Chi si ribella «ieri ci lasciava la pelle, oggi ci rimette l’anima»
La prigione allucinata del Padrone di Goffredo Parise
Ludovica del Castillo

I. Il padrone: genesi e struttura

Nel marzo del 1965 viene pubblicata la prima edizione del Padrone di Goffredo Parise, che segna la fine di un silenzio letterario iniziato nel 1959 con l’uscita di Amore e fervore.1 In questa lunga parentesi Parise ha viaggiato molto e scritto per il cinema e il teatro. E, come capita spesso con gli inizi – o con i nuovi inizi –, Parise si dedica alla scrittura del Padrone con intensità. Conclude la prima stesura del libro in due mesi (luglio e agosto 1964) e il 3 settembre scrive a Gianna Polizzi: «Io ho lavorato sempre, e sempre e ancora, dalle otto alle dieci ore al giorno sempre chiuso in casa […]. Ho finito il romanzo (la prima stesura). E ora sono molto stanco».2 Nell’ottobre il libro è pronto per la stampa.

Il romanzo racconta la storia di un giovane che dalla provincia si trasferisce in città per lavorare nell’azienda del dottor Max, descrivendone aspettative e aspirazioni. La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista, di cui però non conosciamo il nome, demarcativo di individualità, come se ognuno di noi potesse trovarsi al suo posto. La storia è costruita sullo sviluppo del rapporto tra il protagonista e il Padrone,3 sulle ripercussioni che questo legame e la vita in azienda hanno sul protagonista, sul carattere alienante e disumanizzante del lavoro.

Inizialmente il giovane aderisce con entusiasmo alla concezione del lavoro e agli ideali del dottor Max e si dedica con passione al nuovo impiego. Ma presto il suo slancio si trasforma in un odio crescente verso il Padrone, a cui sarà capace di ribellarsi però solo nella fantasia: nel finale del romanzo il dipendente dimostra infatti di non avere abbastanza forza per reagire anche nella realtà, tanto da soccombere totalmente al volere del dottor Max e a lasciarsi persuadere, dopo un’inutile resistenza, a sposare Zilietta, una ragazza «mongoloide».4

Dal punto di vista dell’ispirazione e dei riferimenti al mondo aziendale il romanzo sembra rifarsi alla casa editrice Garzanti, dove Parise ha lavorato dal 1953 al 1955. A confermare quest’ipotesi sono le resistenze mostrate da Livio Garzanti – da cui Parise avrebbe preso spunto per il personaggio del dottor Max – alla pubblicazione presso la sua casa editrice del Padrone (che infatti uscì nel 1965 da Feltrinelli). Il rapporto tra Parise e Garzanti s’incrina, ma non definitivamente, per colpa di questa vicenda e per le discussioni editoriali che seguono.5

Per l’autore lo scopo del romanzo non è fornire una testimonianza. Quello che interessa a Parise è parlare, attraverso il mondo aziendale, di un particolare momento storico: del boom economico, dell’avanzamento del neocapitalismo e del cambiamento epocale della società italiana (e occidentale più in generale) nel dopoguerra. Queste trasformazioni hanno portato all’inizio del dominio dei mass media, alla modificazione della vita e delle strutture economiche, sociali e culturali e alla diffusione della Western way of life. Nel Padrone il lavoro rispecchia un mondo in divenire, dominato da oppressioni e standardizzazioni, in cui ogni cosa è mercificabile e perde il suo valore individuale, di realtà. E anche l’uomo diventa oggetto di mercato ed è definito in base alla sua funzione nell’ingranaggio capitalistico. La mercificazione dell’esistenza è infatti per Parise uno dei temi più urgenti, che rispecchia un mondo in cui la produzione ha un ruolo dominante, regola l’organizzazione del lavoro e i rapporti umani e definisce le identità collettive e individuali. In questo quadro l’azienda ha una funzione allegorica, di apologo: «Il padrone non c’entra niente con la letteratura di fabbrica. Nel mio romanzo c’è una ditta? Ebbene questa ditta potrebbe essere la vita stessa».6 Nel Padrone la questione dell’uomo come proprietà viene portata alle estreme conseguenze. In un’intervista all’autore del 1972 si legge il senso del romanzo, in riferimento, seppur semplificato, a Marx:

