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Carteggio Abate-Fortini
Ennio Abate, Franco Fortini

I. 3 marzo 1978: Abate a Fortini

Caro Fortini, sono un insegnante di lettere di un ITIS (Sesto S.Giovanni – Cinisello), immigrato, compagno dal ’68, lettore attento dei tuoi scritti. Diversi compagni con cui ho parlato di te mi hanno confessato, assieme al rispetto per il tuo lavoro, la scelta di non “disturbare” la tua (pare proverbiale) riservatezza. Ciò mi ha indotto a scartare ogni tentativo di conoscerti di persona, ma non mi fa rassegnare a questa tendenza ad imbalsamarti anzitempo nell’immagine del compagno “saggio”, di una generazione “eroica”, di levatura morale e intellettuale superiore e perciò inaccessibile. Quindi con cautela faccio oggi, con molto ritardo, questo tentativo a distanza (sperando in un minor rischio di ambiguità) di uscire (quel tanto che basta) dall’anonimato: 1. inviandoti in segno di stima questa mia poesia e chiedendoti un paio di considerazioni su quanto un tuo lettore pensa/scrive, convinto che un legame tra il tuo lavoro di scrittore/compagno e quello che vado pensando e facendo si è in qualche modo stabilito; 2. porti un problema meno personale: assieme ad altri (pochissimi) compagni, isolati qui a Cologno, ci siamo posti il problema di pubblicare un Bollettino-Rivista (un primo numero è già stato prodotto ma, a causa di equivoci e sobbalzi vari, ci siamo fermati e siamo in fase di ripensamento). Vogliamo proseguire in questa forma la nostra “militanza” dopo lo sfascio di Democrazia Proletaria in una situazione che è di periferia, di sottocultura e di emarginazione sociale. Ad essa, anche per condizioni materiali, ci sentiamo vincolati. Ma abbiamo maturato anche l’esigenza di sfuggire i toni propagandistici e attivistici di questi ultimi anni e faticosamente ci poniamo quei compiti di riflessione storica e di cura dello scrivere, che abbiamo riletto nel tuo Questioni di frontiera. È compito eccessivamente ambizioso per le nostre scarse energie? È ingenuo pensare che qualche buona indicazione, non generale ma rivolta proprio al nostro progetto concreto, possa venire anche da te? Saluti

II. 13 marzo 1978: Fortini ad Abate

Caro Abate, la mia ‘proverbiale riservatezza’ è una balla. La ‘inaccessibilità’ è semplicemente un minimo di – inefficace difesa del tempo necessario a procurarmi di che vivere. Metà del mio tempo è dedicato alla Università – che è a sei ore di treno da Milano, a Siena. Come molti, vivo in treno. Questa grafia ti dice che in treno, anche, scrivo. Docente di ruolo e sessantenne guadagno quanto un impiegato delle aziende elettriche. Ho quindi un secondo lavoro: editoriale. E scrivo libri. E crepo. Ti ringrazio molto del tuo testo. È quanto di meglio, nel genere, si possa leggere. Solo che il genere (critica della frantumazione rappresentando la frantumazione) mi pare un po’ stanco. Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una ‘necessità’ maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile. Questa non è una critica, è troppo generica per esserlo, scusami. Quanto intendete fare mi pare assolutamente necessario, coi tempi che corrono. Per molti anni non ci sarà altro da fare, con molta pazienza. Il consiglio che vi do è di – scrivere e pubblicare un bollettino destinato ad un pubblico circoscritto che magari non c’è ma che potrebbe/dovrebbe esserci, quello che avete immediatamente intorno e che parla la lingua della schiavitù di massa. – scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio, allora, una problematica etica. Essere spietati. – far scrivere ma riscrivere. Nessuna concessione alla immediatezza populista. Scritti brevi, temi e frasi ripetute. – l’ideale è quello di grandissima modestia degli argomenti e grandissima ambizione (e “distanza”) nel punto di vista, quindi nella scrittura. Voler fare qualcosa di esemplare e di ‘povero’, mettere tutto il lusso nella solidità della scrittura, nella possibilità di usarne modestamente gli elementi che abbiano fatto buona prova. Costringersi alla regolarità formale, alla periodicità rigorosa, alla pulizia. Concludo dicendo che è una vergogna per noi e voi che a dire e a fare quanto sopra si debba provvedere in questo modo preistorico: tra il compagno della (finta) “generazione eroica” (del cazzo) e un gruppo di isolati di Cologno. Aveva proprio ragione Hegel: la sola cosa che si impara dalla storia è che la storia non insegna niente. Vi abbraccio e vi saluto. Vostro

III. 14 ottobre 1983: Presentazione di Le nude cose. Lettere dallo “speciale” di Piero Del Giudice, Milano, Spirali Edizioni, 1983.

III.1. Ennio Abate: Introduzione

Questa serata nasce da una mia convinzione: che il libro di Del Giudice debba essere aiutato a trovare accoglienza oltre che nella cerchia degli amici del detenuto, dei suoi parenti, del pubblico raggiungibile in proprio dalla casa editrice in zone sociali dubbiose o anche restie a parlare della questione del carcere. Ma anche da una scommessa-speranza: che nel dibattito, con l’aiuto dei presenti, prenda corpo quel lettore collettivo, auspicato da Del Giudice per le sue «lettere dallo speciale» e mancato negli ultimi anni. Netta, infatti, è l’impressione che Le nude cose reclamino un lettore che al momento non esiste. Quelli reali – amici, conoscenti, compagni o anche avversari politici di Del Giudice – restano in difficoltà ed è probabile che si brancolerà ancora in mezzo alla sua scrittura come in un labirinto. Non tanto perché essa si presenti densa, programmaticamente in fuga dal buon senso quotidiano; ma perché – in quegli anni: 1978,1979, 1980 – si è avuto uno strappo tremendo e il libro ne porta i segni. Va perciò detto apertamente che – con varie gradazioni – non hanno retto né l’amicizia, né la solidarietà politica, né le vicinanze culturali. I pochi che hanno cercato di attestarsi nella rivendicazione dei diritti costituzionali o di ritagliare un segmento di umanesimo (o più piattamente di spicciolo umanitarismo) sono stati ricacciati nell’isolamento a misurare da lì la loro impotenza e l’arbitrio dei Potenti. Si è avuta una colossale tabula rasa, una cancellazione della progettualità sociale. Quali suggerimenti, dunque, offrire al lettore a venire, oggi inesistente ma – ritengo – necessario? Qualcuno dirà: Si tratta, comunque, di letteratura; di letteratura carceraria. Certo, forse… Ma trovo ingiusto, fuori tempo, fuori luogo, piazzarsi subito di fronte a queste lettere di Del Giudice come dirimpetto a un oggetto soprattutto letterario. Per me non è, infatti, urgente decidere sulla qualità della sua scrittura. È giusto soffermarsi sulla sua personalità, ma senza farsene calamitare. E si dovrà pur scavare su singoli giudizi o sulle sue battute, ma evitando di finire pedanti o giustizieri. Alcuni potranno liquidare la sua riflessione sul carcere come troppo “francesizzante” o farsi riprendere dalla voglia di marcare distanze politiche e culturali. Capiterà. Teniamo conto che – dopo il sussulto dell’elezione «contro le leggi speciali» di Antonio Negri a deputato; dopo la sua reincarcerazione; dopo l’avvertimento lanciato dal ministro Martinazzoli – la persistente inclinazione a prolungare la «politica dell’emergenza» offre mille scappatoie per retrocedere in dannosi pregiudizi e abbandonare la questione carceraria nelle mani del Potere e del volontariato di pochi. Perciò, meglio metterla in primo piano, continuamente, e lasciare più in sottofondo la voce di Piero quando commenta, descrive, polemizza e soprattutto s’accascia in qualche disperazione. Nel volantino che annunciava il dibattito ho voluto precisare che Piero Del Giudice è in carcere da quasi 4 anni senza processo, è «in attesa di giudizio» e che – in condizioni simili – stanno altri 27.000 detenuti (di cui 4.000 politici). Sono sicuro che essi non saranno dimenticati, non sarà perso l’aspetto politico della questione, se ci si accosterà all’eccesso presente nella scrittura di Del Giudice senza timore di bruciarvisi. E se si accoglierà la totalità umana del suo «vedere diverso» (Baget Bozzo), del suo atteggiamento d’attacco, di «felicità» (che a volte può essere scambiata per superbia) nel «dire la verità» o nel suo lanciare l’allarme di fronte allo spettacolo di morte e di distruzione sociale. Il libro offre, però, anche diversi spiragli che mostrano come un carcerato s’aggrappi al «fuori» e ai pochi, residui rapporti affettivi e intellettuali che hanno resistito. Da questi spiragli Piero mostra – inerme, anche quando più sdegnato e sarcastico – i suoi umori polemici, i suoi riferimenti culturali, nuclei di una riflessione spasmodica sulla sua precedente socialità e, pure, qualche intimità. Il tutto non può che essere fissato con delicatezza. Ogni caccia al pettegolezzo va censurata. Carcere comune. Carcere speciale. Piero Del Giudice ha subito il primo e resta, per adesso, nel secondo. È necessario forzarsi ad ascoltarlo, quantomeno come testimone. Forzarsi, perché «è davvero insopportabile capire “uno speciale”» come scrive. Dalle lettere, infatti, si fanno avanti immagini di pura negazione, di morte, di rimozione, di amputazione delle normali facoltà (del muoversi, del vedere soprattutto), di dipendenza affannosa dall’esterno, di allarme interiore incessante, di perdita di memoria, di non comunicazione, di supplizio. Evito qui le citazioni possibili. Molte cose, forse, già “si sanno” ma come parte inerte della nostra attuale coscienza civile e politica. E Del Giudice per questo insiste: a volte con un’angoscia trattenuta dal suo gelo razionale; a volte, invece, con la brutalità disarmata di chi c’è stato e ci sta in quelle celle, in quei cortili, in quei cameroni. E vuole che noi si fissi lo sguardo non su di lui, ma su quella realtà, su quel1a «macchina». E giudica sempre troppo distratto il nostro occhio e reticente la nostra volontà di capire. Mi chiedo se tale incomprensione fra “fuori” e “dentro” – dato sistematico, obbligato, fondamentale del regime carcerario – può essere aggredita, ridotta, limitata. Non lo so. Riconosco quant’è stata impacciata, minima, frastornata la mia – diciamo – solidarietà epistolare. Sappiamo che gli inviti suoi e di altri a ragionare del carcere, dei processi, delle leggi d’emergenza, sono stati poco accolti; che sono cadute nel vuoto le sue sollecitazioni agli intellettuali alti, medi, bassi; che protagonisti e partecipanti a quei «15 anni di scontro sociale e di classe» sono stati azzittiti e seppelliti da teoremi giudiziari e sensi di colpa. Perché? Non lo sappiamo ancora del tutto e – come afferma Fortini nella sua lettera a Del Giudice nelle ultime pagine di Le nude cose – sarebbe «vile e idiota» chiederlo a lui o solo a quelli finiti in carcere. In questo vuoto la scrittura di Piero s’è fissata in «grido di fronte a questi fatti generali»; s’è abbandonata anche a mitizzazioni del «fuori» (come se chi stesse «fuori» oggi in una condizione proletaria avesse davvero possibilità di vivere e battersi «nel reale» e non solo appena di resistere); si è avvitata a volte anche in un disinganno a stento mascherato: «Dunque bisogna attraversarla questa realtà di sale, per saperne la profonda, totale amarezza?» (p. 129). Le nude cose hanno l’impronta distruttiva del carcere speciale. perché – se non è provato che il carcere normale recuperi gli individui, quello speciale non può avere altra funzione che espellere e distruggere quelli che sono stati intesi da troppi come semplice “diossina sociale”. Il risultato è stato – sarà più evidente in futuro – che, strappati al nostro sguardo, dimenticati – la crisi del Paese che a loro veniva imputata, non si è affatto sanata. Una mente vigile potrà scoprire anche in Piero cristallizzazioni e amputazioni, che pur egli non esibisce. Non sono d’accordo, perciò. con quanto afferma Baget Bozzo a p. 186: «il carcere speciale riesce – eccome! – a fare l’uomo in qualche modo più disumano: il recluso, ma anche quelli di “fuori”. E i segni di imbarbarimento li riscontriamo ogni giorno nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle famiglie, nella città. Segno che la “diossina sociale” è diffusa, capillare e ha altre radici inestirpate». La vicenda di Piero De Giudice non si conclude, per fortuna, in queste lettere. Egli continua a interrogarsi sul carcere, insistendo sui legami fra sociale e istituzione, fra legalità e illegalità e sullo sconvolgente processo («quasi un’accumulazione originaria» la definisce) che ha portato il capitale gestore del settore degli stupefacenti a dilagare nel carcere e qui nelle nostre città, ristrutturando e arruolando al suo servizio l’artigianato criminale tradizionale. E nell’intervista rilasciata a Giovanna Gal1i (Nautilus di settembre, inserto de «il manifesto», 30 settembre 1983) ritroviamo in forma più distesa questa sua ricerca tesa a individuare «punti d’apertura del carcere» E ritorna l’invito al colloquio, al confronto culturale tra “fuori” e “dentro”. Scrive infatti:

