ad essere “canonizzato” nella collana di classici forse più prestigiosa – privo però di un suo “stile personalissimo”, o per meglio dire, armato di un programma letterario che prevede la rinuncia a una cifra stilistica in proprio. Su questo secondo aspetto Milani è esplicito in più punti, soprattutto sul limitare della vita e in passi del resto ben noti; a Giorgio Pecorini ad esempio, nell’aprile ‘67:
Di una “poetica” d’altra parte ci interessano, prima e più che i suoi esiti “locali”, il più ampio contesto e il significato storici: l’epoca, in quanto riflessa o interpretata nell’intenzione artistica; e in particolare, nel caso nostro, come Milani non sia per questo rispetto un autore isolato o controcorrente. Si considerino ad esempio le seguenti affermazioni:
Nella saggistica milaniana, i principi che abbiamo richiamato si declinerebbero infatti nella devoluzione della parola al fatto, e nel suo trasferimento a una prassi collettiva: il dato statistico (il grafico, la tabella) e il montaggio anonimo sarebbero così i valori limite del suo operare letterario. Gli corrisponderebbero, su un piano teoretico la fiducia nella investigazione scientifica della realtà (quella delle “scienze umane”, che proprio allora sbarcavano anche in Italia), sul piano pratico una concezione dell’arte essenzialmente come tecnica (seppur a uno stadio elettivamente artigianale di questa “tecnica”). L’accertamento del fatto e il suo ricongiungimento con la parola, intesa questa come parola regolata, e per ciò stesso condivisa – diciamo sinteticamente: la presa di coscienza collettiva e metodica di “come stanno le cose”, potrebbe considerarsi l’obiettivo, o il parametro di validità, di questa scrittura ohne Eigenschaften, senza qualità sue proprie, senza “stile”. E vien voglia di aggiungere subito che in tale ricongiungimento accade la verità; ma Cristo è la verità; ergo, quel che si verifica è quasi una additio revelationis. Questo religioso rispetto della realtà, e religiosa fiducia nella parola, meritano di essere evocati già qui, almeno a sfondo del nostro discorso. Ma è anche opportuno preavvertire che il nesso tra il fatto e la parola può essere nella scrittura di Milani diversamente complesso e problematico, e dunque è prudente non procedere in questa sede oltre il piano delle persuasioni teoriche e delle dichiarazioni di intenti.
II.
Una seconda pista di avvicinamento allo scrittore Milani è quella dei suoi modelli e fonti. Sulla cultura letteraria di Milani la testimonianza più remota credo si debba al suo amico e compagno di scuola Oreste del Buono, con un rinvio alla rivista umoristica «Il Bertoldo» (1936-1943)11 gradita al regime e fortunata soprattutto presso il pubblico giovanile; ma le giovanili lettere di Milani a del Buono, la prima in particolare,12 se certo risentono dell’umorismo surreale del gusto allora corrente, non presentano punti di contatto evidenti con il Milani successivo, neanche il Milani privato, a parte forse il timbro di voce che crediamo di riconoscervi, in quella sua distanza di sé da sé che tiene aperto uno spazio fisso per l’autoironia. Ma accenti e pronunce risuonano assai diversi, e anche l’irriverenza del Milani maturo, o certo suo scanzonato understatement, non hanno che in modo residuale la gratuità fantaisiste di quel tipo di umorismo. Corre l’obbligo tuttavia di menzionare il diverso avviso di Ranchetti su questo punto, essendo, la sua, l’expertise di un coetaneo e di un concittadino di Milani; e di registrare l’ulteriore suo riferimento ai Ricordi di scuola del direttore del «Bertoldo» Giovanni Mosca:13 sebbene anche la lettura di questo testo, a parte una cert’aria di famiglia, più tematica peraltro che stilistica, lasci incerti. Pure il riferimento al Gian Burrasca, che forse Ranchetti mutua da Pasolini – il quale arretrava ulteriormente a Pinocchio, nella sua recensione alle Lettere alla mamma14 – sembra uno strascico polemico di quella imputazione di «forzata fanciullaggine toscana» che Ranchetti muove a Milani, una caratterizzazione limitativa insomma;15 analogamente al Pascoli “regressivo”, sentimentale e vagamente Biedermeier, evocato da Pasolini per nominare ed esorcizzare quel qualcosa, nella Lettera a una professoressa tanto quanto nel Giornale dell’anima, che a lui non finisce di garbare.16
