Chi si ribella «ieri ci lasciava la pelle, oggi ci rimette l’anima»
La prigione allucinata del Padrone di Goffredo Parise
Ludovica del Castillo
Nel marzo del 1965 viene pubblicata la prima edizione del Padrone di Goffredo Parise, che segna la fine di un silenzio letterario iniziato nel 1959 con l’uscita di Amore e fervore.1 In questa lunga parentesi Parise ha viaggiato molto e scritto per il cinema e il teatro. E, come capita spesso con gli inizi – o con i nuovi inizi –, Parise si dedica alla scrittura del Padrone con intensità. Conclude la prima stesura del libro in due mesi (luglio e agosto 1964) e il 3 settembre scrive a Gianna Polizzi: «Io ho lavorato sempre, e sempre e ancora, dalle otto alle dieci ore al giorno sempre chiuso in casa […]. Ho finito il romanzo (la prima stesura). E ora sono molto stanco».2 Nell’ottobre il libro è pronto per la stampa.
Il romanzo racconta la storia di un giovane che dalla provincia si trasferisce in città per lavorare nell’azienda del dottor Max, descrivendone aspettative e aspirazioni. La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, di cui però non conosciamo il nome, demarcativo di individualità, come se ognuno di noi potesse trovarsi al suo posto. La storia è costruita sullo sviluppo del rapporto tra il protagonista e il Padrone,3 sulle ripercussioni che questo legame e la vita in azienda hanno sul protagonista, sul carattere alienante e disumanizzante del lavoro.
Inizialmente il giovane aderisce con entusiasmo alla concezione del lavoro e agli ideali del dottor Max e si dedica con passione al nuovo impiego. Ma presto il suo slancio si trasforma in un odio crescente verso il Padrone, a cui sarà capace di ribellarsi però solo nella fantasia: nel finale del romanzo il dipendente dimostra infatti di non avere abbastanza forza per reagire anche nella realtà, tanto da soccombere totalmente al volere del dottor Max e a lasciarsi persuadere, dopo un’inutile resistenza, a sposare Zilietta, una ragazza «mongoloide».4
Dal punto di vista dell’ispirazione e dei riferimenti al mondo aziendale il romanzo sembra rifarsi alla casa editrice Garzanti, dove Parise ha lavorato dal 1953 al 1955. A confermare quest’ipotesi sono le resistenze mostrate da Livio Garzanti – da cui Parise avrebbe preso spunto per il personaggio del dottor Max – alla pubblicazione presso la sua casa editrice del Padrone (che infatti uscì nel 1965 da Feltrinelli). Il rapporto tra Parise e Garzanti s’incrina, ma non definitivamente, per colpa di questa vicenda e per le discussioni editoriali che seguono.5
Per l’autore lo scopo del romanzo non è fornire una testimonianza. Quello che interessa a Parise è parlare, attraverso il mondo aziendale, di un particolare momento storico: del boom economico, dell’avanzamento del neocapitalismo e del cambiamento epocale della società italiana (e occidentale più in generale) nel dopoguerra. Queste trasformazioni hanno portato all’inizio del dominio dei mass media, alla modificazione della vita e delle strutture economiche, sociali e culturali e alla diffusione della Western way of life. Nel Padrone il lavoro rispecchia un mondo in divenire, dominato da oppressioni e standardizzazioni, in cui ogni cosa è mercificabile e perde il suo valore individuale, di realtà. E anche l’uomo diventa oggetto di mercato ed è definito in base alla sua funzione nell’ingranaggio capitalistico. La mercificazione dell’esistenza è infatti per Parise uno dei temi più urgenti, che rispecchia un mondo in cui la produzione ha un ruolo dominante, regola l’organizzazione del lavoro e i rapporti umani e definisce le identità collettive e individuali. In questo quadro l’azienda ha una funzione allegorica, di apologo: «Il padrone non c’entra niente con la letteratura di fabbrica. Nel mio romanzo c’è una ditta? Ebbene questa ditta potrebbe essere la vita stessa».6 Nel Padrone la questione dell’uomo come proprietà viene portata alle estreme conseguenze. In un’intervista all’autore del 1972 si legge il senso del romanzo, in riferimento, seppur semplificato, a Marx:
Le premesse culturali del romanzo sono due: gli Stati Uniti d’America e Charles Darwin.