A cosa penso in concreto? A “comunità”, e con questa parola intendo luoghi reali e intellettuali che non siano il carcere e il processo in aula, in cui sia possibile un confronto culturale dato e ricevuto in condizioni non schiaccianti. Anche piccole comunità attive e propositive, ove la critica del passato diventi la proposta di oggi; individuale e collettiva, dunque anche affettiva e presente nella sfera dei rapporti interpersonali. Comunità libere su cui la società civile Istituzione riversi particolari energie di osservazione e di creatività, di ricerca per estrarre ricchezza da una esperienza errata, ma pur sempre politica, e da un lungo processo autocritico ormai ultimato.

La stessa, intensa proiezione verso l’esterno c’è nell’intervento che ci ha spedito, e che fra poco leggeremo. Concludendo, penso che l’esigenza di una «comunità non simulata», da lui così profondamente voluta, possa incrociarsi con un’idea (un’intuizione) più o meno affiorata in questa città: quella di «laboratorio sociale» da intendere non come puro luogo fisico (comunque essenziale, specie per i giovani che invano ne cercano uno) ma come «rete sociale» di ricerca proletaria, così come l’abbiamo immaginata e confusamente praticata da tempo, scontando la durezza e l’opacità dei rapporti (anche quelli fra noi), la sofferenza sempre più muta delle aree metropolitane, la dispersione nevrotica delle energie intellettuali della sinistra, le privatizzazioni falsamente consolatorie, il ritualismo della vita politica e il celarsi dei rapporti di sfruttamento. Forse è possibile riprendere discorsi smarriti. Forse la ricucitura del tessuto sociale dilaniato dai licenziamenti, dall’eroina, dallo sfascio culturale, dalle malattie indotte, dal silenzio sulle miserie familiari e sui ghetti, va ritentata. E può darsi che una pratica nuova dentro l’attuale miseria proletaria in questo territorio possa rendere più attenti alla miseria proletaria richiusa dentro le carceri. Forse potrà ricrescere la spinta che ci fu in passato, in anni di forti e feconde tensioni sociali a riconoscere anche i carcerati (ma non soltanto loro) come «bene sociale comune» per puntare al loro riassorbimento.