Il padrone è una favola sullo sfruttamento psicologico e psichico dell’uomo nell’epoca attuale, e tale tipo di sfruttamento non era stato previsto da Marx, incatenato all’analisi dello sfruttamento economico. Questo tipo di sfruttamento, analizzato da Marx all’inizio dell’era industriale, non contempla l’animo ma la borsa. L’uomo ridotto a “cosa economica”, cioè un oggetto razionalmente mercificabile. Il mio uomo-cosa del Padrone non è già più mercificabile, ma proprietà assoluta, priva di mezzo, che riscatta “moralmente” il padrone dall’economia e lo solleva nei cieli ben più ambiziosi della teologia.7

Il padrone viene di norma considerato un testo che si occupa di lavoro, anche se non rientra a pieno titolo nella letteratura industriale, non essendo ambientato né in un’industria né in una fabbrica, a differenza per esempio dei romanzi di Ottieri e Volponi, e trattando il tema del lavoro in modo tutto particolare. Nonostante Il padrone sia un romanzo allegorico, qui il lavoro ha i caratteri di un post-fordismo avant-lettre ed è usato per rappresentare i rapporti di forza tra gli individui.

Le premesse culturali del romanzo sono due: gli Stati Uniti d’America e Charles Darwin.

Parise è negli USA nel marzo 1961 insieme al regista Gian Luigi Polidoro, in un viaggio commissionato da Dino De Laurentiis per la stesura del soggetto di un film sulle mafie statunitensi. La storia che viene proposta è bocciata però da De Laurentiis, che probabilmente cercava qualcosa di lontano dalle corde di Parise e dalle sue impressioni sugli Stati Uniti, in quanto Paese allucinato, eccessivo, disumano e consumato dal consumo.8 Durante questo viaggio Parise ha scritto regolarmente a Vittorio Bonicelli e l’interessante carteggio è stato poi raccolto nel volume Odore d’America.9 Giosetta Fioroni scrive sull’episodio:

Il ritorno dagli USA però si risolve male, perché Goffredo non scrisse nulla, e propone solo un film dal titolo Lux perpetua su un grande cimitero di Los Angeles dove le persone si siedono al tavolo con il corpo mummificato del fratello o del padre morti tre o cinque o dieci anni prima. Questo spettacolo lo colpì moltissimo, così come pure quel romanzo di Evelyn Waugh – Il caro estinto – che, attraverso la storia di un’industria funeraria che vuole spedire i cadaveri nello spazio, fa una feroce satira del business americano… Qualche anno dopo Tony Richardson ne avrebbe tratto un film con John Gielgud, James Coburn e Dana Andrews, ma ti puoi immaginare come poteva reagire ad una simile proposta un napoletano scaramantico come De Laurentis! Così invece si mise a scrivere rapidamente Il padrone.10

Il padrone potrebbe essere letto quindi «anche come fantasmagoria allegorica di una “americanità” portata alle estreme conseguenze».11 Claudio Marabini scrive a proposito dell’ispirazione del romanzo – in seguito a una conversazione con Parise:

Credevo che l’idea de «Il Padrone» a Parise fosse nata a Milano e invece nacque a New York. E nacque, per contrasto, da un’ondata sentimentale. Una mattina, verso le 4, Parise era uscito dall’albergo e stava percorrendo Park Avenue. Era di maggio e albeggiava, la strada deserta completamente, i grattacieli di qua e di là, ecc. A un certo punto incominciarono a cantare gli uccelli: un coro di uccelli, un passeraio come di sera in campagna nei grandi alberi.

