
Hannah Arendt
Il 7 ottobre 2023 è stato un giorno di orrore, la cui responsabilità è stata attribuita ad un intero popolo condannato all’annientamento per volontà della parte offesa e con il consenso fattivo dell’intero Occidente. Un genocidio in atto che né le Nazioni Unite, né la Corte internazionale di giustizia, né il buon senso politico, né lo spirito umanitario hanno potuto arrestare.
Il 5 novembre 2024 siamo stati messi di fronte all’evidenza che la democrazia, di cui vantiamo la superiorità culturale e morale in fatto di amministrazione della cosa pubblica fino a volerla esportare ovunque, è oramai ridotta ad un puro esercizio elettorale condizionabile secondo convenienza da poteri economici e tecnologici sottratti di fatto all’interesse pubblico.
Queste le date che hanno segnato negli ultimi tre anni la nostra parte di mondo e implicato di riflesso più o meno direttamente il resto dell’umanità. Andrebbero tenute assieme, quanto meno come segnali altamente preoccupanti di una frattura che d’un tratto rende incerto, imprevedibile, se non decisamente oscuro, il futuro prossimo. Ma per lo più non succede. È già molto se si riesce a star dietro ad un singolo evento che ci tocca da vicino e difficilmente comunque se ne colgono le implicazioni e perciò quanto lo collega a fatti apparentemente di tutt’altro genere o lontani nel tempo.
Eppure nel nostro caso certe evidenze sono a portata anche di uno sguardo superficiale. Come mai non si coglie la prossimità tra Putin e Trump per quel che concerne la concezione della democrazia e perciò l’esercizio del potere? E ciò che la Russia sta facendo in Ucraina è così diverso da quel che gli Stati Uniti hanno fatto negli ultimi decenni in medio oriente e Afganistan in nome della democrazia? E non è in questo stesso spirito che americani ed europei inviano armi di distruzione di massa in Ucraina e Israele sempre, s’intende, a “titolo difensivo”?
La questione non è di poco conto e non pretendo di possederne una qualche verità, ma bisogna pur cominciare a parlarne con lo spirito di chi vuol comprendere e non si lascia condizionare dall’inerte succedersi dei fatti presi a se stanti, quanto basta perché non si veda niente dell’insieme e ci si convinca che, malgrado l’inquietudine, nulla di davvero pericoloso sta succedendo, non almeno a noi. Certo, siamo tutti condizionati dal posto che occupiamo nel mondo, ma come ebbe ad osservare Robert Musil in una contingenza storica non molto diversa dalla nostra, «non siamo appesi ai fili di una qualche marionetta del destino, ma siamo legati a un numero incalcolabile di piccoli pesi legati confusamente tra loro, perciò possiamo dare noi stessi lo scossone decisivo».
Penso che l’ostacolo stia innanzitutto nel modo in cui siamo oramai portati a rappresentarci questo tempo senza profondità storica; una pura sequenza di accadimenti al di fuori di un ordine morale e spirituale condiviso, e dunque di un discrimine tra vero e falso, tra giusto e ingiusto, tra bello e brutto. In uno stato dell’esistenza in cui tutto è relativo, in cui la fattualità della scienza si è imposta ovunque, le capacità reattive si affievoliscono, si è portati più all’acquiescenza che all’assunzione di responsabilità, e dunque al compito vitale di giudicare il proprio tempo.
A cominciare da cosa ne è della democrazia, di questa bandiera che copre la volontà di potenza da parte di un Occidente indisponibile a smettere l’habitus di una secolare superiorità sul resto del mondo. A questo è servita, dalla guerra del Golfo fino ad oggi, la sequenza di interventi militari a scopo repressivo o punitivo da parte della potenza americana, seguita da un’Europa riluttante ma incapace di riconoscersi in ragioni proprie, in una propria visione delle relazioni internazionali istruita dall’esperienza devastante del duplice conflitto mondiale. Interventi che non sono certo a difesa della democrazia, la cui pratica, separata dalla nozione di giustizia, si riduce ad un insieme di formalità più o meno coerenti, più o meno rispettate.
Si ripete spesso che la democrazia è una forma di governo di per sé fragile di cui occorre prendersi costantemente cura, ma questo non basta a impedire la manipolazione dell’opinione pubblica in balìa della lotta dei partiti, né che siano eletti al governo di grandi nazioni personaggi non solo privi di una qualche rettitudine etico-politica, ma che anzi su tale mancanza fanno leva per acquisire consenso. Al punto che, per stare al caso americano, un uomo responsabile di un tentativo di colpo di Stato, che peraltro non nasconde l’intenzione di svuotare dall’interno la Costituzione stessa, non è stato neutralizzato né per via politica né per via giudiziaria. Cosicché nei fatti il voto popolare è onorato come un feticcio di democrazia, un puro mezzo per stabilire una maggioranza di governo a prescindere da ogni considerazione di valore.