III.2. Piero Del Giudice: Intervento per lettura

Il mondo è un grande stadio; non viviamo la nostra vita, la vediamo nello specchio delle immagini che di essa si danno, degli stereotipi delle indicazioni. Più che vite narrate, le nostre sono vite programmate; anche quelle della emarginazione, le vite cosiddette “devianti”, le vite dello “stupore” e della dipendenza da droghe. Tanto più violenta questa astrazione, in quanto si tratta di giovani vite. Quando torneremo in noi? Il passato ed il futuro sono elaborazioni del nostro presente, della nostra memoria naturale, dei nostri bisogni, della gioia, abbiamo senso di colpa – sentiamo tutto come colpa: il desiderio di libertà, il desiderio di incontro con i nostri simili, l’attrazione che abbiamo verso i corpi come noi, questa gravitazione verso la realtà fisica la sentiamo come una colpa, la temiamo come una felicità fuori dalla regola, uno svelamento di noi come siamo. Della nostra memoria culturale abbiamo paura: paura di avere lottato, paura di avere parlato, paura di avere osato. Il futuro è uno spettacolo, una prospettiva obbligata, una scena collettiva di massa in movimento cieco e quando troviamo il coraggio di alzare la testa per guardare davanti a noi e sopra di noi, vediamo le facce feroci del potere. Facce arroganti, facce da capestro, le facce setolose del porcaio che tiene i porci nello stabbio all’ingrasso. Incapaci di prendere le distanze dalla nostra memoria, di utilizzare quale ricchezza per tutti il passato, di sentirlo vivo e presente – non rimosso – nella ricerca di oggi e nella critica che viene dalla consapevolezza, incapaci di agire sul presente, viverlo, modificarlo e – dunque – costruire la certezza che fa il futuro. Per questo ci attraggono le immagini delle specie sottoposte alle amputazioni ai disastri ecologici: le derive dei grandi cetacei, il disorientamento del volo nei migratori, l’annaspamento nelle acque fetide, nei veleni. La nostra riduzione vegetativa ci fa soltanto più animaleschi, ma animali amputati, disorientati, braccati da più parti. L’ultima volta che ho visto Milano – qualche mese fa – erano anni che non la vedevo. Per anni sono stato tradotto dai carceri a San Vittore, nelle sezioni “speciali” o “normali”, con il furgone blindato. Da lì dentro non si vede niente. In marzo ho fatto la traduzione – ovviamente con manette e scorta – ma in macchina, ed anche per la nessuna conoscenza dell’autista ho potuto, nei vari péripli, guardare bene la città. Ordinata, vetrata. La gente vive in un altro ordine rispetto a quello degli anni ’70: guardavo le donne e le vedevo asessuate, o almeno prive della immediatezza, della padronanza che ricordo, guardavo gli uomini filare via in ordine sui marciapiedi, o da vicino agli stop, quasi snervati, guardavano dentro alla macchina con il prigioniero ed i carabinieri senza dare l’impressione di vedere. Avrà contato anche la giornata di piena luce, ma il contrasto con la periferia, l’emarginazione dell’hinterland, hanno acceso la violenza della differenza, esaltavano il contrasto non tanto di classe, ma di condizioni di vita, di ombre e di luci, di architetture, di esistenze. Il degrado della grande periferia aveva negli anni a tal punto tarlato, marcito, una identità sociale. La città, il suo centro del Palazzo di Giustizia e delle carceri esteriormente rinnovate e che appaiono oggi come un grande garage, un hangar, il traffico ordinato dentro la cinta ferroviaria e dentro le mura, slittavano in avanti rispetto a quando ci si incontrava da per tutto, nei cortei e nelle piazze, nei cinema, al centro ed alla periferia, e ci si riconosceva. Ora noi abbiamo davanti questa tecnologia, se la guardiamo tenendo fissi gli occhi ne possiamo fissare il vuoto. È la città della pura merce, privata della passione politica, privata della passione sociale, i suoi amministratori sono degli affaristi. Ed i suoi impiegati hanno i volti anonimi dei killers. Si sa, i killers di professione non hanno facce feroci, hanno volti diligenti applicati al calcolo. Oppure aspettano che arrivi un killer, nascondono con qualche abilità l’ansia, la loro vertiginosa solitudine, la loro programmata asocialità. Vista così amo anche questa città; è talmente curva, talmente smunta dal prepotere e dalle amputazioni che essa è da per tutto, e pur chiuso dentro una cella vi partecipo, ne ripercorro le immagini, i volti. Dunque voglio uscire dal carcere per starci: nella sua periferia, nel suo centro; la rappresentazione topografica e quasi militare che ne è stata fatta non ne nasconde l’unità dominata di fondo. Credo sia possibile percorrerla di nuovo. Che sia possibile scrivere o parlare dell’opera di un poeta morto come se fosse in vita, e che sia possibile raccontare gli atti delle lotte operaie, il volto, il ricordo, e ciò che hanno dato alcuni operai nelle fabbriche dello hinterland, negli anni passati. Sentirli vivi, anche se sono scomparsi o allontanati nella diaspora sociale. Parlare dei rapporti con le donne o con gli uomini del nostro passato senza vergogna, ed unicamente da questi incontri, solidarietà, confronti accesi, trovare le ragioni della nostra esistenza. La nostra memoria sociale è possibile anche con quei giovani che non abbiamo capito nella scuola e nei quartieri, nel degrado e nello sfascio cui cercavamo far fronte con stereotipi, vecchi meriti e forme sclerotiche di culture chiuse, incapaci di innovarsi, prive del coraggio della critica. Lo sapete cosa fa il senso di colpa? Ci sono moltissimi “detenuti politici” che sono convinti di avere davvero “costituito” o di avere davvero “partecipato” a “associazioni sovversive”! Non hanno neppure letto il Codice Penale. I Giudici, i Procuratori, i “pentiti” hanno detto – di questo immenso vivo passato – che si trattava di “bande armate” ed adesso tutti ne parlano così. C’è questa voragine da recuperare e da riformulare; altrimenti quale utile? quale critica per il nostro presente? Il motore delle cose è la libertà, non la repressione e ciò è tanto più vero e vivo quando si passa per l’esperienza del carcere oppure per una esperienza politica e sociale quale è quella che noi tutti viviamo. Ma c’è un’ultima cosa che vorrei almeno accennare, ed è la felicità. Non so bene come dirvelo, ma sono quotidianamente umiliato dal carcere, profondamente ferito da ciò che subisco e vedo attorno a me subire – eppure vi è una quota di felicità che non posso negare né nascondere. Nel rovescio politico e sociale ho rispettato la mia vita e quella di altri, non ho trasformato la speranza e le lotte di anni, il nostro incontro, in crimine e, nonostante la paura, non ho fatto baratto di me stesso. So di non riuscire a spiegarmi appieno. Basta accennare a quel principio per cui ho sviluppato critica ed autocritica al passato senza che ne venisse particolare vantaggio personale, senza che ne sortisse motivazione al processo di colpa, ma ricchezza e liberazione per i più? Basta dirvi come si possa rinunciare alla quotidianità per anni, sapendone – della vita – la pienezza, trasognandone l’abbraccio, vivendone l’attrazione, la gravità fisica e intellettuale?

[Carcere di Rimini II.X.83]