Parise è negli USA nel marzo 1961 insieme al regista Gian Luigi Polidoro, in un viaggio commissionato da Dino De Laurentiis per la stesura del soggetto di un film sulle mafie statunitensi. La storia che viene proposta è bocciata però da De Laurentiis, che probabilmente cercava qualcosa di lontano dalle corde di Parise e dalle sue impressioni sugli Stati Uniti, in quanto Paese allucinato, eccessivo, disumano e consumato dal consumo.8 Durante questo viaggio Parise ha scritto regolarmente a Vittorio Bonicelli e l’interessante carteggio è stato poi raccolto nel volume Odore d’America.9 Giosetta Fioroni scrive sull’episodio:
Parise scoperse che i cornicioni dei grattacieli, i davanzali e le grondaie erano pieni di uccelli. Fu un incanto, un improvviso sentimento di vita: la vita della natura che seguitava sopra al cemento, quel cemento che chiude l’uomo d’oggi, che lo costringe in una altra vita, mortale e alienata. I grattacieli diventarono la fabbrica, il crematorio, con dentro una larva d’uomo, mentre la natura continuava a vivere di fuori, malgrado tutto. Così la idea della fabbrica e del crematorio come prigione prevedeva corpo per contrasto da un moto di vita, da un sentimento di fiducia e di speranza.12
II. Un’allegoria dei rapporti di forza
Nel 1965 Il padrone vince il premio Viareggio. Giacomo Debenedetti, membro della giuria, nella motivazione che ha redatto e letto per l’assegnazione del riconoscimento definisce Parise «l’unico legittimo discepolo di Kafka», del quale non «ha ripetuto la fiaba e […] ha addirittura capovolto i procedimenti, nel senso che Kafka rende reale una metrica psichica e di sogno, mentre Parise fa il contrario». Debenedetti conclude definendo Il padrone come un racconto «tra vita individuale e massificazione neocapitalistica».19
Parise nel suo romanzo avrebbe trasformato in verità poetica il capitalismo e i suoi rapporti di forza.20 Per gli espliciti riferimenti a un mondo trasfigurato si pensi ai nomi dei personaggi del libro, ispirati dai fumetti (come Pippo, Pluto, Minnie) o «dalla fantascienza più dozzinale».21 La scelta di nomi non comuni dipenderebbe dal fatto che questi «danno una sensazione di maggiore realtà. I nomi veri danno subito una chiusura nazionale, un tono regionale»22 da cui Parise voleva allontanarsi, coerentemente con la decisione di non attribuire alcun nome al protagonista. Allo stesso tempo, ci dice Nico Naldini, anche se Parise aveva chiamato i suoi personaggi con nomi di fantascienza, tuttavia questi «erano rimasti più che riconoscibili avendo rivelato un loro lato grottesco colto con infinita pazienza».23 E inoltre:
Il dottor Max è descritto come un «insetto pungente».28 Nel primo incontro tra il Padrone e il narratore quest’ultimo non conosce l’identità del suo interlocutore:
Il Padrone è un personaggio non integro, instabile, che vive di squilibri e contraddizioni che si esprimono anche fisicamente: «La secrezione insieme all’umore non è altro che il frutto delle contraddizioni».32 I contrasti sono talmente costitutivi di questo personaggio da essere inventati, se assenti dalla realtà.
Il dottor Max si muove ambiguamente tra una dimensione pubblica, di uomo di potere, e una dimensione privata, dominata di desideri irrazionali e pulsioni inconfessabili: «Quando si è nella mia condizione si vive in un eterno dilemma. Essere uomini e nello stesso tempo padroni non è cosa facile».33 Nonostante si senta anche lui costretto dal proprio ruolo e desideri andare a vivere in campagna per dedicarsi agli studi, anche il dottor Max non può sottrarsi al proprio destino.43
Questo personaggio è inoltre mosso da una forte aspirazione demiurgica: vorrebbe mettere in pratica un modello lavorativo e sociale basato sull’etica ma finalizzato, in realtà, alla schiavitù morale del lavoratore-oggetto, inducendolo in modo subdolo a farsi volontariamente sua proprietà.
Il dottor Max sembra essere il primo a risentire dell’influsso negativo della propria incoerenza, perché la sua è un’ambivalenza repressa che si esprime sia nei comportamenti sia nel corpo. Pensiamo infatti a cosa dice il Padrone al narratore, gonfio di volontà di potenza:
Il Padrone indossa una maschera che confessa meschinamente e bugiardamente al narratore di non voler portare ma, alla fine del romanzo, si capirà che il suo volto più autentico è proprio la sua peggior maschera, abilmente nascosta dietro aspirazioni morali. Il suo sincero obiettivo è la manipolazione e il controllo della classe lavoratrice. Ciò che in realtà più detesta è la proprietà materiale e per questo aspira a possedere la vita e l’anima dei suoi dipendenti: a lui non interessa il denaro, ma il potere, corruttore per antonomasia.