Né potrebbe essere diversamente dal momento che la modernità ha separato l’ordine delle cose materiali dall’ordine delle cose spirituali, la politica dalla morale; né sarà possibile ricollegarle finché non si troverà il modo di sottrarre la vita pubblica al potere del denaro, dello Stato centralizzato e della tecnologia, i tre poteri congiunti che, secondo Simone Weil, ci dominano e a cui rendiamo quotidianamente culto. Ne consegue uno stato generalizzato di istupidimento che sempre più ci allontana dalla consapevolezza che l’esercizio della democrazia ha senso soltanto se determina le condizioni culturali e sociali affinché ciascuno possa sentirsi inserito in una pluralità di relazioni, in una circolarità libera ed ordinata di pensieri, di sentimenti, di aspirazioni, in un ordinamento in cui veda riconosciuti i propri bisogni fisici e morali e questo unicamente in considerazione che è un essere umano.
Ma lo stato delle cose è tutt’altro. Di nuovo, come nella prima metà del Novecento, siamo messi dinnanzi all’evidenza che la guerra è connessa alla nozione stessa di Stato e che perciò ad un certo livello di conflittualità essa torna inevitabilmente a presentarsi, si tratti di confini da modificare o di egemonia politica a livello planetario. Di questo ci avvertono e a questo ci preparano la guerra combattuta in Ucraina tra Russia e Nato che minaccia di trasformarsi in guerra mondiale, e per altro verso il conflitto palestinese, spinto oramai a un estremo che rischia di annullare tutto quanto si è architettato in termini di diritto per premunirsi dal ripetersi degli orrori del nazismo. Dunque soltanto un limite, che si fa ogni giorno più labile, ci trattiene dallo sprofondare nell’arbitrio della pura forza. Lo sta a dimostrare l’insipienza con cui si è reagito all’aggressione della Federazione Russa preferendo lo scontro alla mediazione diplomatica, e ora il rigetto da parte degli Stati Uniti e l’ambiguità delle reazioni di molti paesi europei alla decisione della Corte penale internazionale di processare il vertice politico israeliano per crimini contro l’umanità, per lo più incapaci se non ostili a riconoscervi il tentativo in extremis di trattenerci sull’orlo dell’abisso.
Possono sembrare questioni diverse, ma ad accomunarle c’è in generale il prevalere della convenienza in chi ha responsabilità politica su ogni considerazione che nasca dall’interrogarsi circa il giusto e l’ingiusto, fino a ritenere scontato l’enorme carico di sofferenze delle popolazioni civili in balìa dei moderni mezzi di annientamento. E c’è in particolare la volontà sottesa di farla finita con ogni impedimento morale e giuridico all’uso della forza nel dirimere i confitti. Cosicché di nuovo occorre chiedersi cosa ne è della democrazia, posto che evidentemente solo formalmente la sovranità è riconosciuta al popolo. C’è dunque una larga parte di finzione, che in questi ottant’anni si è insinuata, ad esempio, nella nostra Costituzione, rendendo sempre più netta la divaricazione tra l’affermazione di principio e l’esercizio del potere rimasto di fatto nelle mani di una frazione della nazione, che dei bisogni del popolo si è per lo più occupata nella misura delle proprie convenienze politiche e ora si dimostra in ampia parte insofferente dei limiti imposti da quel dettato ritenuto fuori tempo.
In questo contesto il caso israeliano è emblematico per la sua peculiare eccezionalità: un caso estremo, che consente di cogliere in nuce la direzione che si sta imponendo nella società in forza delle esigenze assolute dell’economia grandemente potenziate dalla tecnologia. Stiamo in effetti assistendo al ritorno imponente della questione ebraica, in una forma sorprendentemente rovesciata nella misura in cui lo stato d’Israele è assurto a simbolo dell’Occidente bianco, ricco e, beninteso, democratico, contrapposto a quanti non si adeguano alla sua egemonia. Di qui il sostegno a prescindere di tutte le destre alla causa israeliana, ma anche una diffusa indifferenza per le immani sofferenze della popolazione palestinese, attestata oltre ogni decenza dall’amministrazione americana a gestione sia Democratica che Repubblicana, a dimostrazione che le differenze politiche tendono a venir meno quando lo Stato è messo in questione circa l’illimitatezza della sua potestà nonché l’impunità di chi la esercita, come ultimamente è stato persino codificato dalla Corte suprema degli Stati Uniti.