III.3. Franco Fortini: Intervento non rivisto dall’autore

Credo di poter dire che quel poco o molto che posso pensare sull’argomento, è stato detto dall’intervento di Abate. Riflettendo sulla carcerazione di Del Giudice, mi sono reso conto che uno dei modi, apparentemente ridicoli, di affrontare questi argomenti è quello di parlare di sé, invece che del carcerato Del Giudice. Perché? Perché ritengo che in qualche modo, in qualche forma la gente come me, che hanno una figura pubblica di intellettuale e di scrittore, sia stata tirata in causa in ogni pagina di questo libro. E mi chiedevo, venendo qui, che senso avesse per me. Non perché – come forse Abate può aver creduto – io sia troppo amareggiato, troppo sconfortato dall’orrore della nostra esistenza pubblica nel corso dell’ultimo decennio. Tutt’altro. Anzi vorrei dire subito questo: Non è vero che io sia sconfortato. Non è vero che io sia depresso o scettico o cinico o rinunciatario. Spiegarvi perché, sarebbe troppo lungo discorso. Più semplice è, invece, dirvi che cosa è contro questa (che non vorrei nemmeno chiamare speranza) sfiducia nel fatto che forze intellettuali e politiche, quali quella di Del Giudice, quale quella di Abate e – perché no? – anche la mia finché il fiato mi dura, abbiano spazio, possibilità di essere intese. Dieci anni fa io partecipavo a serate come queste; partecipavo a dibattiti politici. Nel corso degli anni ’60 ero, come si dice, sulla breccia… Da dieci anni sono respinto ai margini. Vorrei che vi rendeste conto – e questa è una risposta che io dò a Del Giudice, quando egli giustamente accusa di viltà buona parte degli intellettuali italiani (ed è paradossale che l’accusa di viltà nelle lettere di Del Giudice possa suonare quasi simile a quella formulata, poco prima della morte, da Amendola); vorrei – dicevo – che voi capiste, che egli capisse, una verità molto semplice: contro le apparenze, quelli che come me sono stati – a torto o a ragione – considerati, diciamo, dei “maestri” o dei “cattivi maestri” nel corso degli anni ’60, senza essere incriminati, senza essere messi in prigione, senza essere processati, ma soltanto trovandosi nelle schede di qualche ministro democristiano o ricevendo qualche visita da parte della questura, si sono trovati, di fatto, ridotti in una condizione di silenzio. Voi direte: Ma come? Ma se tu che parli, non fai altro che scrivere sui giornali! Sarebbe troppo lungo spiegare su quali giornali, perché e cosa. Ed è questo, appunto, che Del Giudice rimprovera. È di fronte a questo che si scandalizza. È per questo che giustamente accusa. In parte per deficienza e carenza nostra, in parte per forza degli avversari – non dobbiamo mai dimenticare la forza del nemico – ci sono stati tolti degli spazi. C’è stato lasciato lo spazio di parlare a tutti dalle pagine di un grande quotidiano; ma non ci è data la possibilità di parlare a qualcuno. Questo è quello che è stato fatto ad alcuni di noi; a quelli che la società aveva ritenuto – non voglio dire “acquistabili”, perché non credo di essermi venduto – ma, comunque, da non colpire altrimenti che con la minuta calunnia e col silenzio dei più. Quindi, in questo senso paradossale, c’è un punto di contatto fra l’esperienza dei “liberi”, dei “lasciati liberi”, e l’esperienza di coloro che sono in carcere. Con questa capitale e tragica differenza… Mi dispiace dirlo, perché non si dovrebbe dire questo di una persona che soffre da quattro anni un abietto carcere preventivo nel nostro abietto paese… La differenza non è a favore di Del Giudice; perché la vittima della carcerazione preventiva e del carcere speciale – quale che sia l’altezza della sua intelligenza, quale che sia la sua capacità di capire la realtà – finisce per l’essere un po’ come l’emigrato, il quale rimane con un’idea della società e della realtà fissa al momento in cui ha varcato la frontiera (o ha varcato la soglia del carcere speciale). La pagina abbastanza straordinaria che Del Giudice ha scritto, nella quale descrive la città di Milano come gli appare nel breve tempo di un trasferimento, di una “traduzione” come si dice nel linguaggio burocratico, è la prova di quanto sto dicendo. In realtà quella Milano, che egli vede, avrebbe benissimo potuto vederla, identica o quasi, dieci anni fa. In realtà egli proiettava sulla realtà, sulla verità fisica di Milano, una sua meditazione, una sua riflessione. E allora gli appariva una verità che era anche di dieci anni fa: la separazione, la periferia, il centro, l’ordine passivo, il degrado… Del Giudice è certamente rimasto come fissato, come folgorato dal momento in cui è stato immesso nel carcere. La sua trasformazione, che si avverte in queste pagine, secondo me è altrettanto insufficiente quanto la trasformazione che noi, i “liberi”, abbiamo avuto nel corso di questi anni. È doloroso doverlo dire. Non siamo stati – e, forse, anch’egli non è stato – all’altezza della situazione, all’altezza dei compiti che vi aspettano – mi rivolgo ai giovani –, più ancora che non aspettino quelli che rapidamente saranno fuori del gioco. La profondità della tragedia mondiale, che si è vissuta nel corso di questi ultimi 15 anni; la profondità della demolizione della cultura della sinistra europea; la insufficienza persino – arrivo a dire – di questa medesima demolizione; il fatto che le strutture politiche dei partiti politici ufficiali, tradizionali e anche una buona parte di quella delle formazioni minori, dei gruppi, dei movimenti che si sono avuto fra ’65 e ’75 – dicevo – la loro presenza continua (questa secondo me è la cosa più terribile) a mantenerci un resto di illusione. Non crediate che io pensi al “tanto peggio tanto meglio”. È che tanto peggio di così è difficile che ci sia. Qualcosa ancora, tanto nei partiti tradizionali – voglio dire, per essere chiaro Partito Comunista, Partito Socialista e le formazioni di DP o Pdup o residui di altri gruppi e perfino coscienze individuali continuano in qualche modo, in qualche forma, a suonarci una sorta di ninna nanna. Non vediamo, non vogliamo vedere fino in fondo l’ampiezza del disastro. Ebbene, è solo se noi tocchiamo veramente e realmente il fondo del disastro; è solo se noi riusciamo davvero con un atto, direi, più di volontà che d’intelletto (a raggiungere) una visione dei rapporti internazionali e di come questi rapporti internazionali si riflettono nella nostra vita quotidiana, qui nel nostro Paese; solo in questo caso, solo starei per dire paradossalmente con la disperazione analoga a quella che ha massacrato una generazione a colpi di prigione, di terrorismo e di droga; solo in queste condizioni possiamo legittimamente sperare di cominciare un nuovo discorso. È vero, lo so benissimo, non occorre che me lo diciate, e lo direi anche a Piero Del Giudice, se fosse qui – che da queste considerazioni altissime, immense, generali, universali, cosmiche si deve venire alle questioni specifiche, concrete, alla lotta contro la legislazione speciale, alla fine di questa abbietta carcerazione preventiva, ai modi migliori di aiutare coloro che sono deprivati della libertà. Sì, è vero. Tutto questo è verissimo. Mai è stato vero come oggi che il momento tattico e il momento strategico della lotta sono strettamente connessi. E tuttavia stiamo attenti che le necessità della nostra lotta quotidiana – per quel poco, pochissimo, quasi ridicolo che si riesce a fare – non ci confortino al mezzo e mezzo, alle soluzioni intermedie nei confronti dei grandi disegni. Sentivo poco fa Abate parlare di piccole comunità, di comunità autocostruentisi. Si tratta di una formula – non è il caso di discuterne adesso – della quale abbiamo moltissimo parlato nel corso degli ultimi l5 anni e che fa parte, forse, di quel filone stupendo di tradizione – diciamo anarchica, dalla quale io mi sento molto distante. (L’ho detto nelle pagine che ho scritto qui per Piero Del Giudice), ma per la quale – va da sé – ho un grandissimo rispetto. Quello che è certo è che non bisogna lasciare pietra su pietra di quello che è stato lo svolgimento ideologico (Badate, dico ideologico, non politico. Non strettamente politico, ma ideologico) della lotta della sinistra in Italia fino almeno agli anni ’60; alla metà degli anni ‘60 e anche oltre. Quando dico che non bisogna lasciare pietra su pietra, non significa che bisogna buttar via. Non c’è niente da buttar via. Nulla è più importante – l’ho detto e lo scrivo continuamente – della memoria; della memoria che ci vogliono far perdere; della dimenticanza che inducono in noi, di quello che è stato anche solo pochi anni fa. Non si tratta di questo. Si tratta del fatto che nessuna delle formule, che noi stiamo usando – anche le più generose, anche le più nobili, anche quelle che vi potrebbero indurre a un maggior effetto e commozione; anche quelle che Del Giudice ha impiegato nel suo appello e che Abate ha impiegato nel suo discorso – nessuna di queste, secondo me, oggi può essere veramente l’inizio di qualcosa di nuovo. Dobbiamo ricominciare a porci delle domande di fondo molto semplici, ma dalle risposte difficilissime. Vale a dire che cosa vogliamo per gli altri e per noi; non che cosa sia comunismo, ma che cosa pensiamo di volere per gli altri e per noi. In questo senso stasera è per me come se mi ricollegassi a dieci anni fa. È come se questi dieci anni avessi dormito o sognato. Non ho dormito, né sognato. Sono stato in gran parte imbavagliato; e non soltanto dai nemici, anche dai compagni. Sono stato imbavagliato dalla mia stessa storia, dalla mia stessa angoscia, dalla mia stessa fatica. Non chiedo nessuna pietà, né considerazione per questo. Pietà e considerazione, rispetto si deve ai carcerati ingiustamente; si deve a coloro che sono vittime dell’ingiustizia, non a coloro che sono stati troppo deboli o troppo vili. Non escludo affatto che si possa parlare di viltà anche per me, per non aver saputo parlare… Ma notate: è facile dire: non hanno parlato. Si dimentica che nel mondo moderno non importa tanto chi e che cosa dice, quanto dove dice e parla; e insieme a chi e in che senso. Ebbene, il nemico è riuscito perfettamente a togliere quelle sedi nelle quali il discorso poteva avere un vero senso, cioè non essere semplicemente un grido di dolore, un appello umanitario, una mozione degli affetti. Ci ha tolto quello. Ci ha lasciato la mozione, la dichiarazione da firmare, questo sì – le firme! Che non servono a niente, ereditate da un ventennio precedente di inutili firme, alle quali ci aveva abituato esattamente la sinistra italiana, Partito comunista e socialista, negli anni che vanno dal ’45 in poi. Le firme! Non abbiamo saputo inventare altro che la macchina per tagliare il burro… Le firme! Oppure quella sorta di sistema ben congegnato della stampa più o meno ufficiale – perché è tutta ufficiale oggi, secondo me, dal «manifesto» alla «stampa» di Torino al «Corriere della sera» al «Messaggero» di Roma –, dalle trasmissioni di Enzo Biagi a quelle della TV di Stato, nelle quali, per dir cosi, ci sono delle regole non scritte, delle regole di buona educazione, alle quali sottostai o taci. Credo che nessuno abbia mai visto la mia faccia in televisione. È un modo di tacere. Dopo alcuni scontri hanno capito che non era il caso di insistere. Tuttavia una persona che abbia un minimo di coscienza politica, come credo di avere, ha dovuto porsi la questione di dove, come scrivere, scrivere circondato da avversari o da falsi amici; come inserire in ogni articolo, se possibile, quella frase, quel concetto, quella parola, destinata a qualcuno, come la lima nella pagnotta del carcerato, perché possa tagliare le sbarre. Ho parlato di me? Ma ho parlato veramente di me? O non ho parlato, piuttosto di Del Giudice, cioè di uno che in questo momento giudicherebbe probabilmente in modo assai negativo quello che ho detto fino adesso? Tuttavia la condizione che ha impedito a Del Giudice, che impedisce tuttora a Del Giudice di avere uno sguardo sufficientemente lucido; quelle sbarre, quell’isolamento, quella sofferenza, quel patimento, quella ingiustizia subita che gli impediscono di frugare, per così dire, fino in fondo, di svolgere fino in fondo la critica non solo di se stesso – anzi, direi, non di se stesso; quanto dell’ideologia e del linguaggio nella quale egli si è mosso nel corso della sua attività politica precedente; questa limitazione è la stessa che ho subito. Anch’io non credo di essere, probabilmente, uscito; forse per motivi di età. Il mio lessico, il mio dizionario è ormai compiuto, più compiuto di quanto non sia quello di Del Giudice. Del Giudice parla, scrive in un modo, s’esprime in un certo modo; ha tensioni, scatti, violenze, concitazioni, passioni, che sono per me perfettamente riconoscibili nell’atmosfera, nello stile di dieci anni fa. In altro modo, in altro modo non poi troppo lontano ha scritto Toni Negri nel suo ultimo libro (si chiama Pipe-line), provocando in quelli come me, che conoscevano e lui e il suo ambiente (facevo parte del suo ambiente 15 anni fa, ai tempi in cui era ancora vivo Raniero Panzieri); provocando questa sensazione, questa sensazione quasi raccapricciante, come di chi – per dir così – continui nervosamente a strofinarsi le mani dove aveva avuto le manette. Questo strofinarsi le mani dove aveva le manette, si sente benissimo per chi abbia un minimo di capacità di lettura, nelle pagine di Toni Negri. Proprio perché non è cambiato, proprio perché si esprime allo stesso modo, è in ritardo su se stesso e la realtà. Comunque si giudichi, per esempio, il suo comportamento attuale, è molto probabile che giochi in questo un modo complessivo di vedere le cose, che è un modo sbagliato, che non risponde alla realtà. Che cosa sia per essere di Del Giudice, non lo so. Troppi nel giro di questi anni abbiamo veduto salvarsi, perdersi, uccidersi o essere uccisi. Quel poco che possiamo dire è che – quando Del Giudice uscirà – quando usciranno con lui gli altri, che come lui subiscono ingiustizia – l’unica possibilità di realmente aiutarli non sarà data da serate come queste, né tantomeno da discorsi come i miei. Sarà data soltanto dalla prospettiva splendida, cui ha accennato sul finire del suo intervento, quando ha detto che si tratta di costituire gruppi sociali capaci di sentire come propria eredità, se ben ricordo, la popolazione delle carceri: quella di oggi, quella di domani e – temo – anche quella di dopodomani.