Il dottor Max sembra essere il perfetto esempio di un vincitore della Struggle for life, che Parise ha approfondito esplicitamente nel reportage americano, New York,36 nato da un viaggio del 1975, quindi di dieci anni successivo al Padrone (che aveva già risentito molto del suo primo viaggio statunitense).
Il Padrone ha nel romanzo una forte evoluzione, modificandosi coerentemente con lo sviluppo del protagonista, che è il filtro attraverso cui noi recepiamo la storia: inizialmente viene descritto come un uomo stimabile, schiavo di un ruolo che non vorrebbe ricoprire e moralmente incontestabile, succube del proprio destino di figlio di un altro Padrone ancor più Padrone. Il padre del dottor Max è Saturno, fondatore della ditta, uomo che viene da altri tempi e da altri modelli di produzione, e che ormai in pensione si diverte a pescare balene. Dal confronto tra i due personaggi, Max e Saturno, emerge la dicotomia tra due modelli industriali totalmente diversi tra loro: se Saturno apparteneva all’età fordista, nella ditta amministrata dal dottor Max la principale attività sembra essere la riflessione sulle relazioni tra dipendenti e sul rapporto con il Padrone. Qui tutto è volatile e impalpabile, come il neocapitalismo, che ha come obiettivo sia la produzione e l’individuazione di necessità pratiche, ma soprattutto la ricerca di bisogni d’appagamento sociale:
Il dottor Max ha sorriso.43
IV. Luoghi, ambiente, natura
Nel romanzo anche i luoghi si fanno significanti, come le due sedi dell’azienda, una vecchia e una nuovissima: il Padrone preferisce nettamente la vecchia sede e considera la nuova «una pazzia, una vera pazzia […], una pazzia immorale. Tutto l’apparato meccanografico, altra immoralità, altra pazzia. Del resto è chiaro che il mondo cammina verso la completa demenza, una immorale follia».47 La domanda che si pone è quale possa essere la necessità di una nuova sede: «L’aumento della produzione? Eppure tutto ciò è necessario, anzi più che necessario è un dovere o per meglio dire corrisponde a una morale negativa. Certo, a ben guardare, la cosa più immorale di tutte è la proprietà».48 Ed ecco un’altra contraddizione del dottor Max, anzi una doppia contraddizione, sia perché contrasta la sua funzione di Padrone di un’azienda inserita in un sistema capitalistico – che dovrebbe avere come ambizione la produzione e soprattutto l’ottenimento di buoni risultati in termini di ricavi, in una prospettiva di crescita – sia perché è lui stesso a pretendere e a imporre come punizione ai suoi dipendenti la diminuzione della loro proprietà, decurtando a suo piacere il loro stipendio (trattenendo nelle sue tasche denaro e basando quindi la sanzione proprio sulla proprietà).
Al giovane lavoratore viene chiesto se preferisca avere il suo ufficio nel gabinetto personale del Padrone o averne uno tutto per sé ai piani alti. Anche in questo caso la questione è posta come un ricatto morale e la domanda sottende qualcosa di non puramente logistico: «Preferisce stare vicino a me, qui al primo piano, dove possiamo scambiarci continui pareri e lei mi può fare un po’ di compagnia, o vuole un ufficio tutto per sé ai piani superiori? Lei è libero. Scelga».49 La domanda è retorica ed è una delle prime prove d’addestramento del dipendente-modello, che il Padrone interroga per capire quanto possa investire su di lui in quanto “paziente zero”. Infatti, il dottor Max dice di poter dedurre molto dalla risposta del dipendente:
«Ma…» ho balbettato.