Quanto all’Europa, la difficoltà di molti Paesi ad assumere una posizione netta, a cominciare dalla Germania, ha motivi che affondano in un passato in cui la questione ebraica è stata secolarmente all’ordine del giorno fino alla “soluzione” nazista, che seguita ad oscurare per molte vie la nostra capacità di giudizio umano, culturale, politico. Ma c’è dell’altro e di più generale a impedire una comprensione all’altezza della questione e perciò la possibilità di una sua soluzione. Due mesi fa, sulle pagine degli «Asini» Stefano Levi Della Torre ha pubblicato un articolo in cui cerca di dar conto del conflitto israelo-palestinese rilevando le “mutazioni” subite dallo Stato israeliano a seguito delle occupazioni dei territori palestinesi; occupazioni che avrebbero determinato «un eccesso difensivo diventato una patologia cronica» con effetti degenerativi su un corpo in cui «uno stato di diritto convive con uno stato di polizia coloniale imposto ad altri. Tanto è vero che le stato di diritto ha cominciato a vacillare» fino a «sancire la mutazione della democrazia in un’etnocrazia». L’immagine del corpo dello Stato israeliano scisso in se stesso è assai significativa perché offre un esempio illuminante circa la contraddittoria duplicità dello Stato moderno stesso, che richiama quanto aveva osservato Marx in un saggio in cui si occupava proprio della Questione ebraica, laddove a proposito dei liberi Stati dell’America settentrionale denunciava in chiave antihegeliana la duplicità dello Stato, che per un verso proclama l’uguaglianza dei cittadini, liberi ed uguali dinnanzi alla legge, e per l’altro lascia sussistere tra loro la massima disuguaglianza sociale. Cosicché il cittadino si trova a vivere una duplice esistenza, una nella comunità politica e un’altra nella società civile.
Certo, la corrispondenza non è esatta, perché nel caso israeliano, a voler applicare il punto di vista di Marx, alla scissione di fatto vissuta dai cittadini israeliani si aggiunge quella voluta dei palestinesi inglobati a seguito dell’occupazione e insieme respinti come corpo estraneo. Ma a ben guardare, dov’altro cercare la causa prima di questa realtà abnorme se non nella concezione di uno Stato che mette in pratica ciò che afferma di principio soltanto nella misura in cui non sono intaccate le differenze economiche, sociali, culturali, etniche indispensabili a conservare una forma di potere considerata utile a questo o a quel fine, anche a costo di inglobare in se stesso un male inguaribile come è già stato il caso per i colonialismi europei o per lo schiavismo americano?
Non so se in Palestina esistevano all’inizio le condizioni, come alcuni sostengono, perché potesse prendere forma una realtà politica plurale, edificata dal basso, ispirata a principi di reale parità in nome di quello spirito di giustizia che ha tanta parte nella tradizione religiosa ebraica e di accoglienza in quella islamica. Ma non dubito che se questo straordinario esperimento fosse stato tentato sarebbe stato vissuto dalle potenze occidentali come un esempio pericoloso, un’anomalia da sopprimere al più presto per il semplice fatto di costituire un modello alternativo di vita politica, così come è stato vissuto l’esperimento sovietico a prescindere dalle sue aberrazioni. In definitiva Israele è nato seguendo l’unica forma di Stato che l’Occidente ha saputo immaginare. Cosicché se errore c’è stato da parte dell’emigrazione ebraica in Palestina è stato quello di voler fondare uno Stato, sebbene pressoché nulla di un passato bimillenario avesse orientato l’ebraismo in questa direzione, tanto più in una situazione territoriale che avrebbe inevitabilmente comportato un alto grado di conflittualità, cosa che per uno Stato rappresenta il terreno ideale per potenziarsi a scapito del benessere della popolazione, come appare del tutto evidente dall’ostinato rifiuto del governo a preoccuparsi innanzitutto della salvezza degli ostaggi.
In conclusione. Occorre prendere atto che la volontà di imporre un nuovo ordine mondiale è oramai pienamente operativa e che di conseguenza la guerra è tornata ad essere l’orizzonte entro il quale bisognerà vivere a lungo, e lo stato di guerra non è compatibile con la democrazia. Né è un caso che in concomitanza con una guerra che si prospetta necessariamente mondiale accada ancora un genocidio, ignorato dai governi, vissuto per lo più dalle popolazioni con rassegnazione o indifferenza. È il segnale preciso di uno stato d’eccezione che, consapevolmente o meno, consente di violare la soglia della sacralità dell’essere umano. I Palestinesi sono la nuova vittima sacrificale in tempo di guerra dopo Armeni ed Ebrei (la memoria non è bastata ad impedire la ripetizione). La strada è dunque imboccata e non si fermeranno. Bisogna saperlo, per seguitare a vivere umanamente tra le rovine della storia resistendo alla presa dell’irrealtà, e per capire come agire pubblicamente per porvi un qualche rimedio.