III.4. Giuseppe Pelazza: Intervento non rivisto dall’autore

È abbastanza difficile intervenire in questo momento, nel senso che gli interventi si mantengono su dei terreni molto interessanti e complessivi, mentre in genere il ruolo e il tipo d’intervento che si richiede ad un avvocato è quello di tipo tecnico. E, siccome c’è il rischio di buttare tutto sul giuridico, io questo rischio lo voglio evitare. Anche perché penso che molte cose della situazione carceraria oggi siano conosciute dai presenti a questa riunione. D’altra parte è anche vero che il libro di Del Giudice, io penso, abbia dentro la volontà di far nascere dei momenti di dibattito complessivo sulla situazione carceraria oggi; e, quindi, è anche giusto scendere a terra, sui dati concreti della situazione all’interno delle carceri e, specificatamente, delle carceri speciali. È giusto farlo, perché la situazione carceraria non è qualcosa di asettico e di slegato dal resto. C’è tutta una connessione stretta e evidente, a mio giudizio, fra problema di imbarbarimento e di fare deserto culturale e politico nell’esterno della società e situazione carceraria. La disgregazione sociale, quella a cui Del Giudice si riferiva nella descrizione di questa sua “traduzione” su “gazzella”, invece che all’interno di un blindato, secondo me, ha una connessione evidente col carcere, perché il carcere vuol dire anche processo, gestione del processo, imposizione di valori… in sostanza vuol dire spingere la gente a dimenticare i principi di onestà intellettuale che sono quelli della tradizione liberale di una volta. Perché dico che la questione del carcere è inserita in un discorso di cultura e di disgregazione? Perché il carcere, com’è oggi, attraverso la differenziazione, si lega al discorso dell’abiura. Il trattamento carcerario differenziato porta il meccanismo processuale all’interno della struttura carceraria. A livello di legislazione penale – attraverso l’introduzione della legge Cossiga nel ’79-’80 e poi con la legge dei “pentiti”, quella del giugno ’82 – abbiamo avuto uno stravolgimento complessivo dei meccanismi giuridici tradizionali della civiltà occidentale; nel senso che si è sganciato il modo di fare giustizia dalla problematica relativa all’accertamento delle responsabilità, all’accertamento della gravità del fatto e alla comminazione di una pena. La consistentissima riduzione di pena, che prevede la legislazione sui “pentiti”, determina un’attenzione da parte del giudice esclusivamente sulla identità politica, sul modo di essere dell’imputato oggi; e quindi va a comminare una sanzione penale non per eventuali responsabilità penalmente rilevanti, ma sul livello di omogeneizzazione o meno ai valori culturali dominanti (ai valori di regime). […] Su questo fatto non possiamo far finta di niente. Bisogna dire delle cose, bisogna agitarlo il problema. D’altra parte la situazione è in movimento sul piano istituzionale, perché parallelamente a questo discorso di ulteriore legittimazione della differenziazione all’interno del carcere, le proposte di legge, che hanno riflessi sul piano processuale, hanno tutte sostanzialmente il senso di muoversi nella logica della dissociazione. Ora non è questo il momento di entrare nel merito della critica o autocritica che alcuni dovrebbero farsi – autocritica o critica che noi dobbiamo fare alle posizioni di molti –, ma il tratto di fondo è quello che proprio la cultura della dissociazione non può che andare nel senso di estendere questo deserto. Perché il meccanismo del prendere le distanze da sé e dal proprio passato, di non mantenerlo in vita e rielaborarlo costringe a fare un atto di fede rispetto a un meccanismo istituzionale, che è quello che ci troviamo di fronte oggi. E poi il meccanismo della dissociazione chiede di dissociarsi dal passato, da un’esperienza che può essere criticabile, ma non esiste la dissociazione in astratto. Uno, dissociandosi, “si associa” necessariamente a qualcosa. E il meccanismo, la forzatura, la violenza estrema che c’è in questa dinamica carceraria e processuale. va proprio in questo senso di introdurre e di estendere un meccanismo di tortura, per portare a una presa di distanza generale, tenendo in ostaggio questa parte della popolazione carceraria, per far compiere un atto di fede, un’associazione a uno Stato che sinceramente non merita questo tipo di associazione. Il primo passo, forse che bisogna fare per cercare di contrastare questo meccanismo è quello di essere anche sinceri con se stessi e di non cadere nel continuo gioco di manipolazione cui siamo noi stessi sottoposti dai mezzi d’informazione. Non so, un’operazione come quella del libro di Peci, lo, l’infame, è una cosa, a mio giudizio veramente disgustosa. Abbiamo invece qui un bel libro, quello di Del Giudice, mentre va avanti un’operazione culturale grossa, quella del Peci. I mezzi di comunicazione non gestiscono Del Giudice, ma Peci. Chi fa l’informazione si gestisce quel tipo di libro. Abbiamo visto dieci giorni fa l’intervento di Miriam Mafai su «Repubblica», di Marco Nozza sul «Giorno» e di altri, ma tutti in questo senso, ancora una volta, di demonizzazione, con un livello di giornalismo che ricorda le :modalità espressive de «Lo specchio» romano, de «La notte» o di «Stop» o di «Novella 2000». Io sento anche la difficoltà, facendo il lavoro che faccio, di riportare dentro le aule giudiziarie questa assenza di verità e di impegno del fuori. Nelle aule giudiziarie oggi stiamo assistendo a un tentativo di portar fuori tutti quei dibattiti carcerari che sono a mio giudizio carichi di importanza, di verità, di sincerità e di spinta verso il futuro. E che tentano di ricreare qualcosa, facendo, se è il caso, delle autocritiche dignitose, ma senza associarsi a questo tipo di meccanismo istituzionale. Solo che all’interno di queste aule gli imputati si trovano soli. Fuori c’è un assetto culturale che non consente neppure ai difensori e agli imputati di fare opera di ricostruzione storica, di chiamare le cose con il loro nome. Prendiamo per esempio, il problema della violenza. Bisogna affrontare il discorso della violenza, della violenza di sinistra, della natura della violenza di sinistra com’è inserita nella storia dell’insurrezione, della legittimità dell’insurrezione, della dignità di tanti percorsi politici. Noi facciamo fatica e gli imputati fanno fatica. Certe cose le dicono, ma sui giornali non escono. E circuiti alternativi non ce ne sono. Nel processo «Rosso» e cosiddetto «Tobagi», che si sta svolgendo adesso, in cui, ad esempio, c’è stata una verbalizzazione attraverso registrazione, ci sono, a mio giudizio, delle pagine bellissime: l’intervento di xy, l’intervento per molti versi più problematico, che poi i giornali gestiscono in termini di dissociazione, di xz, che ti narra il perché della sua scelta, che cosa ha significato per lui prendere una rivoltella in mano, ti fa il discorso della responsabilità di questo fatto, della rivendicazione di questo fatto. Pur nella sua lontananza d’oggi rispetto a quella posizione, ti descrive la questione di come uno che decide di armarsi e di sparare ad un altro per prima cosa spara verso se stesso. Ci sono delle cose grosse, fatti esistenziali. Però su questo c’è il silenzio. Su queste esperienze c’è il silenzio. Non si deve dire alla gente che queste sono cose di sinistra. Finché sono stato un avvocato che si occupava di diritto civile e basta, questo tipo di contatto con questa gente, con questi compagni non li ho avuti, non li avevo e mi accorgevo della difficoltà di capire. Ecco, è importante che noi abbiamo la possibilità di mettere in piedi delle forme di conoscenza, di vedere le persone per quello che sono, di vedere la dignità di posizioni che rivendicano un percorso comunista. Io stesso sono in difficoltà, perché c’è una sorta di tabù o di esorcizzazione rispetto a questo. Son dieci anni che ci dicono no, sono “fascisti”, poi finanziati dalla Cia o cose di questo tipo, comunque la causa di ogni male oggi in Italia. […] Dissociazione e pentitismo sono cose che ritroveremo dentro di noi. E io, con un esempio forse un po’ immaginoso ma non infondato, dico che la figura del pentito è una sorta di occhio del Grande Fratello che t’hanno messo di fianco, cioè una forma bestiale di desolidarizzazione, nel senso che qualunque piccolo embrione organizzativo, antagonista o che si faccia i fatti suoi, si troverà all’interno di sé il potenziale occhio del Grande Fratello, che domani lo denuncia. A mio giudizio è importante intervenire su questo. Non ho le idee chiare sulla questione dell’amnistia. So che ci sono grosse problematiche dentro questo tipo di discorso; ma il discorso dell’amnistia, se può senz’altro essere una questione non immediatamente realizzabile, ha comunque il significato di essere un momento di coagulo, di opposizione e di creazione di un’alternativa rispetto a tutta quell’altra impostazione legata alla dissociazione e al pentitismo; e ha anche il significato di aprire un dibattito.