Parise scoperse che i cornicioni dei grattacieli, i davanzali e le grondaie erano pieni di uccelli. Fu un incanto, un improvviso sentimento di vita: la vita della natura che seguitava sopra al cemento, quel cemento che chiude l’uomo d’oggi, che lo costringe in una altra vita, mortale e alienata. I grattacieli diventarono la fabbrica, il crematorio, con dentro una larva d’uomo, mentre la natura continuava a vivere di fuori, malgrado tutto. Così la idea della fabbrica e del crematorio come prigione prevedeva corpo per contrasto da un moto di vita, da un sentimento di fiducia e di speranza.12

La seconda premessa del Padrone è Charles Darwin,13 autore dell’Origine della specie (1859), molto ammirato da Parise e conosciuto attraverso il consiglio dell’amico Carlo Emilio Gadda.14 Più precisamente, in un’intervista a Parise si legge:

L’evoluzione […] è una teoria poetica ma spaventosa, e crudele. Oggi, la lotta per la sopravvivenza di cui parla Darwin non è solo biologica, ma soprattutto psicologica. Il mondo moderno è permeato di violenza: quella organizzata, massificata, è il nazismo. Ma quando non trova occasioni storiche così imponenti, si manifesta individualmente, in forme sadomasochistiche, come una lotta dell’uomo verso l’uomo, per il possesso e la distruzione.15

La lotta per la sopravvivenza si esprimerebbe dunque, in mancanza di aberranti sbocchi socialmente organizzati, in una diffusa violenza individuale, dove il denaro è l’arma più forte. In questo senso, Il padrone potrebbe essere letto come «una metafora sul potere, la storia della lotta biologica fra il potente e il meno potente. Una lotta anche dialettica, fatta d’amore e di odio».16

I ricchi di oggi […] hanno capito che il danaro non rappresenta il potere assoluto, ma è solo uno strumento. Eppure essi continuano ad aspirare ad un potere demiurgico, quasi divino. Per questo vogliono comprare soprattutto la libertà individuale dell’antagonista, ridurre l’uomo che hanno di fronte ad un oggetto.17

L’odio è un sentimento che Parise percepisce in forte diffusione, insieme a «un gran torpore mentale, ma sotto, nell’inconscio, la violenza s’accumula», e afferma: «c’è un’intimidazione ideologica che la gente in maggioranza subisce e alla quale l’individuo si oppone sempre più di rado. […] Ieri ci lasciava la pelle, oggi ci rimette l’anima. Vedo un rincretinimento generale».18

II. Un’allegoria dei rapporti di forza

Nel 1965 Il padrone vince il premio Viareggio. Giacomo Debenedetti, membro della giuria, nella motivazione che ha redatto e letto per l’assegnazione del riconoscimento definisce Parise «l’unico legittimo discepolo di Kafka», del quale non «ha ripetuto la fiaba e […] ha addirittura capovolto i procedimenti, nel senso che Kafka rende reale una metrica psichica e di sogno, mentre Parise fa il contrario». Debenedetti conclude definendo Il padrone come un racconto «tra vita individuale e massificazione neocapitalistica».19

Parise nel suo romanzo avrebbe trasformato in verità poetica il capitalismo e i suoi rapporti di forza.20 Per gli espliciti riferimenti a un mondo trasfigurato si pensi ai nomi dei personaggi del libro, ispirati dai fumetti (come Pippo, Pluto, Minnie) o «dalla fantascienza più dozzinale».21 La scelta di nomi non comuni dipenderebbe dal fatto che questi «danno una sensazione di maggiore realtà. I nomi veri danno subito una chiusura nazionale, un tono regionale»22 da cui Parise voleva allontanarsi, coerentemente con la decisione di non attribuire alcun nome al protagonista. Allo stesso tempo, ci dice Nico Naldini, anche se Parise aveva chiamato i suoi personaggi con nomi di fantascienza, tuttavia questi «erano rimasti più che riconoscibili avendo rivelato un loro lato grottesco colto con infinita pazienza».23 E inoltre:

