Messe in scena che non esaltano i singoli scrittori per le loro capacità, ma che plasmano maschere e personaggi pieni di contenuti di facile corso: ritualità da società dello spettacolo e da uffici marketing, del tutto aliene all’ambito della cultura. Una critica, quella del volume, che rifugge ogni teoria e ideologia precostituita e che si basa sulla verve degli scrittori che hanno composto il libro. Gli approcci sono tra i più variegati, ma il punto di vista, occasionalmente autobiografico, propende di volta in volta verso l’umorismo assurdo, o verso l’analisi tra il sociologico e il morale, oppure legando il timone ad una rotta più letteraria.
La scommessa che si vuol giocare è di portare ad una platea più ampia la critica, non solo letteraria, attraverso uno stile brillante e scritti brevi che non annoino. Si passa dalla guida ironica ai libri impossibili di Paolo Morelli, alla mostra narcisisticamente grottesca raccontata da Paolo Vitiello, fino agli scritti meno istrionici sui vizi di autori nostrani: come la “smisuratezza letteraria” analizzata da Marchesini o come il “dannunzianesimo degradato di massa” postulato da Onofri. Ognuno però – soprattutto nella prima parte – individua delle patologie di un’industria culturale votata alla vacuità. In tutti i brani i riferimenti non sono mai vaghi o nascosti: gli obiettivi polemici hanno sempre un nome e un volto. Sembra quasi che si cerchi un dibattito sulla sostanza, una polemica, o anche solo una reazione qualsiasi. La battaglia meritoria è contro un gusto governato dal mercato, silenzioso tiranno delle lettere contemporanee, contro un canone redatto da blasone acquisito su campi che nulla hanno a che fare con le parole vergate: insomma, una lotta contro una pigrizia mentale che accetta passivamente i prodotti e l’ideologia nascosta di un mondo che forgia le coscienze.
Il libro è diviso in due sezioni: la prima è Diagnosi, che individua i termini del contagio mediatico e mercantile della sfera culturale; come seconda parte ci si aspetterebbe dunque una proposta di cura, ma ciò che si incontra – dopo un intervallo del curatore Filippo La Porta – è La poesia salverà il mondo?. Il titolo, ben poco azzeccato, sembra voler aprire ad una via lirica al cambiamento, che però viene solo lievemente accennata da Silvio Perrella. La terapia suggerita sembra invece un’altra: sia Febbraro – forse uno dei capitoli più apprezzabili – sia Berardinelli, per fare solo due esempi, propongono proprio la critica del sociale, della realtà e anche della letteratura come necessaria e fondante.
Fondante di cosa, però? Ecco il punto debole della raccolta, che pur consiglio per la sua qualità: non c’è una prospettiva, se non molto nebulosa, di cosa si stia auspicando. Forse una letteratura più coraggiosa? Ma in che termini? Non certo di avanguardia, né di impegno. Forse di pensiero, ma non filosofica. Non sarebbe appagante né un’estetica prescrittiva né un sistema monolitico, ma forse pur nelle scelte individuali – chiare per chi legge altrove gli interventi dei critici apostati – sarebbe stato utile, e forse avrebbe destato una discussione maggiore, lanciare delle linee guida, anche provocatorie. Più chiare sono le idee nell’ambito della società letteraria che deve essere meno retorica e dogmatica, aperta alla critica e al dibattito e meno, molto meno, al marketing. Prospettiva condivisibile e assolutamente da sottoscrivere, eppure il titolo, quel 12 APOSTATI tutto maiuscolo, non è forse un ulteriore tentativo di porsi come un ruolo nella società? Un mettersi “contro” che diventa di conseguenza un’etichetta rivendibile come blasone o come prodotto?