A questa sorta di regolarità, secondo cui il retroterra letterario di Milani viene mobilitato in negativo, per qualificare ciò che nella sua scrittura appare meno felice e, malgrado le apparenze, meno spontaneo, non si sottrae nemmeno, e non sorprenderà, un auscultatore raffinato come Fortini, i cui rimandi al “salvaticismo” cattolico-reazionario d’ambiente toscano, o al suo erede post-Conciliazione, il “selvaggismo” rural-fascista degli anni ‘30, parimenti toscano, si vogliono e sono esplicitamente riduttivi.17 Si osservi che il rinvio al Dizionario dell’Omo Salvatico di Papini-Giuliotti compare in Fortini già nelle recensione alla Lettera a una professoressa dell’estate 1967, a caldo cioè, e a colpo sicuro;18 onde si è portati a credergli anche senza il conforto dello scrutinio diretto dei testi, che non parlerebbe a supporto (ma si potrebbero però ricordare le papiniane Lettere agli uomini di Celestino VI, che nell’immediato dopoguerra fiorentino molto difficilmente un cattolico militante avrebbe potuto ignorare; e di cui, certo non la sovrabbondanza retorica, a tratti davvero torrentizia, ma almeno le scenografie e l’intonazione apocalittica potrebbero pur risentirsi nella Lettera dall’oltretomba ai futuri missionari cinesi).19 Allo stesso modo si è indotti a fidarsi dell’esclusione, dal lotto dei riferimenti, di una rivista come la fiorentina «Riforma letteraria» (1936-1939), ben nota a Fortini, e in apparenza più congruente sul piano ideologico. Fortini non intende certo ascrivere tout-court Milani al tradizionalismo cattolico, ma rilevare la persistenza in lui di un repertorio di temi e schemi polemici, generalmente anti-borghesi, assai ben stabilito nel pensiero religioso anti-moderno di Francia e d’Italia; e con ciò è un dato posizionamento morale e intellettuale ad essere sottolineato, più che un’ascendenza letteraria precisa. Quanto poi al «Selvaggio» e a quel «certo crudelismo alla Tozzi, là dove nazionalismo, reddito agrario e fascismo collaborarono ad una prosa di retorica del concreto e del greve, del popolare e del rude, del sublime e del creaturale»,20 si può di nuovo solo prendere atto; e chiedersi magari perché non, allora, direttamente, il pratese Malaparte.
Dove il critico appare più simpatetico nella sua mantica delle ascendenze milaniane, è quando fa il nome di un altro letterato fiorentino (di adozione), Piero Jahier, forse non convocato solo in forza di quella partitura ritmica che fa risentire nei suoi prosimetri «tonalità bibliche», né solo per quelle dinamiche di «veemenza compressa» che sono del resto estensibili a buona parte dell’espressionismo “vociano”.21 Qui occorrerebbe allora precisare che l’espressionismo milaniano agisce piuttosto “per via di levare”, per risparmio più che per eccedenza, in una ricerca di concisione e di concentrazione che punta non, come in altri vociani (penso in particolare a Rebora), a portare a evidenza un’impossibilità o incapacità di dire; mira al contrario a un nominare noumenico, propriamente adamitico, che partecipa della Creazione ed è, per questo, insieme parola e gesto efficace. Qui le espressioni programmatiche abbonderebbero: tutti ricorderanno la fiducia milaniana «nella cruda precisione e nella cruda aderenza della parola al pensiero»,22 e perciò in «una parola dura, affilata, che spezzi e ferisca»;23 il suo voler «usare ogni parola come se fosse usata per la prima volta nella storia come usano fare gli analfabeti»,24 così da ottenere qualcosa come un «oggetto bello intagliato nel legno da un selvaggio»,25 a costo di «stare per mesi su una frase sola togliendo via via tutto quello che si può togliere».26 È, si vorrebbe dire, quello milaniano, un espressionismo “popolare”, “romanico”, remotamente evangelico; umile e anonimo, come sappiamo, ma appunto per ciò di intatta o ritrovata potenza; primitivista più che reattivo e polemico, fauviste più che “selvaggista” nel senso anzidetto. A voler qui scavalcare il modello scritturistico, che torturava già il ciceronianus Gerolamo, e a sorvolare sul radicalismo evangelico di chi esigeva la più rigida coerenza tra le parole e le azioni – a volersi chiedere, cioè, donde altrimenti Milani possa aver contratto questa propensione di gusto, verrebbe da pensare alla cerchia di «Corrente [di vita giovanile]» (1938-1940), che un giovane come lui dotato e ambizioso non poteva non incrociare nella Milano degli anni a cavallo dell’entrata in guerra; e di cui infatti erano parte non secondaria artisti come Ennio Morlotti e Bruno Cassinari ai quali sappiamo egli guardava nei suoi anni braidensi di apprendistato alla pittura.27 Giusta l’insegnamento di Banfi, «Corrente» rivendicava un’apertura, una continuità tra arte e vita che, mentre smentiva l’“autonomia” prescritta dall’estetica crociana, riprendeva e onorava gli esponenti più compromessi e “impuri” della stagione vociana, accoglieva e divulgava i testimoni fiorentini della “letteratura come vita”, e inquadrava le ricerche della nuova generazione nel diverso clima filosofico ispirato da fenomenologia ed esistenzialismo.