Ciascuno di questi personaggi ha avuto un suo modello reale nella cerchia dei dirigenti, impiegati e uscieri della casa editrice [Garzanti, N.d.A.], qui trasformata in una generica ditta commerciale, come Parise la conobbe al momento della sua assunzione nel marzo del 1953 come correttore di bozze.24

Altro elemento anti-naturalistico del romanzo è il carattere animalesco dei personaggi, che è usato in senso degradante e in modo esasperante, «tra il grottesco e il satirico»,25 con lo scopo di annullarne l’individualità e la volontà. I personaggi infatti vengono definiti in base all’impossibilità di venir meno alla propria funzione nel meccanismo industriale26 e «sono sempre più frequenti le apparizioni di esseri in cui l’insetto e il robot si sovrappongono, si identificano».27

Il dottor Max è descritto come un «insetto pungente».28 Nel primo incontro tra il Padrone e il narratore quest’ultimo non conosce l’identità del suo interlocutore:

un uomo giovane, vestito di un abito scuro da vecchio, dal volto fine e pallido, strizzato, rimpicciolito da qualcosa di doloroso e di ineluttabile come una malattia inguaribile. Gli occhi chiari e ghiacciati erano chiusi dentro una fessura e da quella fessura guardavano. La bocca piccola, femminile e quasi senza traccia di labbra appariva segnata tutto intorno, soprattutto agli angoli, da una secrezione biancastra che forse conteneva il segreto della sua tristezza. Eppure quel volto, quegli occhi, quelle mani e in generale tutto il suo aspetto erano quelli di un uomo molto puro, uno studente romantico, un giovane idealista che rincorra alti ideali di ordine e di classicità. Senza sapere chi fosse ho provato una grande simpatia per lui.29

Quando si accorge che chi gli è di fronte è proprio il Padrone qualcosa cambia, come se la consapevolezza del suo ruolo lo faccia apparire già diverso, stridente e meno umano, tanto che la sua «non sembra nemmeno una voce ma il verso di un roditore».30 Fondamentale nella percezione di sé e degli altri sembra quindi essere la propria funzione lavorativa:

Ora che sapevo che il padrone era lui le mie prime impressioni si imbrogliavano, piano piano ma inesorabilmente tutta la sua figura si è dissolta ai miei occhi e ne è sorta un’altra, diversa, in cui risaltava, con sgradevole evidenza sopra ogni altra immagine, la secrezione biancastra alla bocca che mi è parsa simile a quella di un grosso insetto ferito. Il timbro della voce poi, simile allo strido, flebile ma al tempo stesso sibilante e aggressivo di un insetto ferito, ha fatto per confermare del tutto questa seconda impressione.31

III. Il Padrone: vittima e carnefice

Il Padrone è un personaggio non integro, instabile, che vive di squilibri e contraddizioni che si esprimono anche fisicamente: «La secrezione insieme all’umore non è altro che il frutto delle contraddizioni».32 I contrasti sono talmente costitutivi di questo personaggio da essere inventati, se assenti dalla realtà.

Il dottor Max si muove ambiguamente tra una dimensione pubblica, di uomo di potere, e una dimensione privata, dominata di desideri irrazionali e pulsioni inconfessabili: «Quando si è nella mia condizione si vive in un eterno dilemma. Essere uomini e nello stesso tempo padroni non è cosa facile».33 Nonostante si senta anche lui costretto dal proprio ruolo e desideri andare a vivere in campagna per dedicarsi agli studi, anche il dottor Max non può sottrarsi al proprio destino.43

Questo personaggio è inoltre mosso da una forte aspirazione demiurgica: vorrebbe mettere in pratica un modello lavorativo e sociale basato sull’etica ma finalizzato, in realtà, alla schiavitù morale del lavoratore-oggetto, inducendolo in modo subdolo a farsi volontariamente sua proprietà.