«Lei è un uomo libero, ha capito? E come tale deve comportarsi. Lei non è proprietà di nessuno se non di se stesso. E dunque meno che meno è proprietà mia. Ci mancherebbe altro!».52
Il modo in cui il meccanismo capitalista ingloba la vita umana è graduale e ingannevole. Se inizialmente, infatti, il protagonista ne resta ingenuamente affascinato, soprattutto per la speranza della realizzazione di una promessa di benessere e di gratificazione sociale, ne riconosce però istintivamente la pericolosità, anche se dimostra non poche difficoltà ad ammetterlo razionalmente. Nel Padrone, infatti, il dipendente esce dal suo primo giorno di lavoro e pensa, passeggiando fuori dalla ditta: «Ora finalmente ero solo, padrone di me, e avevo davanti ai miei occhi la città generosa che mi aveva subito offerto lavoro».54 Sentirsi padrone di sé stesso vuol dire per il giovane avere un lavoro, essere emancipato e avere la possibilità di camminare, dice, «senza stancarmi mai di guardare le case, le strade, i negozi, i cinematografi, l’immenso fiume di automobili che correva strombettando allegramente come per giocare e la gente che camminava accanto a me sui marciapiedi».55 La nuova realtà, la metropoli e la sua nuova vita sono dei catalizzatori d’illusioni. Inoltre, da un punto di vista simbolico, il giovane si muove in una città ormai quasi buia: il sole lo aveva visto tramontare dal palazzo dell’azienda e ne restavano solo gli ultimi raggi. L’immagine del tramonto che lascia la città sotto un cielo ormai «già viola scuro»56 rispecchia la situazione in cui si trova il protagonista, che attraverserà nel romanzo un passaggio altrettanto cupo. Poche pagine più avanti tornerà un crepuscolo significativo per il senso del romanzo: il giovane scrive di essersi seduto su una panchina
V. «Il lavoro rende liberi»: il narratore-dipendente
Così come il Padrone, il dipendente subisce un’evoluzione – anche se non lineare – e manifesta dei momenti di contraddizione. Ne è un esempio il suo sentirsi parte di una comunità: l’incoerenza in questo caso si manifesta nel fatto che da una parte desidera sentirsi incluso in un gruppo sociale, dall’altra nega quest’aspirazione. Il giovane vorrebbe avere «una casa […], una moglie e un figlio, dei vicini che udranno la mia voce e i racconti dei miei successi commerciali nella ditta, come io potrò udire i loro», dando a queste conquiste il valore di un riscatto sociale. «Tuttavia», afferma, «non voglio pensarci troppo, si sa che quando si desidera molto una cosa e tutti gli sforzi di un uomo sono rivolti a questo scopo, si finisce per ottenerla».60 Queste parole lasciano trasparire la consapevolezza dei propri desideri da parte del protagonista ma possono anche – e credo più verosimilmente – essere intese come una spia rivelatrice dell’inautenticità delle sue aspirazioni.
In altri momenti, il narratore scrive e pensa con lucidità, analizzando il contesto e sé stesso: in questi passi traspare spesso noia, disaccordo e odio, che si traducono in una scrittura puntuale e liberatoria, simile a una seduta psicanalitica. Infatti, contemporaneamente all’entusiasmo per la nuova vita e alla fascinazione per il dottor Max, il narratore scrive, in un impeto di chiarezza, sempre nel primo capitolo, di avere la «sensazione di una trappola»:
Inizialmente il giovane, che viene dalla provincia ed è forte del sostegno della sua famiglia e dell’amore della sua fidanzata, venendo in contatto con l’azienda ne è come folgorato:
Il giovane prova per la sua nuova vita contemporaneamente l’entusiasmo degli inizi, il dolore della separazione e l’incertezza per il futuro. Inoltre, attraverso il lavoro, egli può inserirsi in dinamiche sociali e in una comunità che lo fanno sentire parte di qualcosa di nuovo, non più isolato nella vecchia provincia. È una sensazione, dice il narratore, «che non avevo mai provato, è molto bella, un poco simile a quella che si ha al cinematografo quando, in un bel film, tutti gli spettatori, il loro cuore, la loro ragione e i loro sensi provano la medesima emozione».67
Ma più che in un cinema, il giovane si troverà in un incubo. Se infatti all’inizio del romanzo l’accesso alla vita cittadina e lavorativa era legato al proprio passato e il protagonista, anche se ormai “uomo”, non aveva reciso il filo che lo univa alla famiglia e alla provincia, nel corso del libro il cambiamento del narratore passa anche per la cancellazione del proprio vissuto e per la fine delle relazioni precedenti all’ingresso in azienda. Già la sera del primo giorno di lavoro, infatti, il giovane, da subito minato dalle dinamiche aziendali, non riesce a dormire, rendendosi conto di non aver mai pensato durante la giornata a Maria, la sua fidanzata:
Nel sesto capitolo il narratore decide di tornare a casa per riflettere più lucidamente sul suo rapporto con il dottor Max, e quello che prova è «un sentimento […] di insofferenza, di noia e perfino di assurdità», e deve «ammettere, con ripugnanza, che più nulla mi lega a mio padre, a mia madre, a Maria e alla città in cui sono nato. Non un sentimento, non un ricordo, nulla».70 Anche le sue cose gli sembrano quelle di un estraneo e decide di rompere il fidanzamento con Maria. Il narratore è svuotato di sé, è diventato un altro che lui non ha scelto, trasformandosi nell’automa-lavoratore voluto dal Padrone, che dedica corpo e anima alla ditta: «Che cosa è accaduto?», gli chiede il padre, e lui risponde «Non lo so»:
Il dottor Max infonde nel protagonista il senso di colpa e sa che, in ogni caso, lui tornerà («è certo che ritornerà»)73 perché acquisirà «coscienza reale delle cose», comprendendo che «non c’è realtà senza padroni»:74 da cosa dipenderebbe, altrimenti, un dipendente?75 Il narratore dedica letteralmente anima e corpo alla ditta, sottoponendosi alla somministrazione obbligatoria di dolorosissime iniezioni di vitamine:
Infine, eccomi: attraverso i campi di corsa, sono in periferia, illuminato, in certo qual senso glorificato dalla gigantesca scritta rossa: TORNADO, che sovrasta la città e mi sta alle spalle. Eccomi sul tram, poi sul filobus, sulle scale, a casa, eccomi qui.
