Czesław Miłosz,
Trattato poetico
Tavola rotonda
Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella,
Giovanna Tomassucci

Pubblichiamo gli interventi di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca, Università di Pisa) in occasione della presentazione del Trattato poetico di Czesław Miłosz (Milano, Adelphi, 2012), tenutasi presso la “Fondazione del Fiore” di Firenze il 16 ottobre 2012, con il coordinamento di Maria Giuseppina Caramella.

Alfonso Berardinelli: È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; non solo perché le vicende e le tragedie storiche si impongono ai poeti, ma perché il linguaggio poetico, con la sua duttilità, varietà di registri e capacità di condensazione può essere uno strumento conoscitivo ed espressivo almeno altrettanto efficace della narrativa e della saggistica. Nella rappresentazione di un’intera epoca, Trattato poetico è un ossimoro, sovrappone e fonde due generi letterari distanti, disparati, facendo uscire la poesia dai suoi confini più convenzionali.

Mi sono inoltrato senza strumenti, armato solo della mia curiosità, nella lettura di quest’opera, per capire come sia possibile e come possa funzionare un poema epico scritto dopo la metà del secolo scorso. L’ho letto nella traduzione, che mi sembra ammirevole, di Valeria Rossella, che fa intuire (e questo è un pregio) difficoltà spesso insormontabili del testo originale. Una buona traduzione credo che debba saper alludere a quanto c’è di irraggiungibile nell’originale. Una traduzione che sa alludere, traduce l’intraducibile, indica una distanza incolmabile.

L’opera è di una complessità, energia e originalità che intimidiscono e travolgono il lettore non specialista di Miłosz, trascinandolo tuttavia in una specie di stato ipnotico. Fa parte dell’opera anche un apparato di note insolitamente esteso, redatto dall’autore stesso, che nella apparente modestia esplicativa integra i versi, estendendone l’effetto narrativo e intellettuale e potenziandone perfino l’impatto emotivo. Così lo stato ipnotico, indotto nel lettore dall’eccezionale potenza evocativa, simbolica, descrittiva e aforistica dei versi, si trasforma in qualcosa che oscilla tra il visionario, il cronistico e l’allegorico. Nella poesia di Miłosz quest’oscillazione è frequente, anzi è caratteristica. Fa parte della sua poetica non trascendere gli eventi, affrontare i fenomeni; senza per questo evitare quell’ampliamento speculativo che istituisce una terza dimensione: allegorica o mitica o contemplativa.

Si può avere l’impressione che l’autore proceda a volte per semplice linearità descrittiva o paratattica, a volte per libere associazioni oniriche e surreali. Ma poi ci si rende conto che al di là dell’accostamento e dall’urto di materiali e strati semantici eterogenei si stende un fitto tessuto di meditazioni e letture sul senso della Storia e sulle operazioni della Natura: fra cronache d’epoca, autobiografia, simbolismo esoterico, filosofia e storia del Novecento.

Miłosz ha letto sia Hegel che Linneo, sia il teosofo settecentesco Emanuel Swedenborg che Marx. È stato influenzato negli anni Trenta da Yeats, Eliot e forse da Auden; ma prima soprattutto dall’enigmatico profetismo di William Blake, a sua volta influenzato del neoplatonismo e dalla Bibbia.

Lo stile poetico di Miłosz si presenta perciò stratificato e dilatato in più direzioni e dimensioni che convivono in un insieme sconcertante di intarsi e impulsi dinamici, sia tragici che vitalistici. Gli orrori storici (le spartizioni e occupazioni tedesche e russe della Polonia, la Shoah) invadono la natura, la sconvolgono, la avvelenano. Ma le potenze metamorfiche della Natura non si fermano: continuano a estrarre caparbiamente dalla morte materia per una nuova vita.

È questa sfrenatezza eclettica e sincretistica, capace di mescolare, al di là di ogni coerenza, sistemi culturali eterogenei, ciò che permette a Miłosz di elaborare un linguaggio poetico, un pensiero, una percezione polimorfica della realtà che nessuno sgomento riesce a depauperare e paralizzare.

Il Trattato poetico è diviso cronologicamente e tematicamente in quattro parti. Nella prima (Bei tempi) torniamo nella Cracovia colta, sofisticata e frivola della Belle Époque, tra caffè affollati di artisti d’avanguardia, musica all’aperto e fuga di emigranti verso le città industriali del Nord America.