[Cologno Monzese, 14 ottobre 1983]

IV. 18 ottobre 1983: Abate a Fortini

Caro Fortini, t’invio – tranquillizzato dalla tua gentilezza – il mio “samizdat”. Con l’aiuto della tua critica, che desidero spietata e amichevole, m’aspetto di scoprire la strada per collegare il mio indagare da autodidatta (non solo in poesia) a qualche nodo fondamentale della ricerca contemporanea, così come ho appreso dalla lettura dei tuoi scritti. Ti rammento anche l’altra mia richiesta: una traccia e le opportune indicazioni bibliografiche per approfondire il tuo lavoro di saggista. Il tutto senza alcuna fretta. Ringraziandoti per la partecipazione alla serata del 14 ott. a Cologno, ti rinnovo stima e amicizia in attesa di sentirti e di rivederti.

V. 19 aprile 1985: Abate a Fortini

Caro Fortini, questa è la bozza della pubblicazione che sto preparando sulla serata del 14 ottobre 1983. Scuserai, facilmente credo in questa fase, sgrammaticature e incoerenze grafiche. Farò rileggere anche agli altri intervenuti il loro pezzo all’interno della cornice da me predisposta. Se, oltre a emendare linguisticamente i testi, voleste rimaneggiarli e aggiungervi delle postille, non ho nulla in contrario. La collocazione più opportuna per queste ultime potrebbe essere nell’appendice. In ogni caso, sono disponibile a tutti i suggerimenti, che possano migliorare il lavoro e non urtare le diverse sensibilità delle persone interessate. Colgo l’occasione per confermarti ulteriormente la mia stima (ho appena finito di rileggere le tue Insistenze) e resto in attesa fiduciosa di una tua tempestiva risposta. Cordialmente

VI. 25 aprile 1985: Fortini ad Abate

Caro Abate, sono assai perplesso, il materiale, nonostante la tua introduzione che mi pare ottima da tutti i punti di vista (è anzi il meglio del dattiloscritto ricevuto) è (1) superato dal successivo, anche se infelice, dibattito nazionale sul pentitismo e, nel caso specifico di Del Giudice dal processo e dalla condanna, della quale ultima è impossibile non tener conto; (2) notevolmente scombinato e poco leggibile sia per la forma orale degli interventi sia per le diverse posizioni politiche degli intervenuti, non evidenti quest’ultime dalle loro parole. Aggiungo che la mia ‘replica’ mi pare assolutamente confusa; vi ho accennato un argomento a me caro, quello degli operatori della comunicazione, ma in modo corsivo e, tutto sommato, sciocco. Dovessi darti un consiglio, sarebbe di non farne il samizdat che ti proponi. Meglio tu sviluppassi in un tuo organico saggio personale (eventualmente riprendendovi, ma come citazioni, gli interventi di quella sera nonché tanto altro che sull’argomento è stato detto e scritto successivamente) a partire da quanto hai messo in carta, alle p. 2-19; La poesia “Dei lager”, a essere franco, non mi pare troppo felice, con i suoi ‘scarti’ fra arcaismi e ironie. Non dobbiamo dar l’impressione di essere sempre indietro di un giro; altro è la necessaria memoria storico-politica altro il richiamarsi al passato come al punto o ai punti a partir dai quali “avrebbe potuto essere” quel che non è stato. Voglio dire che agli interventi di quella sera manca anche troppo una prospettiva politica (compreso al mio); e semmai qualcosa ne balena solo nella tua “Lettera” finale. Se invece, nonostante questa mia opinione, tu pensassi di fare egualmente il samizdat, ti dovrei pregare di togliere il mio secondo intervento o replica che non riuscirei a rimettere a posto. Avrei bensì da apporre dieci righe di nota al mio primo intervento. Ma mi pare (e lo dico anche nel caso di altri che volessero aggiungere, come suggerisci, qualcosa) procedimento di incerta correttezza. I testi sbobinati sono o non sono. Tanto varrebbe riscrivere tutto o fare altro, come suggerisco nel secondo § di questa mia. Le mie correzioni sarebbero comunque minime e solo formali; salvo, come ho detto, due o tre frasi che vorrei inserire, come nota a pie’ di pagina. Aspetto una tua decisione. Se intendi procedere, ti rimanderò il mio primo intervento con le correzioni. Grazie e arrivederci. P.S. Ripeto che tutta la discussione (anche internazionale) sulla legislazione speciale, le profonde divisioni insorte di nuovo nelle forze politiche sul tema del terrorismo e il ‘caso’ personale di D.G. (con una sentenza che non riguarda solo lui, che non è definitiva ma che pur dirà qualcosa di cui si poteva tacere prima del processo ma di cui non si può tacere dopo e, per di più, con un intervento della Scalzone che tocca un argomento che, dopo un anno e mezzo, ha avuto non poche risposte – tutto questo mi sembra bisognoso di altro pensiero e di altre risposte da quelle del 14 ott. 1983.

VII. Gennaio 1987: Commento di F. Fortini alla sua poesia Editto contro i cantastorie (Paesaggio con serpente, 1984) in «Laboratorio Samizdat», 1 gennaio 1987

Questi versi sono nel medesimo tempo un esperimento formale e una proposta di contenuto. Sono un esperimento formale perché montaggio o collage, un genere che ho praticato solo rare volte, e perché mi interessava un discorso , prosastico. Sono una proposta di contenuto perché in un periodo che dimenticava la grandezza delle Cina rivoluzionaria volevo se ne sentisse la voce maggiore, quella di Mao. Una gran parte del testo è quindi montaggio di scritti politici di Mao, del periodo antecedente la fondazione della Repubblica Popolare di Cina. Ma vi sono inserti intenzionali, vòlti a creare effetti d’urto di altro genere. Ad esempio «le forze nemiche / sazie di pane e di sonno» è frase (memorabile) di Mao ma si riferisce agli americani. Lo sconosciuto di cui si parla nella prima parentesi quadra («sparì nel 1937…») è un comunista sovietico di cui trovai, non rammento come, notizia; ed è inserito perché sia presente l’orrore della violenza intestina. Ora, che «al mattino / è più freddo…» non è una citazione ma un inserto; e così tutte le strofe successive è un continuo intervento sulla citazione. Una speranza come una cupola è una immagine volutamente incontrollata: (grande come) una cupola. Le due parentesi quadre ma anche i due versi successivi (Non posso garantire…) sono inserti assolutamente soggettivi: il tema della «fossa di spini» viene da un’altra mia poesia (in Questo muro) dal titolo di Dalla collina. Da qui in poi il clima è quello della edificazione rivoluzionaria nelle basi rosse: da «Però…» fino a «…a cuocere mattoni». Gli ultimi otto versi vorrebbero saldare definitivamente la voce (remota) del commento politico cinese e quella dell’autore. E i “cantastorie” ossia i poeti sono obbligati «a trasportare argilla e a cuocere i mattoni» perché essi, è vero, dicono la verità (sui poveri morti, la primavera, il passato) ma il balzo verso l’altro dalla morte e il passato esige una uscita fuori della dolcezza e persino della santità. «Questa è una guerra lunga e spietata…» La poesia vuole essere interiormente scardinata e non pacificante. E la lacerazione finale deve restare qual è, non una parola d’ordine ma una disperata esigenza. «Mordere l’aria mordere i sassi / il nostro cuore non è più d’uomini» avevo scritto quarant’anni fa in un Canto degli ultimi partigiani. Qui è la primavera ad essere “inumana” cioè “sovrumana”: la lotta esige che (Brecht) si guardi la natura «con impazienza».

Fr.F.