Spesso, in questi momenti, trilla il telefono.
«Scemo, cosa fa? Dorme?»
È lui, il dottor Max.80
L’ho interrotto, per la prima volta, e ho risposto:
«Sì, anch’io aspiro a qualcosa.»
«E a cosa aspira? Sentiamo.»
Per farlo felice ho risposto:
«Alla morte.» Ma ho provato dolore perché quello che dicevo era la verità.87
In una lettera del 12 giugno 1965 a Giovanni Comisso, quindi poco dopo la pubblicazione del Padrone, Parise scrive, parlando dell’inutilità della letteratura nel presente:
Noi, chi? gli chiedo.
«I razionali, i razionalisti, i liberi, gli inadatti al moralismo ideologico».92
1 G. Parise, Amore e fervore, Milano, Garzanti, 1959; dal 1973 con titolo Atti impuri.
2 Cit. in G. Parise, Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, I [1987], Milano, Mondadori, 2006, p. 1597.
3 «I personaggi metaforici sono due: il Padrone e il Dipendente, legati fra loro da un rapporto complesso, ma soprattutto dalla megalomania padronale, dalla prepotenza neocapitalistica» (A. Barbato, Il Colosseo di plastica, in «L’Espresso», 11 aprile 1965).
4 G. Parise, Il padrone, Milano, Feltrinelli, 1965; poi Torino, Einaudi, 1971; poi con introduzione di S. Perrella, Milano, Mondadori, 1992; poi Milano, Rizzoli, 1999; poi Milano, Adelphi, 2011; con il testo del 1971 in Id., Opere, I cit., pp. 833-1073: 1040-1041. A quest’ultima edizione si riferiscono le indicazioni date in seguito.
5 Si legge, per esempio, in un articolo del 1983: «Altri amici tra cui il mio primo editore, Livio Garzanti, uguale a sempre, con gli stessi problemi di sempre» (G. Parise, Mia cara Milano ecco perché ti amo, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1983).
6 G. Parise, Il «padrone» dice Parise non è un romanzo di fabbrica, intervista a cura di M. Grillandi, in «Il Gazzettino», 20 luglio 1965.
7 G. Parise, Sto cercando di capire che cosa vuol dire felicità, intervista a cura di E. Fabiani, in «Gente», 4 novembre 1972.
8 I viaggi statunitensi di Goffredo Parise (il primo del 1961 e il secondo del 1975) e gli scritti relativi sono stati puntualmente analizzati nel volume di P. Dato, L’ultimo anti-americano. Goffredo Parise e gli USA: dal mito al rifiuto, Roma, Aracne, 2009.
9 G. Parise, Odore d’America, Milano, Mondadori, 1990.
10 Fotobiografia corredata da una Conversazione con Giosetta Fioroni in G. Pedullà (a cura di), Dossier Parise, in «Il Caffè Illustrato», 3, novembre-dicembre 2001, pp. 52-65: p. 58.
11 A. Balduino, I “miti” americani di Parise, in I. Crotti (a cura di), Goffredo Parise. Atti del Convegno di Venezia, Istituto per le Lettere, il Teatro e il Melodramma della Fondazione «Giorgio Cini», 24-25 maggio 1995, Firenze, Olschki, 1997, pp. 79-97: p. 90.