Nella seconda (La capitale) siamo a Varsavia tra il 1918 e il 1939, l’anno dell’invasione nazista. Con la terza e quarta sezione entrano in scena le due dimensioni manifestamente contrapposte e segretamente comunicanti: Lo Spirito della Storia (Varsavia 1939-1949, da Hitler a Stalin) e La Natura (Pennsylvania 1948-1949). Il tono della nota scritta da Miłosz per introdurre questa ultima parte è sdrammatizzante. Finalmente lontani dalle tragedie europee e polacche, l’America è un altro mondo e un’altra vita (tema non banale, che si ritrova in Nabokov e in Singer). Miłosz parla di sé in terza persona:

‘Il sole è qui. Chi, ‘Mentre nel capitolo precedente il narratore si confrontava con eventi storici e decisioni politiche, qui cerca di dimenticare per un attimo l’Europa stretta nella morsa di forze demoniache, e di ritrovare un certo equilibrio osservando la natura e l’eterno succedersi delle stagioni. (p 105)

Là è il nostro inizio. Inutile schermirsi,
inutile ricordare antiche Età dell’Oro.
È meglio accettare e riappropriarsi
del baffo impomatato insieme alla bombetta,
del tintinnio di catenelle in similoro.

Riappropriarsi dei canti intonati
nei neri borghi industriali
reggendo il boccale della birra.
Alzarsi all’alba, dodici ore lavorare,
nel fumo creare progresso e ricchezza.

Piangi, Europa, aspettando una carta d’imbarco.
Una sera, a dicembre, nel porto di Rotterdam
starà silenziosa la nave di emigranti.
Sotto pennoni diacci, come pini innevati,
sgorgano litanie in qualche idioma
contadino, sloveno o polacco.

Colpita da un proiettile, prende a suona una pianola.
Nella taverna quadriglie per coppie scalmanate. (p. 16)

Là dove il vento porta il fumo del crematorio
e viene il suono dell’Angelus dai campi
lo Spirito della Storia si aggira sibilando.
Ama queste contrade lavate dal diluvio
informi da allora e da allora pronte.
Gli piace una gonna che brilla fra le siepi
Così in Polonia, come in Arabia o in India.

Allarga in cielo le sue spesse dita.
Sotto il palmo disteso in bici se ne va
chi organizza reti di sicurezza,
il delegato del partito militare a Londra.
Pioppi, minuti come segale in un baratro
conducono dal bosco al tetto di un castello,
là, in sala da pranzo seduti intorno a un tavolo
ragazzi stanchi con indosso gli stivali. Agli staffieri
dai cespugli cade la polvere sui baffi.

Già lo vide e riconobbe il poeta, è il nume
peggiore cui è soggetto il tempo, ed i destini
di effimeri reami la cui durata è un giorno.
Il suo viso è come dieci lune,
al collo una catena di teste ora spiccate.
Chi non lo riconosce, toccato da una verga,
inizia a balbettare perdendo la ragione.
Chi gli s’inchina sarà soltanto un servo,
il suo nuovo padrone lo disprezzerà.

O liuti e broli e corone d’alloro!
O dame, o principi mitrati, dove siete!
Vi si poteva compiacere con l’adulazione,
afferrando
la borsa di monete d’oro
con un abile guizzo. Lui vuole di più. Vuole
la carne e il sangue. (pp. 38-39)

La Natura:

Il sole è qui. Chi, bambino, ha creduto
basti comprendere lo schema dell’azione per infrangere
il replicarsi delle cose è umiliato,
marcisce nella pelle altrui, per i colori
di una farfalla ha muta ammirazione
priva di forma e all’arte ostile.

Perché non cigolassero i remi negli scalmi
li avvolgevo in un fazzoletto. L’oscurità scendeva
dalle Rocky Mountains, dal Nebraska e Nevada,
radunando in sé i boschi di tutto il continente.
Le braci del cielo, una nuvola acre,
e i voli degli aironi, gli alberi della torbiera,
le frasche secche, illividite e nere. Dispersa dal canotto
l’aerea utopia delle zanzare ricomponeva
i propri castelli rutilanti. Frusciò l’ombra
della ninfea affondata dalla chiglia.