Appunto in questo senso è stimolante l’appello di Fortini a Jahier: principalmente perché vi si può intendere, sottotraccia, il riferimento “tipologico” a una prassi di scrittura in cui lo scrittore e l’uomo non sono separati, e una responsabilità morale è direttamente implicata, fa corpo, anzi, con l’esercizio della scrittura (nel caso di Jahier, la scelta di una condivisione dell’esperienza e sofferenza di altri uomini, quale lo induce, nei suoi scritti, alla emarginazione o sublimazione dell’io in un “noi” corale e rituale). Cadrebbero qui, per un momento, quella cesura tra “lo stile e l’uomo”, per dir così, e quella censura del primo dei due poli, in cui, come si ricorderà, il giudizio di Fortini essenzialmente si articolava. È significativo che, analogamente, il paradigma sotteso all’interpretazione di Ranchetti, indubbiamente penetrante ma in qualche misura anche appropriante, sia un altro autore di area latamente “vociana”, Carlo Michelstaedter.28 Il Milani di Ranchetti è (o vorrebbe essere, come corregge Fortini), uomo della persuasione: nella cesura con tutto quanto precede biograficamente, o accompagna storicamente, e nel trasferimento in una «dimensione diversa» dove parola e scrittura, quotidiane e minuscole, coincidono con la Parola-Scrittura senza tempo e maiuscola («perché l’incarnazione del verbo non è relativa ma assoluta»), lasciando cadere tutto l’altro (tutte le forme della mediazione storica, a cominciare dall’istituzione) come scoria di “retorica”.29 O, per essere più precisi: è l’uomo che sopravvive alla sua persuasione, la quale è di per sé invivibile, come certifica il prototipo; e che sopravvive ad essa, o in essa, in forza di un eroico, un sublime artificio. Eroico, sottolineo, e sublime; ma eroico e sublime artificio; e, dunque, ultimamente, anch’esso retorica. Si apre qui il varco al Milani tragico, captato immediatamente anche da Fortini: «un uomo, una disperazione», come avverte già in apertura del suo intervento del ‘67;30 e si fondano qui le riserve, le resistenze, così di Fortini come di Ranchetti, di fronte alle forme esteriormente compatte e apparentemente risolte del suo esprimersi. Ma ciò che interessa, a spia se non di Milani, almeno di un certo tipo di recezione di Milani tra intellettuali e letterati suoi coetanei (e tuttavia l’intimità di queste loro reazioni lascia davvero rilucere qualcosa come una costellazione), è il rimando tra storico e tipologico a quel precedente: intendo, a un’esigenza di “vita autentica” che, pur sapendosi categoricamente inesaudibile, e scontando a priori l’inevitabile fallimento, fonda tuttavia la priorità (o almeno solidarietà) dell’etico rispetto all’estetico, muove la volontà di testimoniare con la propria vita e la propria morte oltre che con la propria parola, istituisce perciò la disponibilità a provare e pagare di persona, e impone il dovere di un ricorrente esame di coscienza – tutto ciò che apparirà tanto più serio e impegnativo quanto meno soccorrano quelle mediazioni che assicuravano un raccordo a buon mercato: la storia, la patria, la classe, la parte, la chiesa… Forse non è senza significato che i tre, all’indomani dell’ 8 settembre, si siano posti o ritrovati fuori dalla storia («in quel momento di morbo – come ha chiarito Pasolini, anche lui a proposito di Milani, anche lui autobiograficamente – [in cui] la tentazione era quella del suicidio: e il terrore era così profondo e collettivo da suggerire soluzioni che sarebbero state poi inanalizzabili secondo i metodi familiari della psicologia e della psicanalisi»);31 e che il seguito delle loro biografie si lasci leggere come tentativo di risarcire quell’ammanco con l’esercizio di una coerenza esasperata – o dicasi appunto disperata.32 È su questa lunghezza d’onda che potevano, gioventù diverse, vibrare tra loro per simpatia; e accanto agli exempla del valdese Jahier o dell’ebreo Michelstaedter, alla testimonianza di Rebora (cioè il silenzio poetico successivo alla conversione) e i riferimenti incrociati a Simone Weil – si consideri il caso di un altro prete cattolico: uno di cui Fortini seguiva, nel 1946-47, il tentativo di un inedito, visionario “Movimento di Religione” e che Ranchetti, da storico della Chiesa, avrebbe più tardi promosso a parametro per una controstoria religiosa del secolo;33 e di cui racconta don Alfredo Nesi, compagno di Lorenzo in Seminario nonché confratello sempre solidale:
III.