12 C. Marabini, Dopo l’incubo, in «Il Mondo», 24 maggio 1970. Parlando del «crematorio», ci si riferisce al libro di G. Parise, Il crematorio di Vienna (1969).
13 Cfr. D. Scarpa, In the blood, in the mood. Goffredo Parise tra Darwin e Montale, in P. Grossi (a cura di), Les illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise. Actes du colloque international de l’université de Caen, 14-15 mai 1999, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2000, pp. 123-147; ora con titolo In his blood, in his mood. Goffredo Parise tra Darwin e Montale, in Id.,
14 «Darwin è una delle mie letture preferite» (M. Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera letteraria», XLIII, 34, 22 agosto 1968, pp. 16-17: p. 16).
15 A. Barbato, Il Colosseo di plastica, cit.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 G. Debenedetti, Parise? L’unico erede di Kafka, in «L’Espresso», 11 gennaio 1987; ora in Goffredo Parise, numero monografico di «Riga» a cura di M. Belpoliti e A. Cortellessa, Milano, Marcos y Marcos, 2016, pp. 278-279: p. 278.
20 Cfr. F. Cordelli, Dalla provincia al pop nel segno del vitalismo, in «Paese Sera», 1 settembre 1986; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 310-311: p. 310.
21 A. Zanzotto, Introduzione a G. Parise, Opere, I cit., pp. XI-XXXVII: p. XXI; poi in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, pp. 253-278: p. 262; poi, leggermente ampliato, in Id., Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, II, Milano, Mondadori, 2001, pp. 253-277: p. 262. La questione è approfondita in S. Lazzarin, Tracce di fantastico nel «Padrone» (1965) di Goffredo Parise, in «Critica letteraria», XLIV, 173/2016, pp. 733-762.
22 A. Barbato, Il Colosseo di plastica, cit.
23 N. Naldini, Il nuovo padrone di Milano, in Crotti (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 165-172: p. 166.
24 Ivi, p. 167. Si legge più avanti, sull’attenzione di Parise alla fisiognomica delle persone: «Parise ha sempre prestato molta attenzione alla presenza delle persone; alla fisiognomica, ai messaggi del corpo e alle sue espressioni, specie se seminascoste o occulte. Chi lo ha conosciuto non farà fatica a ricordare come Goffredo incontrando per la prima volta qualcuno, di qualsiasi età fosse o sesso, era solito tenergli gli occhi puntati addosso con uno sguardo non indagatore, bensì, per così dire, intensamente speculativo» (ivi, p. 171).
25 A. Moravia, Il moralista senza psicanalisi, in «Corriere della Sera», 5 marzo 1967; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa, Goffredo Parise, cit., pp. 282-283: p. 283.
26 Cfr. G. Pullini, Il “bestiario” di Goffredo Parise. Dal «Padrone» all’«Assoluto naturale» (e altrove), in Crotti (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 181-204.
27 A. Zanzotto, Introduzione, cit., p. XXI.
28 «Si è fatto giallo, gli occhi sono spariti tra le due fessure delle palpebre, la secrezione biancastra è apparsa agli angoli della bocca e tutto il corpo si è rimpicciolito e incurvato sulla sedia, in una successione di piccoli fremiti che partivano dalla nuca e finivano fino alla schiena» (G. Parise, Il padrone, cit., p. 876).
29 Ivi, p. 855.
30 Ivi, p. 914.
31 Ivi, pp. 855-856.
32 Ivi, p. 910.
33 Ivi, p. 891.
34 È significativo che il dottor Max sia l’unico personaggio del romanzo che viene definito sia con un nome proprio che con il suo ruolo.
35 G. Parise, Il padrone, cit., p. 892.
36 G. Parise, New York, Venezia, Edizioni del Ruzante, 1977; poi, a cura di S. Perrella, Milano, Rizzoli, 2001; ora in Id., Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, II [1989], Milano, Mondadori, 2005, pp. 997-1053 (il reportage è stato prima pubblicato sul «Corriere della Sera» nel 1976).
37 G. Parise, Il padrone, cit., pp. 933-934.
38 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, in «Successo», VII, 6, giugno 1965, pp. 59-61; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 272-277: p. 276. Si legge più avanti: «(Dio amante, uomo che l’ama e chiede di annullarsi in lui, libertà di separarsi da Dio e scegliere così l’inferno), anzi diventano una forma di religione pervertita; e quel miscuglio di morale e di sentimento nei rapporti tra padrone e servo, li umanizza, cioè li rende peggio, perché non modifica nulla della loro sostanza, ma vi fa colare elementi sadici e masochistici che li rendono, in più, perversi. Essi mettono in gioco tutta l’anima morbosamente, la espongono interamente alla disgregazione, ne accrescono il dolore almeno fin quando le resta il sogno di essere diversa. Giacché al momento giusto il dottor Max griderà con voce acutissima e scossa dal tremito: “Io sono il padrone qui dentro, è chiaro? Il padrone, il padrone, il padrone!”» (ivi, pp. 276-277).