È notte ormai, si fa cinerea l’acqua.
Suonate, musiche, ma impercettibili
come il ronzio dell’orologio, perché aspetto.
Il mio centro è la tana del castoro.
L’acqua del lago s’increspava, arata in cerchio
dalla nera luna di una bestia salita
dall’abisso, gorgogliante di metano.
Non sono immateriale né mai lo sarò.
Uno sguardo incorporeo, no, non m’appartiene. (pp. 54-55)

Alla fine è dunque l’energia vitale della natura indomabile, madre di tutti i simboli magici e metafisici, a vincere la sinistra superbia dello Spirito della Storia, invenzione umana. Il più deciso, efficace disprezzo che meritano le tragedie storiche è quello che viene dunque dalla contemplazione della Natura e della sua inesauribile varietà:

Solo la rosa, simbolo sessuale
o di amore e bellezza ultraterrena,
apre un abisso che mai conosceremo a fondo. (p. 60)

Dunque:

Perché non scrivere un’ode all’antica
sul ciclo delle stagioni dettato dalle stelle,
seduti a un rozzo tavolo in campagna,
scacciando uno scarabeo con il pennino? (p. 61).

* * *

Giovanna Tomassucci: Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile, negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa), atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse diverso?) a essere una «regione nebulosa» su cui si «danno poche notizie e se mai errate».

Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980). Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle quelle samizdat’.

Ben diversa era stata la diffusione prima dell’esilio di un altro suo trattato in versi, il politico Trattato morale (1947, nel 2002 ne scriverà un terzo, il Trattato teologico) che aveva avuto grande eco tra migliaia di lettori che se lo erano trascritto a macchina dalla rivista «Twórczość» e passato di mano in mano.

Nel 1955 la Polonia si trovava in un momento di transizione cruciale: con la destalinizzazione e il tramonto definitivo del Realismo Socialista si era aperta la nuova, breve stagione del Disgelo. In agosto la rivista varsaviana «Nowa Kultura» aveva coraggiosamente stampato il manifesto antistalinista di Adam Ważyk, Poema per adulti, andato subito a ruba e presto tradotto in Occidente (in Italia da Franco Fortini su «Ragionamenti» [Dicembre 1956-Gennaio 1957], in Francia dal sartriano «Les Temps Modernes» [Février-Mars 1957]).

Nel Trattato poetico Miłosz continua a fare i conti con la conversione allo stalinismo degli intellettuali polacchi: alcuni di loro (come il poeta Gałczyński, il Delta della Mente prigioniera, che lo aveva ferocemente attaccato per la sua richiesta di asilo politico) verranno effigiati nella II parte, La capitale. Per individuare le radici della fascinazione del comunismo arretra nel tempo, indagando il mito del Progresso, tanto diffuso non solo durante la Belle Époque e gli anni Venti, ma anche tra le generazioni che attraverso varie e opposte ideologie hanno creduto nel senso e nell’opera di riscatto della Storia. Così facendo il poeta (che in seguito diverrà professore di Letterature slave a Berkeley e pubblicherà una Storia della letteratura polacca) scopre una linea che accomuna i più diversi movimenti poetici: il Simbolismo, le avanguardie e i giovani poeti martiri della Resistenza.

Il poema è infatti anche un repertorio critico della poesia polacca della prima metà del Novecento e insieme un ambizioso progetto di rivisitazione dei generi della poesia per renderne elastici i confini. Per un poeta polacco un’operazione simile è in qualche modo più naturale, perché può fare riferimento a una ricca tradizione otto-novecentesca di drammi in versi e poemi dal carattere filosofico o narrativo.