Che si enfatizzi, come fa Ranchetti, o si problematizzi, come preferisce Fortini, la volontà di “immediatezza” in don Milani, resta che almeno una “mediazione” è certamente inevitabile: quella delle istituzioni letterarie entro cui la scrittura si riversa e scorre. Ci chiediamo qui a proposito dei generi letterari praticati da Milani scrittore, partendo da ciò che già Giuseppe Battelli osservava all’atto di pubblicare le Lettere alla mamma: ossia come, in modi, misure, dosature differenti, tuttavia la forma della lettera sia quella largamente prevalente nella scrittura pubblica e semipubblica, privata o addirittura riservata di Milani.36 In una gamma talmente differenziata di occasioni e contesti comunicativi come quella che ci è nota, ci si può chiedere se un qualche tratto permanente si lasci o meno individuare; e quali pressioni esercitino su chi scrive le convenzioni del genere. Credo che le due risposte possano convergere in una sola; nel dire cioè che la scrittura di Milani è una scrittura strutturalmente destinata: a un interlocutore insieme e a uno scopo. Ma non nel senso più ovvio e inerte di queste qualificazioni, quello secondo cui “intenzionalità” e “accettabilità” sono “requisiti di testualità” comunque imprescindibili; né solo nel senso che, di per sé, l’epistolografia conferisce proprio a questi due un rilievo necessariamente più marcato. Nel caso di Milani, se si prescinde magari dal contesto più febbrile e angustiato dei suoi ultimi mesi di vita, o di qualche altro addensamento di urgenze pubbliche e pratiche nella sua biografia, si può osservare che la scrittura anche privata è scarsamente intertestuale, il rinvio a precedenti o a conseguenti è proporzionalmente raro, la lettera tende a esulare dalla “corrispondenza”, non soltanto a esibire ma quasi a eseguire in se stessa lo “scambio”, in una sorta di sua performatività che nomina e insieme esaudisce al proprio interno la destinazione del testo. Lettere come quelle a mons. Olgiati nel ‘59 o a mons. Bartoletti l’anno prima,37 escludono una replica perfino là dove sembrano sollecitarla, o la sollecitano in modo tale da renderla impossibile. Nell’epistola, poi, come invenzione letteraria, che prescinde da necessità pratiche eventuali e corrisponde semmai a una necessità espressiva, una libera predilezione, questi caratteri si fanno strutturali, e la convocazione dell’interlocutore nel testo si mostra chiaramente come funzione interna alla produzione del testo stesso, a quella “messinscena”, forse, di cui parlava Fortini, e di cui i destinatari e gli obiettivi reali stanno, sottaciuti, altrove. Sta, l’epistolografia milaniana, tra questi estremi: il messaggio nella bottiglia ai missionari cinesi, cioè a un destinatario fittizio, anzi paradossale, che nella finzione stessa potrebbe non essere mai raggiunto38 – e la replica della professoressa, o di qualche suo collega più compiacente, dettata un po’ a burla in chiusa della Lettera stessa, quasi a coonestarne la finzione epistolare.39 O ancora, e non diversamente: tra l’autoapologia ai giudici, dei quali viene diseffettuata a priori, se non disconosciuta, l’attesa sentenza,40 e l’autotestimonianza ai lettori di «Adesso», quella col nom de plume di Benito Ferrini, nella quale, come gli interlocutori stessi sono costretti a riconoscere chiudendo frettolosamente il dialogo, neppure è stata presa sul serio la loro sollecitazione iniziale.41 C’è come un’interlocuzione bloccata, o parziale, tendenzialmente a senso unico; e non perché giudicata inutile o innecessaria, al contrario: ma assunta in proprio e agìta in anticipo. Il testo milaniano sporge oltre se stesso per un suo dinamismo interiore, senza prevedere con ciò, fuori di se stesso, un ubi consistam. Anche dell’epistolario alla mamma, e senza con ciò voler minimizzare la fitta trama di urgenze e occorrenze, di apprensioni e rassicurazioni che l’attraversano, resta soprattutto il gesto prolungato di attenzione e di devozione, il presidiare la “funzione fàtica”, come si dice, di una comunicazione che appare per lo più sottintesa, o rinviata, o appunto risolta nella presa di parola in quanto tale, quando non nel semplice testimonio della carta firmata che fa da tramite.