39 G. Parise, Il padrone, cit., p. 877.
40 G. Cfr. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit. e A. Gialloreto, Barlumi «d’acrobatica ragione nelle sfere del nulla». Il difficile attraversamento degli anni Sessanta, in Id., La parola trasparente. Il sillabario narrativo di Goffredo Parise, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 109-139: p. 121.
41 «Fino a ieri bisognava fare del “prestatore d’opera”, cioè della massa, un consumatore perfetto e “morale”, oggi bisogna farne un risparmiatore perfetto e altrettanto “morale”. Per concludere è bene diffidare della parola “morale”, che muta con l’economia. E poi le morali, come spesso le ideologie, servono a confondere le idee. Questa per esempio: che tra gli “imprenditori” e i “prestatori d’opera”, cioè tra i padroni e i dipendenti, esiste come è sempre esistito, sempre e soltanto, un rapporto di forza e nulla più» (G. Parise, “Imprenditori” e “prestatori d’opera”, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1974; oggi in Id., Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di S. Perrella, Firenze, Liberal libri, 1998, pp. 136-141). Sul rapporto tra lavoratore – operaio, nello specifico – e padrone (i due termini sono stati inutilmente ingentiliti per Parise, perché «le parole non mutano le cose») si legge in un altro articolo della stessa rubrica: «Secondo la mia logica, infatti […] un operaio è prima di tutto un uomo, come lei e come me. […] Come tale, non sarà mai uno strumento industriale né mai sarà contento di esserlo diventato, spinto da necessità elementari» (G. Parise, L’operaio ideale, in «Corriere della Sera», 24 marzo 1974, ora in Id., Verba Volant, cit., pp. 37-43: p. 39).
42 G. Parise, Il padrone, cit., p. 968.
43 Ibidem.
44 G. Parise, La Chiesa cattolica, in «Corriere della Sera», 17 marzo 1976; ora, riproposto a mia cura, in Id., Suite romana, in S. Cirillo (a cura di), Roma punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi dei grandi narratori, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, pp. 243-256: p. 255.
45 G. Parise, Il padrone, cit., pp. 906-907.
46 Ivi, p. 908.
47 Ivi, p. 860.
48 Ivi, p. 861.
49 Ivi, p. 887.
50 Ivi, pp. 887-888. Parise tornerà chiaramente sull’argomento dieci anni più tardi in un articolo della sua rubrica «Parise risponde», in cui scrive del disappunto dei padroni per quello che loro percepiscono come disinteresse dei dipendenti verso una “morale del lavoro” (che Parise non condivide, considerando “morale” sinonimo di “ideologia” e associandola ai Paesi socialisti e considerandola inapplicabile in Occidente). Rispondendo agli “imprenditori morali” Parise approfondisce la questione della trasformazione del lavoratore in consumatore e il concetto di morale del lavoro. Secondo l’autore questi discorsi sono solamente un modo per confondere qualcosa che invece è chiaro ed evidente: che il rapporto tra padrone e dipendente è un rapporto di forza. In questo senso, la trasformazione del lavoratore è solo una conseguenza di una trasformazione sociale che lascia però immutata la sostanza del rapporto tra padrone e dipendente: «Elementare è che la “morale del lavoro” ce l’abbia […] l’imprenditore, che non lavora per conto di terzi. […] il “prestatore d’opera” da che il suo lavoro serve ad altro molto più che a sé, e, sia fatto bene o male, vale sempre enormemente più del salario. […] Oggi il “prestatore d’opera”, attraverso e per mezzo dei consumi, è diventato proprietario, non più soltanto delle sue braccia e del suo cervello, ma di una casa, di un’automobile, degli elettrodomestici, di tutte quelle cose insomma che provocano fatalmente e irreversibilmente l’illusione della proprietà. Ora quel “prestatore d’opera”, che gli “imprenditori” vogliono “morale”, è diventato quello che essi stessi volevano diventasse: un consumatore perfetto, un consumatore “morale”. Ma un consumatore “morale” e perfetto non è necessariamente anche un lavoratore perfetto e “morale”. […] il “prestatore d’opera” […] è diventato concorrente dell’”imprenditore”. […] E qui l’odio di classe diventa invidia di classe, la lotta di classe concorrenza di classe. Altro che “morale del lavoro”! […] Fino a ieri bisognava fare del “prestatore d’opera”, cioè della massa, un consumatore perfetto e “morale”, oggi bisogna farne un risparmiatore perfetto e altrettanto “morale”, che muta con l’economia. E poi le morali, come spesso le ideologie, servono a confondere le idee. Questa per esempio: che tra gli “imprenditori” e i “prestatori d’opera”, cioè tra i padroni e i dipendenti, esiste come è sempre esistito, sempre e soltanto, un rapporto di forza e nulla più» (G. Parise, “Imprenditori” e “prestatori d’opera”, cit., pp. 138-141).