Ma Miłosz è anche un grande estimatore della poesia anglosassone. Nell’abisso della Polonia occupata da nazisti e sovietici era stato il primo a tradurre la Waste Land, e proprio Eliot aveva costituito per lui una sorta antidoto alla retorica patriottica dei giovani poeti della Resistenza. Se il Trattato si ispira alla tradizione dei Didactic poems e in particolare all’Essay on rime di Karl Shapiro (che Miłosz aveva invano cercato di pubblicare in patria), vi si potrebbe anche cogliere un’impronta eliotiana: costituisce infatti un materiale composito, frammentario, ma intellettualmente compatto, dalle molteplici voci e dalla spiccata vena satirica. I suoi ritratti dei poeti polacchi del Novecento sono fulminanti, spesso crudeli, con il retrogusto dell’aforisma. L’Ars poetica si veste qui da pastiche, alterna leggende, fiabe e aneddoti, micronarrazioni, particolari autobiografici (la guerra, l’incontro con la natura selvaggia dell’America), digressioni filosofiche e poetiche, canzoni e citazioni poetiche. La registrazione degli anni ’70 che ascolteremo fra poco, in cui lo stesso Miłosz legge un frammento della III parte del Trattato, ce lo farà parzialmente intuire. Vi si avvicendano due motivi musicali, l’uno legato alla Shoah (il canto di un gruppo di ragazze ebree condotte sul luogo di esecuzione), l’altro al folklorismo di certa poesia polacca degli anni Venti (le scoppiettanti onomatopee di un’orchestrina ambulante della poesia di Tytus Czyżewski Canto di Natale, rivisitate da Miłosz in maniera bonariamente satirica). A essi si aggiungono le citazioni di versi del romantico Adam Mickiewicz.

In questa personale galleria omissioni e silenzi non sono meno importanti dei richiami. Lo stesso Miłosz – la cui opera aveva pur costituito una svolta importante fin dai primi anni Trenta – è qui presente non come poeta, ma come “sentinella” (II parte), testimone o anonimo osservatore della Storia (III parte, Lo spirito della Storia) e della Natura (IV parte, La natura). Nel Trattato è assente anche la poesia del secondo dopoguerra, quasi che l’avvento dello Stalinismo e del Realismo socialista, movimento antipoetico per eccellenza, abbia costituito un’insormontabile cesura. Manca lo stesso recentissimo Poema per adulti di A. Ważyk, che pur allora andava destando scalpore in Polonia e in Europa. Miłosz manifesta così il suo scetticismo nei confronti del Disgelo (Ważyk stesso era stato fino a poco prima uno dei più accaniti sostenitori dello stalinismo in Polonia) e dichiara necessaria una profonda riflessione critica.

Lo scopo del Trattato è infatti la ricerca di una nuova collocazione identitaria della poesia, non solo di quella polacca… E anche quella, più ardita, di nuove forme e generi poetici, che non siano «né troppo poesia né troppo prosa» – come scriverà anni dopo nella sua splendida poesia Ars poetica?

Con la fine dello stalinismo, dopo compromissioni ed evasioni – si chiede – la poesia può forse rivendicare un ruolo etico? Denunciare (o addirittura contrastare) i demoni della Storia?

La risposta non può che essere affermativa. Figlio di una cultura che da tempo aveva riservato ai poeti la guida spirituale della nazione, Miłosz delega la poesia a intrattenere un legame profondo (e ambivalente) con Storia e Natura, rappresentate nel Trattato come figure demoniache. Lo Spirito della Storia, che affascinerà Brodskij, viene qui raffigurato in maniera surrealisticamente orrifica: in frac, simbolo della sua appartenenza alla civiltà, ma con al collo una collana di teste rinsecchite, da idolo primitivo.

Legata strettamente ai demoni della Storia, la poesia si rivela così prossima allo spiritismo, all’esorcismo e alla magia, come verrà dichiarato qualche anno dopo nella già citata Ars poetica?:

Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.

Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.

Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
[…]

L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.

Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.1

Il rapporto della poesia, “dominio dei demoni”, con la demoniaca Storia non può quindi dirsi di tipo astratto o intellettuale. Tra le due si instaura un rapporto doloroso, ma produttivo. Nell’Ode finale esso si manifesta nella fantasmagorica «bufera che ha soffocato la strofe di Orazio» (p. 66), nella I e II parte invece sotto le forme di un incessante dialogo con i poeti del passato, in una sorta di rito di evocazione dei morti, simile a quello già messo in scena in due basilari drammi in versi polacchi: la IV parte degli Avi (1822) di Mickiewicz e Le nozze (1901) del simbolista Wyspiański, entrambi apertamente citati nel Trattato.

Cercando di aprire vie nuove alla poesia, Miłosz dialoga con i suoi maestri, con gli amici e oppositori della giovinezza, lasciando aperta l’ancora incerta questione della poesia del proprio tempo…

Mi piace infine ricordare che in quello stesso 1957, anno in cui apparve il Trattato poetico, in Polonia usciranno le opere di due grandi protagonisti della poesia polacca: Ermes, il cane e la stella di Zbigniew Herbert e Appello allo Yeti di Wisława Szymborska.