Il dottor Max sembra essere il primo a risentire dell’influsso negativo della propria incoerenza, perché la sua è un’ambivalenza repressa che si esprime sia nei comportamenti sia nel corpo. Pensiamo infatti a cosa dice il Padrone al narratore, gonfio di volontà di potenza:

si ricordi che, anche se lei si considera giustamente e molto realisticamente mia proprietà, in realtà non lo è e anzi lei è libero. Voglio dire, lei fa benissimo a considerarsi tale […]. Però, lo stesso, si ritenga libero. E, tra le altre cose, volevo dirle che non è necessario che lei timbri il cartellino all’orologio. Lo facciano gli altri. Lei no. Questo le darà, a differenza degli altri, la libertà morale di venire puntuale al mattino se non in anticipo. Cioè sarà lei stesso a farsi scrupolo di venire puntuale e non la minaccia delle multe.35

Anche se il protagonista dice di non volere «particolari privilegi» (e gli risponde il Padrone: «Ha già imparato le parole diritti e doveri? Che brutte parole!»), questa circostanza extra-ordinaria aumenterà la sua condizione di schiavitù, proprio perché farà leva su una questione morale e psicologica, di dipendenza, sul senso di colpa per un’eventuale perdita di fiducia: più al giovane lavoratore vengono accordate deroghe, più la sua catena si stringerà. Forse non per caso al narratore è concessa la confidenza e la fiducia del dottor Max, che viene motivata non da una qualche simpatia ma dall’idea che il giovane proveniente dalla provincia possa diventare il dipendente esemplare, totale proprietà del Padrone.

Il Padrone indossa una maschera che confessa meschinamente e bugiardamente al narratore di non voler portare ma, alla fine del romanzo, si capirà che il suo volto più autentico è proprio la sua peggior maschera, abilmente nascosta dietro aspirazioni morali. Il suo sincero obiettivo è la manipolazione e il controllo della classe lavoratrice. Ciò che in realtà più detesta è la proprietà materiale e per questo aspira a possedere la vita e l’anima dei suoi dipendenti: a lui non interessa il denaro, ma il potere, corruttore per antonomasia.

Il dottor Max sembra essere il perfetto esempio di un vincitore della Struggle for life, che Parise ha approfondito esplicitamente nel reportage americano, New York,36 nato da un viaggio del 1975, quindi di dieci anni successivo al Padrone (che aveva già risentito molto del suo primo viaggio statunitense).

Il Padrone ha nel romanzo una forte evoluzione, modificandosi coerentemente con lo sviluppo del protagonista, che è il filtro attraverso cui noi recepiamo la storia: inizialmente viene descritto come un uomo stimabile, schiavo di un ruolo che non vorrebbe ricoprire e moralmente incontestabile, succube del proprio destino di figlio di un altro Padrone ancor più Padrone. Il padre del dottor Max è Saturno, fondatore della ditta, uomo che viene da altri tempi e da altri modelli di produzione, e che ormai in pensione si diverte a pescare balene. Dal confronto tra i due personaggi, Max e Saturno, emerge la dicotomia tra due modelli industriali totalmente diversi tra loro: se Saturno apparteneva all’età fordista, nella ditta amministrata dal dottor Max la principale attività sembra essere la riflessione sulle relazioni tra dipendenti e sul rapporto con il Padrone. Qui tutto è volatile e impalpabile, come il neocapitalismo, che ha come obiettivo sia la produzione e l’individuazione di necessità pratiche, ma soprattutto la ricerca di bisogni d’appagamento sociale:

Oramai il lavoro è ridotto quasi esclusivamente a questo (e non solo per me ma per quasi tutti dipendenti della ditta), cioè a rimuginare su rapporti interni: innanzitutto sui rapporti col dottor Max (inizio di rapporti, sviluppo e conclusioni o possibili conclusioni perché di conclusione ce n’è una sola), poi sugli infiniti rapporti tra i reparti, sempre in relazione al dottor Max, ai suoi umori e alle sue improvvise simpatie e antipatie, infine sui rapporti che il dottor Max ha con gli altri, degli altri reparti e sui quali non è affatto facile informarsi ma che è necessario conoscere, nelle grosse linee, per poter fare delle previsioni.37