51 G. Parise, Il padrone, cit., p. 912.
52 Ivi, p. 889.
53 Ivi, pp. 935-937.
54 Ivi, p. 879.
55 Ibidem.
56 Ibidem.
57 Ivi, p. 902.
58 Ivi, pp. 902-903.
59 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 272.
60 G. Parise, Il padrone, cit., p. 849.
61 Ivi, p. 874.
62 Emblematica è la lettera inviatagli dal Padrone alla fine del romanzo per convincerlo a sposare Zilietta: «Lei era qualche cosa che assomigliava a un giovane albero, […] senza alcun fine. […] Quest’albero, sradicandosi, per così dire, da sé, è giunto qui, in questo giardino […]. Non sapendo quanto è difficile, per una pianta vissuta fino a quel momento in libertà, adattarsi all’ordine ma soprattutto all’idea del giardino. Tuttavia, siccome era saldo e robusto, non ha ceduto come è accaduto a molti, ha difeso la propria esistenza e, con l’aiuto dei giardinieri, ha cominciato ad acquistare della bellezza quasi ideale e matematica che debbono avere gli alberi da giardino. Esso era l’albero più amato dal padrone tanto che egli […] si fermava all’ombra delle sue foglie e lo guardava estasiato. […] Perché mai […] un albero si era adattato con tanta affabilità e allo stesso tempo con tanto mistero all’idea che il padrone aveva di esso. […] Proprio nel momento più alto del suo rigoglio l’albero cessò di corrispondere ai desideri del padrone. […] A questo punto il padrone, che non aveva cessato di sperare, pensò di salvare il suo albero dal caos con un incrocio. […] Mi pedoni la storiella che mi è venuta sotto la penna. Avrei voluto farle un bel discorso, ispirato alla ragione, e invece, ancora una volta, il pensiero di lei mi ha condotto naturalmente alla metafora e alla poesia» (ivi, pp. 1063-1066).
63 Ivi, p. 1065.
64 Ivi, p. 874.
65 Ivi, p. 880.
66 Ivi, p. 835.
67 Ivi, p. 849.
68 Ivi, p. 885.
69 Ibidem.
70 Ivi, p. 969.
71 Ivi, p. 971.
72 Ivi, p. 1068.
73 Ivi, p. 1069.
74 Ibidem.
75 Il suo statuto di subalternità è tra l’altro insito nell’etimologia della parola stessa: ‘dipendente’, participio passato di ‘dipendere’, deriva dal latino dependēre «pendere da, dipendere», composto di de- e pendēre «pendere».
76 G. Parise, Il padrone, cit., p. 952.
77 «Perché il dottor Max vuole farmi del male, come ho percepito lucidamente fin dall’inizio di questa storia di iniezioni?» (ivi, p. 959).
78 Ivi, p. 1007.
79 Ivi, p. 1011.
80 Ivi, p. 1013.
81 Ivi, p. 958.
82 Ibidem.
83 Ivi, p. 1073.
84 D. Scarpa, In the blood, in the mood, cit., p. 130.
85 G. Parise, Il padrone, p. 1017.
86 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 274.
87 G. Parise, Il padrone, pp. 922-923.
88 Ivi, p. 1049.
89 Ivi, pp. 1072-1073.
90 Ivi, p. 1073.
91 G. Parise, lettera a G. Comisso del 12 giugno 1965, in Lettere a Giovanni Comisso di Goffredo Parise, con una prefazione a cura di L. Urettini, disegni di G. Fioroni, due note di R. Manica e S. Perrella, Lugo, Associazione Culturale “Il bradipo”, 1995, pp. 47-48.
92 V. Riva, Lo scrittore? Un uomo inutile, intervista a G. Parise, in «L’Espresso», 14 dicembre 1969.
93 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 277.