* * *

Valeria Rossella

Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse.

La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria.

Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta.

In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante sinuosità di una lingua slava.

Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal doppio settenario all’endecasillabo.

Del resto anche il verso libero non è mai libero veramente, poiché mantiene dentro una sintassi aliena, che è il respiro della poesia.

Il Trattato poetico è un grande affresco epico-storico (siamo in un’altra dimensione rispetto ai cammei perfetti della Szymborska). È un saggio-racconto-poema con ampi e potenti squarci lirici in cui i singoli destini sono sbalzati ad altorilievo su questo magma che li produce.

La poesia di Miłosz è arditamente anti-novecentesca nel tono gnomico che spesso assume, nel suo rifiutare il narcisismo, l’astrazione formale, l’estetica del dolore. Più volte Miłosz dichiara di non amare la poesia confessionale, l’espressione esclusiva di stati d’animo, individuando anzi come caratteristica fondamentale della poesia polacca il suo essere in costante connubio con la storia.

Da questa radice nasce la vocazione del letterato a essere voce corale e guida, come Mickiewicz, e a proporre il modello dantesco del poeta come testimone.

Nel Trattato troviamo il ruolo del poeta come testimone e rabdomante:

Saranno i poeti i tuoi bastioni,
segno che l’unica patria è nella lingua. (p. 24)

In Polonia il poeta è un barometro. (p. 29)

Il poeta sentinella nel buio (lo steso Miłosz)

In via Tamka il tacchettìo di una ragazza.
Cinguetta a mezza voce, camminano in due
su piazze erbose e la sentinella (tacendo invisibile
in una macchia d’ombra) presta orecchio
al loro fievole ridere nel lenzuolo del buio.

Non sa come reggere a tanta compassione.
Non sa come esprimere quel comune destino.
La piccola prostituta e l’operaio di Tamka.
Davanti a loro il terrore del sole che nasce.

E forse penserà più di una volta
cos’è stato di loro nei giorni e negli anni. (p. 33)

Non ama nemmeno, Miłosz, la poesia pura, mallarmeana per intenderci, tanto che spesso parla del «difetto dell’armonia» (skaza harmonii) come una gabbia a cui sfuggire. Già in Ars poetica?, un testo del ’68, inizia a formulare la teoria di una forma spuria:

Sempre ho desiderato una forma più capiente,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa.2

I libri successivi infatti saranno mobilissimi zibaldoni costituiti da testi poetici propri, brani di prosa, traduzioni, stralci di epistolario e così via.

La poesia è del resto per Miłosz la ricostruzione di un ordine armonico in cui ogni esistenza trova la sua casa, aldilà del tempo storico.

Perché l’individuo è minacciato da una parte dallo Spirito della Storia che lo fa precipitare nell’obnubilamento della mente e in un sonno di pietra, dall’altra dalla Natura il cui unico interesse è il perpetuarsi della Specie.
La storia infatti è eraclitea, tutto scorre, ma la poesia è parmenidea: un eterno presente dove tutto è.

* * *

Riportiamo la traduzione del frammento della III parte del Trattato poetico e di seguito il link di un video dello stesso Miłosz in una registrazione degli anni Settanta.

Lo spirito della Storia

La goffa lingua dei contadini slavi
a lungo rime fruscianti ha elaborato
per intonare alfine un canto anonimo
che si sente oggi ancora nell’aria tremolante,
là dove fra le palme sibilano spume bianche,
là dove l’aquila pescatrice tra le fredde
correnti del Labrador si tuffa, aratro
di splendore fra gli abeti del Maine.
Semplice era quel canto. Un madrigale, un tempo
cantato alle donzelle,
con l’accompagnamento di una viola,
suonava nella bella stagione
per la prima volta a ritroso. E questo è tutto.

L’inverno passerà

Ragazze ebree marciando esprimevano
l’unica gioia, la vendetta.
Sì, nottettempo le gru saran scacciate,
la neve secca non più ferirà la mano.
Sì, un ciottolo, roseo come labbra, scricchiolerà
sotto i piedi nel letto di un torrente.

Arriverà la primavera

Sì, gonfierà i tulipani un succo verde,
il maggiolino ronzando picchietterà sui vetri,
sì, il fidanzato intreccerà alla promessa sposa,
una corona di giovani foglie di quercia.