Il dottor Max ha un atteggiamento che tende a «modellarsi secondo stampi religiosi»38 e vorrebbe avere con i suoi dipendenti lo stesso comportamento di un Dio con i suoi discepoli, sue creature e figli: «Purtroppo Dio non c’è per fulminarvi, ma lo farò io se sarà necessario, avete capito? Avete capito? Avete capito?».39 Da molti critici è stato infatti evidenziato il carattere religioso del romanzo di Parise,40 che nel dottor Max – con l’aiuto di un manager inumano, Rebo, di cui anche il Padrone sente la soggezione e che rappresenta perfettamente il neocapitalismo – identifica il Dio che vuole plasmare la sua discendenza lavorativa. Nel testo i rimandi alla religiosità sono diversi. Si pensi a quando il Padrone afferma che l’utilità del denaro è quella di realizzare un’idea morale:41

È un’idea religiosa: vorrei che la ditta fosse una specie di comunità religiosa, dove il lavoro si svolge come un rito. A differenza di molti altri, o di molte altre ditte, che vogliono far quattrini e basta e se ne fregano dell’uomo.42

Ed effettivamente al dottor Max interessa l’uomo, sia per la creazione del dipendente-modello sia per l’espressione di una volontà di dominio e potere assoluto. Come si legge nel dialogo tra il narratore e il Padrone:

«Già, ma una comunità religiosa, con i suoi riti, ha bisogno di una divinità, e se vuole, di una idea di Dio. Di un Dio giusto, buono o terribile, o che so io. E quale sarebbe questo Dio?»

Il dottor Max ha sorriso.43

Parise, nato e cresciuto a Vicenza, ha in mente la religione cristiano-cattolica, severa, del Nord e scrive: «Questa cosa misteriosa era ancora Dio, molto più presente d’inverno che d’estate. Dunque Dio si fondeva nella nostra immaginazione con la Chiesa cattolica, con Gesù morto sulla Croce, con la punizione di qualunque anche piccolissimo peccato».44 Così come Parise nella sua rubrica «Suite romana» compara la Chiesa cattolica del Nord, austera e fredda, a quella Romana, frivola e mondana, allo stesso modo nel Padrone il narratore mette in contrasto la religione delle chiese con quella della città industriale:

Questa vita, se non fosse per le preoccupazioni (vere e proprie preoccupazioni di sopravvivenza), che mi dà la ditta e soprattutto il dottor Max, è la vita ideale di un uomo. Ci sono momenti in cui, nel sentirmi perduto e al tempo stesso potentemente protetto tra la folla, per esempio in filobus, o alla mensa, o in ufficio (le spalle coperte dalla nuova sede formicolante di persone che con me si preoccupano), provo un senso di ebbrezza e di grande felicità. C’è in questa sensazione di spersonalizzazione e di anonimia qualche cosa di naturale e di religioso, la stessa inconsapevole ebbrezza che devono provare le formiche quando si aggirano frenetiche in lunghe file, una di andata e una di ritorno, dalla tana al luogo del cibo. Mi sento come una di quelle formiche […]. Credo che anche le religioni accomunino in questo modo gli uomini ma non c’è paragone tra la religiosità che si respira nelle chiese e quella che sprigiona invece dai grandi agglomerati urbani, soprattutto dalle ditte, dalle officine e, in generale, dai luoghi dove si lavora. Perché la prima è una religiosità che si rivolge sempre alla morte, cioè a qualcosa di immobile e anche di astratto, la seconda invece appartiene alla vita e alla realtà.45

Il narratore-dipendente è felice d’essere parte anonima di una massa e di avere la funzione di oggetto di proprietà di qualcun altro, perché senza questa funzione sarebbe «una scoria, un ex bicchiere che viene buttato nei rifiuti cessando così del tutto di essere bicchiere».46 Se la perdita d’identità è inizialmente qualcosa di positivo per il protagonista, che percepisce sia un senso di protezione che il dolore della morte anestetizzarsi, successivamente questa felicità non tarderà a rivelare i suoi risvolti più neri e mortiferi.