VIII. 28 dicembre 1987: Abate a Fortini

Caro Franco, questa è la prima bozza del lavoro di molti anni che cercherò di pubblicare. In uno schema tripartito (Salernitudine/Immigratorio/ Samizdat) cerco di riordinare il mio difforme, segmentato e a volte eccentrico viaggio esistenziale e intellettuale fra le “gioie dell’educazione cattolica” in un Sud povero e reazionario degli anni ’40-’50, l’euforia disperata e lo spleen dell’immigrazione anni ’60-’70, le scissioni le agonie e i lutti della crisi che ancora ci va trasformando. I “dialoghi” e i “monologhi” vogliono stringere in una cornice più ragionante il magma a volte scomposto e frammentato delle “poeterie” e del “narratorio”. I disegni intervallano e forse illustrano (come tu mi dicevi qualche anno fa, quando te li mostrai in una prima raccolta) quanto con la parola non so ancora dire. Gli strumenti di cui dispongo sono quelli che sono: poveri, bassi, a tratti forse eccessivamente fini – il “bottino” di un’acculturazione un po’ predatoria e ansiosa, ma non (credo) arruffona. Sono stato abbastanza severo con me stesso e ho praticato volontariamente (e anche prima di udirlo dalla tua voce) il consiglio di non smaniare per ottenere una pubblicazione e di conservare a lungo (per me è ormai una vita!) la propria produzione. Nel frattempo ho vissuto in mezzo alla gente e partecipato ai drammi comuni mai in vesti di “artista” e credo che la crisi individuale, che qui ho fissato, si sia collegata per diversi fili alle vicende collettive. Non so giudicare la qualità – conoscitiva, comunicativa, non accademica – di quello che ho prodotto, forse per l’eccessivo isolamento sopportato. Ho bisogno, perciò, di giudici, come quelli che tu più di me hai avuto modo d’incontrare. Aspetto, quindi, le tue considerazioni, che sai con quanto fervore e stima accolgo. Mi scuso di non aver rivisto a sufficienza i testi, ma m’interessa far circolare qualche fotocopia in questo periodo di vacanze fra amici per raccogliere critiche e suggerimenti. Il lavoro di limatura non lo sfuggirò.

IX. 8 gennaio 1989: Fortini ad Abate

Caro Abate, sono rimasto un po’ stupito, avvedendomi che il libro che mi hai lasciato dattiloscritto è tutt’altra cosa da quel che immaginavo. Credevo si trattasse dei testi alternati ai disegni che avevo veduti non rammento quando ma certo anni fa. Ora invece si tratta di versi nuovi, almeno mi sembra. Ho dato una prima scorsa e ho trovato la vivacità e l’impegno che ti conosco. Ma anche uno stato di disordine, di tentativi in più direzioni. Non riesco a vedere, di solido, che gli epigrammi di Le gioie dell’educazione cattolica e un certo numero di poesie di Immigratorio. Le parti narrative, francamente, mi paiono quasi tutte sbagliate. Non sono neanche troppo persuaso con Samizdat sesta finestra e le poesie successive, con l’espressionismo aggettivale, sempre teso, e di scarso ritmo. (Vedi, ad esempio, In un triangolo d’ombra azzurra, che sembra una delle prose). Mi spiace dirti queste parole eccessivamente severe per la considerazione che ho per te, per il tuo tenacissimo lavoro e per la tua coerente energia morale. Ma è come se, allontanandosi la matrice disperato-rivoltosa della tua protesta, venisse fuori – come dire – ‘letteratura’, quando forse avresti bisogno di un nudo, semplice, ripensamento delle tue forze e dei tuoi sentimenti, senza chiedere alla scrittura quel ‘di più’, quell’ ‘accompagnamento’ che è illusorio. O il diario mentale privato o il commento alle realtà pubbliche: queste mi paiono due vie alternative possibili. La stampa di questo tuo libro non ti porterebbe ‘buono’, come si dice; a un te più profondo e vero che, credo, c’è e verso il quale hai dei diritti-doveri, aggiungerebbe solo falso balsamo e successiva rabbia. Sono certo di non essermi saputo spiegare. Ma vorrei essermi sbagliato. Scusa la sorpresa, l’imbarazzo, la fretta. Tuo affezionato

X. 30 maggio 1989: «Per un’ecologia della cultura di massa». Serata inaugurale dell’Associazione culturale «Ipsilon» Introduzione di E. Abate (Sintesi)

Noi abbiamo fatto esperienza della cultura di massa dentro i processi d’immigrazione che hanno investito questo territorio alla periferia di Milano. Essi hanno fatto da spartiacque nella sua storia: negli anni Cinquanta Cologno Monzese era un paese agricolo; da allora e soprattutto negli anni Sessanta-Settanta è diventata la Milano-Corea di cui parlò Danilo Montaldi: città-dormitorio, città-fabbrica-dormitorio; e ora città-non-città o quasi-città. Per noi l’immigrazione resta “preistoria”. Essa è stata esperienza di sradicamento e di deprivazione culturale (Montaldi parlava di «una città ottenuta per esclusione») non ripensata a sufficienza. Ha sedimentato per Cologno una dipendenza gerarchica e strutturale dal centro metropolitano (Milano). Ma ha anche significato tentativo di nuova acculturazione attraverso il contatto di tanti di noi con la scuola, l’università, i partiti, i sindacati, i mass media. Ipsilon ha le sue radici in questa storia collettiva fatta di sconfitte, compromessi e resistenze. Molti, anche quando sono riusciti ad accostarsi ad una cultura «critica», l’hanno fatto già segnati però dalla scolarizzazione di massa che di solito è la sua negazione. E anche quando abbiamo fatto in tempo ad accostarci ad alcune opere di Marx, Lenin e Mao, subito è cominciata da parte della stessa Sinistra la loro liquidazione. Nel ciclo dei cinque seminari che proponiamo (ecologia della lettura, emarginazione, trasformazioni del lavoro, marxismo in crisi, memoria storica) ci proponiamo una riflessione sulla nostra scolarizzazione avvenuta prevalentemente sulla lettura di libri, (Ci hanno fatto progredire? Ci hanno accostato di più al mondo? Ce ne siamo sovralimentati? Con quali effetti?), sull’emarginazione nostra e dell’oceano oscuro che ci circonda e a volte ci lambisce [e su altre questioni che ci paiono di rilievo e attuali…]. Nel titolo dell’incontro abbiamo proposto la nozione recente di «ecologia». La facciamo nostra e la vogliamo applicare alla cultura di massa per ritornare a distinguere tra bisogni culturali profondi e di superficie e far riaffiorare, se possibile, quella che Fortini ha chiamato l’«antica causa». Abbiamo chiesto a Fortini di tenere a battesimo la nostra associazione perché nei suoi scritti abbiamo riconosciuto una parte dei nostri temi e un antidoto al riflusso e alla smemoratezza. Gli riconosciamo una funzione di maestro anche perché abbiamo trovato nei suoi libri due immagini veritiere (e forse complementari) della nostra generazione: – quella dei «fratelli amorevoli» («intellettuali addetti alla riproduzione culturale […] alla informazione-comunicazione[…] insomma […]quelli che in Francia chiamano gli “intellettuali bassi”», accondiscendenti all’esistente, ironici, evasivi; – quella che io chiamo degli «intellettuali periferici» che insisto a immaginarmi più ambivalenti e potenzialmente critici. Di questi un ritratto illuminante ho trovato proprio in Insistenze. A Fortini dobbiamo poi altre due spunti per quest’incontro: – il titolo di questa serata ricalcato su uno dei suoi – l’avvertimento a rifiutare la cultura-feticcio: «È impossibile avvicinare la grande poesia se non si vuole almeno sapere “di che vivono gli uomini” e se non ci si propone di operare di conseguenza».

XI. F. Fortini, Contro lo snobismo di massa

Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attraverso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato della parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo termine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indicava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono. Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tradizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cultura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le arti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un programma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sull’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma. D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impoverimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sapere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estremizzazione dell’individuo. La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitalismo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente contraddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chiamiamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un modello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii diverso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura»… Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capitalistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato – l’allargamento di un’area di deprivazione, di neoalfabetismo o di analfabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontanamento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi. E qui viene un punto molto importante. Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi meccanismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abbastanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informazione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediatamente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Venezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di buttare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti seduti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti”». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leggere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «Il Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferendomi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chiamiamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte. Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosiddetta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzione dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata. In che senso? Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avanzata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, artistica e scientifica…). Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a questi livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione verso gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allargarsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cultura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione. Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad altissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria accademica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ultimo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con delle banalità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricerca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enorme, astronomica. Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa produzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si articola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al proprio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa. Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cultura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande fenomeno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli audiovisivi. Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un particolare momento, destinato a durare, di concentrazione economicofinanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile riduzione della varietà inutile, appunto. Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Francoforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil…) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capacità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evoluzione del capitale mondiale nel tardo capitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani. La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida soltanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti dietetici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette quadri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa. Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assaliti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag. Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inquinante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamiamo le tirannie o le tragedie storiche. Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai valori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a maggioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assolutamente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è…) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per approvarla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guardi fino al momento della morte. Chi sono – mi chiedo ora, avviandomi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono certamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Adorno, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come volgarità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la C maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrugge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono continuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straordinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati. Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una proposta in quanto ho detto? Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – possiamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situazione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradizione di «sinistra». Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori? E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non individuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclusivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno inizialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per l’ingiustizia e l’oppressione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «insieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventare «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale. E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta. Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai problemi della cultura, di massa o non di massa. Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediatamente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare. Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in termini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corporazione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone…). Sarebbe interessante che si studiasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre categorie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica. È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa. Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori universali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostanzialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descrissero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al giornalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla. Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa. Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sarebbero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qualcosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo dell’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, credo che essa esista.