Battelli ha segnalato, credo opportunamente, come nelle Esperienze pastorali la cornice epistolare sia intervenuta in un secondo momento, ad alterare, quasi, la saggistica linearità dell’inchiesta socio-religiosa. In questa aggiunta si manifesterebbe una tendenza della scrittura di Milani alla predicazione, già attestata alla fine degli anni ‘40 per la verità, e poi largamente prevalente nella produzione successiva.42 Questo nesso tra scrittura epistolare e predicazione mi pare senz’altro pertinente, e chiarisce probabilmente alcuni dei caratteri che siamo venuti enucleando (per essere sempre “rivolta”, infatti, la predica non prevede “risposta”, ovvero la genera e la risolve al proprio interno); v’è d’altra parte, come si sa, una coerenza originaria tra il genere epistolare e l’apostolato, il magistero, la pastorale, la direzione spirituale, la controversia, e altre fattispecie della vita religiosa. Restando alle Esperienze pastorali, il dislivello che effettivamente si percepisce tra zone diverse dell’opera può essere ricondotto, tra molti altri stilemi cui anche accenna Battelli, alla circostanza per cui giudizio di fatto e giudizio di valore, opportunamente separati e posti ordinatamente in sequenza nella parte saggistica, si accavallano invece e si rilanciano l’un l’altro fin dalle prime battute del testo negli inserti epistolari-“predicatorî”, secondo un pattern che ritroviamo poi immutato fino alla Lettera a una professoressa. È, questo, credo, uno dei dispositivi dei testi milaniani che più contribuiscono a conferire loro un carattere tagliente e intimidatorio – «l’indice teso» di cui parlava un po’ sgomento Fortini43 –, quale si produce appunto all’incrocio tra Du-Stil, il discorso al tu/voi, e anticipazione del giudizio al fatto: un incrocio da cui il testo procede in forma di requisitoria, fondendo tra loro narratio e argumentatio, senza ammettere distensioni ma rilanciando di continuo al ritmo dei brevi, concentrati paragrafi, con gli ictus incalzanti dei suoi a capo da poema in prosa, le clausole scolpite da cadenze epifonematiche, i silenzi di sfida che fanno loro da cassa armonica.
IV.
Entriamo brevemente nel laboratorio milaniano. Nella Lettera a una professoressa si legge che
Al fondo di questa concezione dell’opera, Milani ne ha parlato talvolta, è qualcosa come un paradigma penitenziale: la parola è parola di verità, ed è parola efficace, non perché tuttora parola edenica; al contrario, perché è parola che, ferita dal peccato, si converte e chiama a conversione. Potremmo dirla in questo senso parola profetica: Geremia, il san Paolo posto in esergo alle Esperienze pastorali, Gregorio magno; inoltre Savonarola, non mai menzionato, mi pare, da Milani stesso, ma divinato – non c’è altro termine – da Fortini già nel ‘67, con riferimento alla predica Della rinnovazione della Chiesa («bisogna combattere contra duplice sapienza […] contra duplice scienza […] et contra duplicem malitiam»);47 infine Milani stesso e, se lui dovesse fallire, i futuri missionari cinesi. Tale schema, schema fisso direi, e di matrice biblica come ha suggerito Ranchetti,48 contempla un mondo che deperisce per sua propria entropia spirituale, e un mondo nuovo che interviene a minacciarlo, a escluderlo o inglobarlo, ricavando dalle sue debolezze le proprie ragioni; novità sovvertitrice, questa, che, se non può essere stornata o “assimilata”, va a sua volta assunta ed evangelizzata, perché siano ristabiliti i diritti della parola di Dio. Quest’ultima non annuncia alcunché di storico, non trapassa e non muta, ma sta confitta nel movimento della storia come il crocifisso nella casuccia piovosa abbandonata da Pipetta.49 Aver pensato la “questione sociale”, e specificamente il comunismo, all’interno di questo schema – averli pensati, cioè, radicalmente e religiosamente: dal punto di vista del perfettamente contingente, e insieme da quello del totalmente altro – è stata, credo, la “profezia” di don Milani.