Su di noi la colpa

Su di noi. Perché adesso siam un corpo solo.
Non mie, ma nostre ossa e carne, nervi.
I nomi di Miriam, Sonia e Rachele
si spengono piano e gelano nell’aria.

Cresceva l’erba

Erba sconfitta dall’ironia del canto.

Cetrioli in salamoia nel barattolo
appannato con un gambo di aneto.
Sono eterni. E al mattino
schioccano nel focolare rami secchi.
Nella scodella zuppa e cucchiai di legno.
Zappe e canestri all’ingresso, sotto il muro,
là dove sta appollaiata la gallina.
E campi, ancora campi, interminabili.
Fino a Skierniewice distese piatte e nebbia.
E ancora nebbia e piatte distese giù fino agli Urali.
Su, non fermarti, lontano è il mezzogiorno.

Convoco infine in cerchio la gioventù alla moda
che indossa una stoffa di leggero nanchino
in abiti eleganti trascorriamo il mattino
e ci dilettiamo in conversazioni argute.

Sui campi di patate, sulla terra autunnale
scintilla, fiocco di neve, un aeroplano.
Volteggia, fa capriole in alto, sulle nubi.

Dite, parlate, su, cosa vi manca,
chi di voi ha fame, chi ha sete.

Non servono più grani amari di senape.
La poesia esige porcellane calde,
di una cerchia di Grazie affascinanti.
Un succo distillato da erbe greche e latine.
Fumando la pipa, vestendo stoffe di nanchino
lasciate che il poeta sogni ancora.
Casa di legno, ma con le fondamenta.

Là c’erano il Fedone, la Vita di Catone.
O se il venerdì in casa si accendevano
le candele sui candelabri che brillavano,
dai versetti di Daniele e di Isaia
il giovane per sempre serbava la lezione
su quando tacere o comporre versi.

Sulle alture di Nowogródek, un castello.

Servono acque chiara e colline boscose.
Un uomo qui mai dovrà difendersi.
Giacché circondato da un orizzonte vuoto
mai crederà di abitarne il centro. Sua sola
consigliera, l’ombra che con lui si muove.

Chi non è nato tra queste pianure
solcherà il mare, viaggerà via terra
sotto i meli lungo le rive del Weser
sotto i pini del Maine inseguendo il riflesso
dei fiumi neroverdi della patria,
come in una folla di visi stranieri
si insegue quell’unico volto, un tempo amato.

Mickiewicz è troppo difficile per noi,
Non è nostra la scienza dei signori o degli ebrei.
Abbiamo solo spinto un erpice o un aratro.
Era altra la musica ei giorni di festa.

O là là
i pastori per i campi
o là lì
i pastori sono qui
venite venite alla capanna
a vedere la Madonna
e Bartolo contadino
dirà un raccontino

I contrabbassi bussano, dal grosso ventre vibrano:

du du du
a maggio un omaggio
per il Signore Gesù
suoniamo orsù

Violini di tiglio pigolano flebili:

frin frin frin frin
suoniamo così
lallera lallera
da mane a sera

Il vecchio Bartolo soffia e comprime la zampogna:

Lirum la, lirum li,
per il piccino suoniamo così

A gara risponde il clarinetto:

dlin dlin dlin dle
per mamma e bebè

E dei contrabbassi l’accompagnamento:

Per Cristo Signore
a tutte le ore
suoniamo suoniamo

Sono passate tante cose, tante.
E se nessuna opera ci aiuta
verrà Czyżewski coi canti di Natale.
E i contrabbassi che han già vibrato, vibreranno.

Arrotolai il tabacco, leccando la cartina,
feci schermo al cerino col palmo della mano.
Perché non un’esca? Perché non l’acciarino?
Soffiava il vento. Sedevo a bordo campo,
pensando e ripensando. Accanto a me, patate. (pp. 45-49)

Ascolta l’audio di Miłosz che legge il frammento

[Tutte le citazioni, se non altrimenti indicato, sono tratte da Czesław Miłosz, Trattato poetico, Milano, Adelphi, 2012]

Note

1 C. Miłosz, Poesie, trad. it. di P. Marchesani, Milano, Adelphi, 1983, p. 118.

2 Ivi.