IV. Luoghi, ambiente, natura

Nel romanzo anche i luoghi si fanno significanti, come le due sedi dell’azienda, una vecchia e una nuovissima: il Padrone preferisce nettamente la vecchia sede e considera la nuova «una pazzia, una vera pazzia […], una pazzia immorale. Tutto l’apparato meccanografico, altra immoralità, altra pazzia. Del resto è chiaro che il mondo cammina verso la completa demenza, una immorale follia».47 La domanda che si pone è quale possa essere la necessità di una nuova sede: «L’aumento della produzione? Eppure tutto ciò è necessario, anzi più che necessario è un dovere o per meglio dire corrisponde a una morale negativa. Certo, a ben guardare, la cosa più immorale di tutte è la proprietà».48 Ed ecco un’altra contraddizione del dottor Max, anzi una doppia contraddizione, sia perché contrasta la sua funzione di Padrone di un’azienda inserita in un sistema capitalistico – che dovrebbe avere come ambizione la produzione e soprattutto l’ottenimento di buoni risultati in termini di ricavi, in una prospettiva di crescita – sia perché è lui stesso a pretendere e a imporre come punizione ai suoi dipendenti la diminuzione della loro proprietà, decurtando a suo piacere il loro stipendio (trattenendo nelle sue tasche denaro e basando quindi la sanzione proprio sulla proprietà).

Al giovane lavoratore viene chiesto se preferisca avere il suo ufficio nel gabinetto personale del Padrone o averne uno tutto per sé ai piani alti. Anche in questo caso la questione è posta come un ricatto morale e la domanda sottende qualcosa di non puramente logistico: «Preferisce stare vicino a me, qui al primo piano, dove possiamo scambiarci continui pareri e lei mi può fare un po’ di compagnia, o vuole un ufficio tutto per sé ai piani superiori? Lei è libero. Scelga».49 La domanda è retorica ed è una delle prime prove d’addestramento del dipendente-modello, che il Padrone interroga per capire quanto possa investire su di lui in quanto “paziente zero”. Infatti, il dottor Max dice di poter dedurre molto dalla risposta del dipendente:

se amano a questo punto un ufficio appariscente non può essere che per due ragioni: o perché esigono da me, cioè dalla proprietà, un segno di rispetto e di considerazione esteriore, come dire che lavorando in un ufficio spazioso essi hanno diritto a uno stipendio equivalente all’ufficio. Oppure lo vogliono spinti da un desiderio, diciamo così, psicologico, di far parte della proprietà, e anche della ditta: cioè di sentirsi per otto ore al giorno proprietari di una parte, seppur piccola, della ditta. Rivelando così un’aspirazione alla proprietà (ma anche un attaccamento ad essa) che può risultare antipatica ma al tempo stesso patetica. Perché essi alla proprietà non arriveranno mai, […] essi, confondendosi con quei cristalli, quei mobili e quell’aria condizionata, ma quel che è più importante, coll’essenza di tutte queste cose, automaticamente diventano miei, appunto come quelle cose. In entrambi i casi essi sono quello che sono, cioè miei dipendenti, il resto è illusione.50

Il pensiero del Padrone è lucido e agghiacciante, coerente con la sua brama assoluta di possesso. Cosa importa ai dipendenti avere proprietà materiali se lui è padrone della loro anima? La sua contraddizione costitutiva esplode anche in scatti d’ira, in cui si percepisce l’autocensura e la vergogna di disobbedire alle regole sociali e culturali, come quando afferma: «non voglio che si dica. Per pudore».51 O come quando il giovane protagonista si dichiara di sua proprietà, dopo averlo ascoltato parlare della condizione dei suoi dipendenti:

«Lei è un imbecille, si vergogni! Ma lo sa che questo è un ragionamento schiavistico, razzistico, ignobile? Ma le pare che un uomo possa essere proprietà di un altro uomo? Ma cosa dice mai?»