Così, se badiamo alla struttura argomentativa soggiacente a un testo semipubblico o semiprivato come la accennata Lettera a Pipetta, troviamo a monte una parola che, vincendo («il 18 aprile»), è passata dalla parte del torto (del potere, della menzogna); quindi il fatto delle perduranti «ingiustizie» che, riconosciuto, convoglia tutta la ragione dalla parte dei perdenti; infine il “tradimento” di queste “ragioni” nell’unica parola necessaria: l’annuncio del Regno. Alla superficie del testo troviamo però una diversa partitura, che attacca dal movimento intermedio (centrale, attuale) del pensiero, per retrocedere da lì all’antefatto storico-ideologico, o avanzare in direzione dell’eschaton; ma sarebbe altrettanto esatto dire che sono quelle due traiettorie a lasciarsi risucchiare nel gorgo del presente. È l’adesso della scrittura, della presa di parola responsabile nel punto in cui l’ambiguità delle parole (i torti, le ragioni; le intenzioni e le interpretazioni) si è fatta somma, e più acuta l’urgenza di uno smistamento chiarificatore. Perciò il testo muove dal «tu mi dici» iniziale di Pipetta, preludiante in triplice ribattuta, al «ma dimmi» del sacerdote, che segna l’exordium di una peripezia, tormentosa, di altri atti di parola (estorti, omessi; fraintesi, smentiti; esorcizzati, prefigurati…); da registrare ai punti di svolta, tra una decina di occorrenze, un «mi tocca dirti che hai ragione» e la sua ripresa a distanza, incrementata dal poliptoto, «lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”», che è il cardine intorno a cui la pagina ruota su se stessa, e si dispone allo scioglimento. Questa logomachia di superficie drammatizza, cioè, l’argomentazione sottostante, e mostra la predicazione di Milani allo specchio di sé stessa (ovvero dell’“interlocutore” a sé incorporato) come nel momento della riflessione e della confessione; la sceneggia in lotta con l’opacità della parola scambiata così da disambiguarsi, illimpidirsi progressivamente, e disporsi da ultimo in una luce che oltrepassa la parola stessa: ma dove questa si converte in «grido», «cant[o]», «preg[hiera]». La doppia negazione (conversione) che è il movimento del pensiero religioso in Milani si mostra così orientata non già alla mediazione o alla sintesi, bensì – all’annuncio di salvezza, quale può emergere soltanto dall’ablazione successiva delle parole meramente umane. È dalla soglia di questo trapasso che dovremmo, credo, pensare la scrittura di Milani: come predisposta a dimettersi, a “tradirsi” in vista dell’unum necessarium. Per motivi etici, certo, e religiosi; ma anche per un movimento interno al testo stesso, che, se non deve negarsi in sberleffo, come nella chiusa di Esperienze pastorali o di Lettera a una professoressa,50 deve convertirsi in Scrittura; e forse qualcosa di più o qualcosa di meno di questo: ma in puntini di lacuna – come quelli, sublimi, a Pipetta.
È in questa reticenza, per nulla retorica, che sembra di poter riascoltare e rispettare, fino in fondo, la volontà testamentaria di don Milani: il suo «non voglio morire signore cioè autore di libro».51
San Donato a Calenzano, 1950
Caro Pipetta,
ogni volta che ci incontriamo tu mi dici che se tutti i preti fossero come me, allora…
Lo dici perché tra noi due ci siamo sempre intesi anche se te della scomunica te ne freghi e se dei miei fratelli preti ne faresti volentieri polpette. Tu dici che ci siamo intesi perché t’ho dato ragione mille volte in mille tue ragioni:
Ma dimmi Pipetta, m’hai inteso davvero?
È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così.
E quel caso è stato quel 18 aprile che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. E solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che…
Mi piego, Pipetta, a soffrire con te delle ingiustizie. Ma credi, mi piego con ripugnanza. Lascia che te lo dica a te solo. Che me ne sarebbe importato a me della tua miseria?
Se vincevi te, credimi Pipetta, io non sarei più stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell’altro Pane che tu dal giorno che tornasti da prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m’hai più chiesto.
Pipetta, tutto passa. Per chi muore piagato sull’uscio dei ricchi, di là c’è il Pane di Dio.
E solo questo che il mio Signore m’aveva detto di dirti. È la storia che mi s’è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta.
Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco.
Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch’io sono l’unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita.
E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m’avresti mai veduto scendere lì in basso, a combattere i ricchi.
Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione.
Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione.
Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m’hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”.
Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: «Beati i… fame e sete».
1 Svolto in occasione del convegno Don Lorenzo Milani: «Al centro della Chiesa, non ai margini». Firenze, Palazzo Strozzi, 31 ottobre 2015.
2 Si tratta dell’Edizione Nazionale promossa da MIBACT e diretta da A. Melloni, apparsa in due tomi col titolo Tutte le opere, Milano, Mondadori, 2017. D’ora in poi TO.
3 F. Fortini, La scrittura di Lorenzo Milani, in Don Lorenzo Milani. Atti del convegno di studi (Firenze, 18-19-20 aprile 1980), Firenze, Comune di Firenze, 1981, pp. 182-183.
4 Ibidem, con la precisazione finale: «quella [rancura] che ogni figlio ha verso il padre», con prelievo dagli Ossi montaliani (Mediterraneo, V, 27-28).