XII. 12 giugno 1989: Abate a Fortini

Caro Franco, eccoti la trascrizione dell’intervento principale che hai fatto a Cologno la sera del 30 maggio. Penso di averlo ripulito abbastanza e di pubblicarlo, dopo il tuo imprimatur sulla nostra semiclandestina rivista (Laboratorio Samizdat) assieme alla sintesi del mio intervento introduttivo a nome dell’ Associazione Ipsilon. Credo che riassumeremo anche gli interventi “di contorno” di quella serata, mentre aspetto il testo che mi hai promesso per telefono (quello – mi dicevi – destinato in un primo tempo alla Garzanti, se ho ben capito…[?]) per vedere come collocarlo. Come ti ho annunciato, ridiscuteremo all’interno dell’Associazione le tesi centrali dei tuoi interventi e ti scriveremo, ma qui m’interessa anticiparti alcune mie personali considerazioni nella speranza di consolidare un rapporto di collaborazione non diplomatico né strumentale. La mia prima impressione è stata di spiazzamento: tu hai considerato la formula programmatica dell’Associazione (Per un’ecologia della cultura) sorpassata dagli sviluppi del “tardocapitalismo” e l’hai ridotta a “itinerario individuale al bene”, pur concedendo la possibilità di una “resurrezione” a condizione che si abbia però una preliminare crescita di forza politica. Ma, potrei dire, è proprio quello che tentiamo di fare, tenendo conto del disastro, recuperando i “rottami” utilizzabili delle nostre “teorie”, incitando i giovanissimi ad unirsi su qualcosa da fare insieme e i vecchi (mi ci metto anch’io) a rielaborare i lutti senza chiudere gli occhi sul presente “imperfetto”. Il contributo che hai dato quella sera per aggiornare la nostra analisi della cultura di massa è utile (e niente affatto decorativo) perché si innesta nella nostra discussione interna, quella sera non del tutto esplicitata (e più avanti spiegherò perché…). Infatti, nella discussione preparatoria sul programma dell’Associazione sono state presenti sia opinioni che non vedono più la cultura di massa come mero kitsch (ma qualcosa di stratificato con punte di “raffinatezza”) e, quindi, molto vicine all’analisi che tu sei andato facendo, sia opinioni che valorizzano (o non vogliono trascurare) la tendenza ad una produzione “qualitativa”. Il silenzio del composito pubblico dopo il tuo intervento non mi ha stupito. In esso intravvedo elementi eterogenei e ambigui, su cui lavorare a fondo. C’è la reverenza verso il personaggio-Fortini, la paura di farsi “fagocitare” (emblematico – come tu hai colto – il discorso “virginale” della ragazza), la volontà caparbia di ruminare per conto proprio un discorso complesso frutto di un’esperienza che ha radici in epoche e ambiti rimasti “estranei”; ma c’è anche la reticenza ad esprimere i propri dubbi (o rifiuti) per un taglio cultural-politico “affascinate” ma “troppo” controcorrente e irto di paradossi. Non so quanto sia riuscito a sottolineare nella mia ansiosa introduzione il fatto che siamo “figli della cultura di massa” e impantanati in una problematica da “fratelli amorevoli” o da “periferici”, ma è indicativo che in alcuni commenti successivi l’accento sia caduto più sulla tua personalità che sui temi che hai affrontato e che l’indicazione scandalosa del Vangelo come lettura-modello non abbia convinto (Qualcuno mi diceva: sì, ma dopo aver letto il Vangelo cos’altro leggerò?). Queste annotazioni appena fatte sembrerebbero darti ragione su un punto, dove invece mi pare di dover dissentire. Si tratta – diciamo così – dello scarto (o, addirittura, della divaricazione), che tu hai provocatoriamente sottolineato durante la serata, fra la tua produzione di “idee generali” e la strada abbozzata con la proposta dei nostri “seminari aperti”, che hai fatto rientrare nella vecchia (ma buona) categoria della “con ricerca”. Davvero – come mi è parso di capire più emotivamente che razionalmente – pensi che fra il tuo e il nostro lavoro “di gruppo” manchino punti reali di contatto, per cui la tua partecipazione a quella serata sarebbe stata ornamentale e noi, intellettuali massa un po’ confusionari cerchiamo di tirarti dentro i nostri balbettii solo per la paura di camminare da soli o il bisogno di un padre-scaldamuscoli? Non lo credo. Il riferimento non solo ai tuoi testi ma alla tua persona viva non è di puro ossequio, né da parte mia né da parte degli altri giovani compagni. Negli anni abbiamo raccolto i tuoi messaggi in bottiglia (magari non sempre quelli più aggiornati!), son entrati nei nostri discorsi, nelle pratiche individuali e, almeno da alcuni anni, nei gracili tentativi di nuove pratiche collettive (la rivista ieri, l’Associazione oggi). Certo convivono con altri elementi, forse poco coerenti. Ma perché – di fronte a questo delicato passaggio – non unire le intelligenze? E perché unire solo le nostre intelligenze di intellettuali massa e non aggiungerci la tua o quella di altri a te noti ma da noi distanti? Mi ricorderai che sei vecchio, che sei stanco, che finora non ci hai mai chiuso la porta in faccia quando abbiamo bussato, che bisogna andare avanti da soli. Giusto. Eppure, sebbene in questi anni pesanti abbia condiviso questa autodisciplina maoista del contare sulle proprie forze e controllato le spinte verso precipitose aggregazioni, oggi mi pare possibile ritentare la costruzione di “zone intermedie” dove intellettuali massa e qualche intellettuale non cortigiano (ma più avvertito, per la possibilità di accedere in luoghi a noi vietati, sui progetti che ci stratificano ed escludono) possano rincontrarsi e cooperare. La tua ipotesi del mezzo busto-kamikaze che, rompendo il copione, getti nella macchina dei mass media un sasso-verità, è suggestiva. Ma ci saranno mai questi combattenti senza una pressione sociale organizzata? E, inoltre, il suo sasso-verità sarà raccolto, se nel “sociale” non agiscono già microgruppi capaci di estendere lo scandalo ma anche di ripresentare bisogni soffocati? Penso che ci voglia una convergenza, una reciprocità di scambi, affinché i più prossimi al “centro” avanzino nel loro processo di – diciamo – de-cooptazione e quelli, come noi, buttati nelle periferie non deperiscano in micro lotte crepuscolari. Smetto qua. Grazie ancora per la tua attenzione.
Con affetto

Note

1 Era Bandiera rossa la vogliamo sì.

2 Probabilmente Fortini si riferiva all’episodio riportato da Luca Lenzini: «A marzo [1969] è invitato dalla Rai a leggere una poesia inedita; per l’occasione compone Prima poesia televisiva contro l’estremismo, che non viene mai trasmessa (da Cronologia a cura di L. Lenzini, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. CVIII.

3 Samizdat Colognom. Pseudo-narratorio 1977-82 con 6 disegni, Sesto S. Giovanni, Edizioni CELES, 1983.

4 In F.Fortini, Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi, 1984, p. 26.

5 La poesia di Fortini e inl suo commento erano uno dei contributi (tra i quali un’intervista ad Edoarda Masi) della sezione Nei dintorni di Mao Tse-Tung pensata in occasione del decennale della morte di Mao.

6 Noto che l’osservazione è quasi la stessa che a Fortini fece Solmi nel 1940: «Ma insomma! Lei, Lattes, non si capisce cosa vuole, segue troppe direzioni!» (L. Lenzini, Cronologia, cit., p. LXXXV.

7 F. Fortini, Insistenze, p. 272, Milano, Garzanti, 1985.

8 «Alto e grosso, un giovanotto di gran barba nera e panni dimessi è entrato nella mia portineria, grondando pioggia. A distribuire espressi urbani. Ero là e credendolo latore di un libro che aspettavo da un amico, quasi gliene toglievo di mano uno che egli recava con sé, provocandogli un soprassalto e un arretramento indispettito; solo allora comprendendo che quella lettura egli la veniva facendo di porta in porta, sotto la mantella d’incerata, verisimilmente per preparasi ad un esame: si trattava infatti dell’ Orlando furioso […]Povero Ariosto? No, poveri – molto probabilmente – gl iscolari di quel bravo giovane volenteroso quando, presa la sua laurea in lettere, andrà magari ad insegnare letteratura italiana. E fin d’ora poveri noi, suoi docenti,
che accettiamo d’insegnare sotto un cielo dove, se vogliamo sperare di vivere, i postini devono studiare letteratura del Cinquecento e gli studenti debbono, per vivere, distribuire migliaia di costosi cartoncini a stampa per innumerevoli manifestazioni “culturali”» (F. Fortini, Insistenze, cit., pp. 283-284).

9 F. Fortini, Per un’ecologia della letteratura, in Id., Insistenze, cit. p. 279.

10 Ivi, p. 291.

11 Intervento di Franco Fortini trascritto e riveduto dall’autore in Laboratorio Samizdat, 7, novembre 1989 e poi in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 548.

12 Esce infatti in Laboratorio Samizdat, 7, novembre 1989 ma si legge ora, come detto, anche in Un dialogo ininterrotto, cit., p. 548.