5 A Giorgio Pecorini il 7 aprile 1967, in L. Milani, Epistolario. Vent’anni di storia italiana, a cura di G. Riccioni, Firenze, Pagnini, 2009, p. 703 (TO, II, p. 1363, testo a cura di A. Carfora e S. Tanzarella).
6 I Ragazzi della Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Lef, 1967, p. 127 (TO, I, p. 786, testo a cura di V. Oldano).
7 M. Ranchetti, Discutendo di don Milani, in Id., Scritti diversi, a cura di F. Milana, II, Chiesa cattolica ed esperienza religiosa, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1999, pp. 137-138.
8 In M. Luzi, L’inferno e il limbo, Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 41.
9 Cfr. la citata lettera a Giorgio Pecorini, p. 702 (TO, II, p. 1361).
10 A. Berardinelli, La forma del saggio, in F. Brioschi, C. Di Girolamo, Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, IV, Dall’unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 882.
11 N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano, Milano Libri, 1974, p. 57.
12 Vedila in L. Milani, Epistolario, cit., pp. 79-80 (TO, II, pp. 20-21).
13 M. Ranchetti, Discutendo di don Milani, cit., p. 137.
14 P.P. Pasolini, Don Lorenzo Milani: «Lettere alla mamma» (o meglio: «Lettere di un prete cattolico alla madre ebrea»), in «Il Tempo», 8 luglio 1973, ora in Id., Tutte le opere. La saggistica, Milano, Mondadori, 1999, II, p. 427.
15 M. Ranchetti, Fortini e Milani, in 1917-1941. «Nella città nemica». Fortini a Firenze. Atti della Giornata di Studi (18 novembre 2004), in «Antologia Vieusseux», 31, gennaio-aprile 2015, p. 19.
16 P.P. Pasolini, La cultura contadina della scuola di Barbiana, in «Momento», 15-16, gennaio 1968; ora in Id., Tutte le opere, cit., pp. 830-831.
17 F. Fortini, La scrittura di Lorenzo Milani, cit., pp. 180-181.
18 E. Fachinelli, F. Fortini, G. Giudici, Tre interventi sul libro di Don Milani, in «Quaderni piacentini», 31, luglio 1967, p. 278.
19 Vedila in L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Lef, 1958, p. 437 (TO, I., pp. 479-480, testo a cura di F. Ruozzi).
20 F. Fortini, La scrittura di Lorenzo Milani, cit., p. 181.
21 Ibidem.
22 Cfr. la lettera a Enrico Bartoletti il 10 settembre 1958, in L. Milani, Epistolario, cit., p. 313 (TO, II, p. 545).
23 A Gaetano Carcano il 3 settembre 1958, ivi, p. 308 (TO, II, p. 533).
24 A Giampaolo Meucci il 2 marzo 1955, ivi, p. 216 (TO, II, p. 351).
25 Ibidem.
26 A Giorgio Pecorini, cit., p. 702 (TO, II, p. 1361).
27 N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo, cit., pp. 51 e 59.
28 Non posso esibire altra evidenza di questo che il mio Incontro con Michele Ranchetti, in «Bailamme», 11-12 (1992), pp. 293 ss. (in particolare p. 307-311 e 316-319).
29 M. Ranchetti, Temi e problemi di un’esperienza religiosa del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani. Atti del convegno, cit., pp. 51-59; quindi in Id., Scritti diversi, cit., I, Etica del testo, pp. 149-162.
30 E. Fachinelli, F. Fortini, G. Giudici, Tre interventi, cit., p. 276.
31 P.P. Pasolini, Don Lorenzo Milani, cit., p. 428.
32 Per quanto riguarda Ranchetti devo rinviare al succitato Incontro. Su Fortini, si vedano le seguenti riflessioni di Ranchetti stesso: «[…] semplificando, a me pare che nella frustrazione di quegli anni di guerra si sia come depositato un accumulo di risentimento affettivo e orgoglioso nei confronti di chi “faceva parte”, anche “parte sbagliata”. Vi potevano anche concorrere le origini di Fortini: figlio di ebreo ma non ebreo, convertitosi al protestantesimo ma non praticante se non nell’amicizia con alcuni esponenti della confessione religiosa (Spini, in particolare), laureato in legge e solo in un secondo tempo in lettere, letterato ma ostile ai letterati delle Giubbe Rosse, autore da subito pseudonimo, per così dire “in veste narrativa”, consapevole fino all’ostentazione ossessiva della sua appartenenza alla piccola borghesia, Fortini ha sempre e soprattutto cercato di distruggere l’insanabile differenza fra tempo biografico e tempo storico, figurandosi un’esperienza “civile” e politica a colmare la propria solitudine e nutrendosi di esempi a lui del tutto estranei o almeno per nulla congeniali. Brecht in particolare. Come se potesse recuperare dalla letteratura affrontata in modo rigorosamente non specialistico il senso di una partecipazione necessaria e dirimente “alle cose del mondo”, ai “destini generali”, appunto» (Sul riserbo di Fortini, in M. Ranchetti, Scritti diversi, cit., IV, Ulteriori e ultimi, p. 133). Sul confronto di Fortini con Milani come «uno scontro e una sfida» in cui il primo «interroga se stesso inseguendo con grande maestria le contraddizioni di Milani, fra la tragicità della sua persuasione assoluta e le mediazioni che impone a se stesso in obbedienza a una tradizione, quella cattolica, alla quale si è inscritto con consapevole e accanito volontarismo», v. ancora Id., Fortini e Milani, cit., p. 23. Per Milani stesso mi sembra significativa la testimonianza di Saverio Tutino, come riportata in N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo, cit., p. 61, ove sono riferite parole di Lorenzo risalenti alla primavera del ‘45: «Vediamo se sei più comunista tu o io; chi ha fatto di più in questi due anni per la gente»; e in linea con un simile agonismo, il giudizio retrospettivo sull’amico di gioventù: «prese una strada che, alla lunga, sarebbe stata molto più dura e molto più difficile della nostra. La mia guerra in montagna come partigiano è stata una parentesi. La scelta di Lorenzo, è durata una vita intera» (ivi, p. 74).
33 M. Ranchetti, Il cattolicesimo italiano del Novecento: un profilo, ora in Id., Scritti diversi, cit., II. pp. 51-54. Su Tartaglia e sul clima religioso a cavallo della guerra mondiale, anche il mio I cenacoli intellettuali, II, Dalla Conciliazione al concilio, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2011, pp. 1484-1489.
34 Vedine la testimonianza in Don Lorenzo Milani. Atti del convegno, cit., p. 249.
35 Così fa pensare la testimonianza citata, che verte sul valore del sacerdozio cristiano agli occhi di Milani (citato due volte col «don», dunque a ordinazione già avvenuta, in un momento imprecisato che dovrebbe ragionevolmente cadere nel periodo di ritiro e di silenzio dell’altro); non mi sembra tuttavia evitabile leggere nel gesto di Milani – per lo meno anche – un atto di deferenza specificamente rivolto alla persona di Ferdinando Tartaglia, tanto più significativo, nelle sue connotazioni esistenziali, quanto più presente si tenga la distanza davvero incolmabile dei rispettivi atteggiamenti nei confronti della dottrina cattolica.
36 G. Battelli, Introduzione, in L. Milani, Alla mamma. Lettere 1943-1967, a cura di G. Battelli, Genova, Marietti, 1997, pp. VII-VIII.
37 A mons. Francesco Olgiati l’11 febbraio 1959, in L. Milani, Epistolario, cit., pp. 344-348 (TO, II, pp. 623-630); a Enrico Bartoletti il 10 settembre e il 1° ottobre 1958, ivi pp. 310-314 e 319-321 (TO, II, pp. 542-548 e 561-565).
38 L. Milani, Esperienze pastorali, cit., p. 437 (TO, I, pp. 479-480).
39 I Ragazzi della Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., pp. 139-140 (TO, I, p. 797).
40 Ai Giudici il 18 ottobre 1965, in L. Milani, Epistolario, cit., pp. 601-614 (TO, I, pp. 939-961, testo a cura di S. Tanzarella).
41 L. Milani, Ho aperto gli occhi, in «Adesso», 1° ottobre 1958, p. 6 (TO, I, pp. 1015-1019, testo a cura di F. Ruozzi).
42 L. Battelli, A proposito delle tesi di Ranchetti su don Milani, in Anima e paura. Scritti in onore di Michele Ranchetti, a cura di B. Bocchini Camaiani e A. Scattigno, Macerata, Quodlibet, 1998, pp. 163-171.
43 E. Fachinelli, F. Fortini, G. Giudici, Tre interventi, cit., p. 277.
44 I Ragazzi della Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 105 (TO, II, p. 769).
45 Ivi, p. 115 e 140 (TO, I, pp. 777 e 797).
46 Ivi, p. 132 (TO, I, pp. 790-791).
47 E. Fachinelli, F. Fortini, G. Giudici, Tre interventi, cit., p. 278.
48 M. Ranchetti, Temi e problemi, cit., p. 59.
49 A Pipetta, il 1950, in L. Milani, Epistolario, cit., pp. 150-151 (TO, II, pp. 147-148).
50 Intendo la chiusa del testo (alle pp. 434 e 139-140 rispettivamente; TO, I, pp. 476 e 797), prescindendo dalle appendici.
51 A Giorgio Pecorini, cit., ivi, p. 703 (TO, II, p. 1363).