«Ma…» ho balbettato.

«Lei è un uomo libero, ha capito? E come tale deve comportarsi. Lei non è proprietà di nessuno se non di se stesso. E dunque meno che meno è proprietà mia. Ci mancherebbe altro!».52

Un luogo che agli occhi del protagonista ripropone i rapporti di forza dell’azienda è la serra che divide il vecchio edificio dal palazzo di vetro, dove al primo piano è la casa della famiglia aziendale del dottor Max, di sua madre la dottoressa Uraza e del padre Saturno. La serra rappresenta anche simbolicamente un varco: la trasformazione sia del protagonista sia dell’industria e della società verso il neocapitalismo. La citazione è lunga ma significativa:

Come avevo indovinato fin dal primo giorno del mio arrivo in ditta (quanto tempo è passato, eppure mi pare ieri) al di là di quella vetrata c’è un giardino. Anzi non proprio un giardino, ma una specie di orto botanico, una sorta di grande serra chiusa dalla cupola di vetro, da cui penetra la luce. L’umidità e il profumo dei fiori e delle piante toglie per un momento il respiro ma mi sono abituato subito […]. Tutta la vegetazione, costretta dalla cupola vetrata a non salire più di quel tanto, aveva l’aspetto massiccio e occhiuto di una folla di nani. Infatti le piante, anche quelle piccole, erano grasse oltre misura, quasi sofferenti di quella obesità, e il terreno, nonostante i fiori tra le foglie fossero giovani e quasi in boccio, rivelava le tracce di petali enormi e sfatti, simili a pezzi di carne o lembi di pelle sanguinolenta […]. Tutto l’ambiente era molto bello, intensamente profumato quasi di favola ma al tempo stesso saturo di quell’aria funebre e immota che nasce e si sprigiona sempre dalla vita artificiale: quelle radici, quei tronchi, quei rami, quelle foglie e quei fiori, tutti nani, racchiudevano nella loro ottusa pinguedine una forza oscura, violenta e perfino minacciosa che non somigliava affatto al respiro della flora naturale ma piuttosto al caldo fiato di un’immensa fauna in agguato tra il verde. Ho pensato che quel giardino rappresentava un poco tutti noi della ditta, compresi il dottor Max e sua madre la dottoressa Uraza. Ognuno di noi, e loro stessi che erano i padroni, eravamo rinchiusi in una grande trappola mortuaria simile a quel giardino: e proprio come quei peschi, quelle viti, il glicine e la magnolia, costretti a un arresto di sviluppo naturale, a una inutile concentrazione di energie che ci aveva ridotti quello che eravamo: piccoli mostri simili a quelle piante. Ma a differenza di quelle piante che esprimevano la loro mostruosità nei colori, nell’umidità e nell’esibizione polpacciuta e pietosa del loro benessere vegetale, con l’incoscienza appunto dei mostri senza coscienza, noi non la esprimevamo affatto, anzi ognuno di noi la nascondeva dentro di sé con ogni mezzo, covando per questa ragione, una verso l’altro, un odio ogni giorno maggiore.53

Il protagonista è ora al picco della sua insofferenza. Il parallelo tra i lavoratori e la natura deviata come metafora del dipendente tornerà alla fine del romanzo, nella lettera che il Padrone invia al giovane per convincerlo a sposare Zilietta e in cui lo paragona a un albero “addomesticato”. Nel Padrone la natura si presenta sia come mondo vegetale sia nell’animalità dei personaggi, in contrasto con gli oggetti inermi e come qualcosa da reprimere. Il carattere animalesco nei personaggi resiste come bestialità e lotta per la vita. Per di più, la ditta non modifica e distrugge solamente chi ne fa direttamente parte ma anche ciò che gli sta intorno, perché il capitalismo e i suoi rapporti di forza sono mortiferi e riducono ogni cosa a merce, i sentimenti come la vita.

Il modo in cui il meccanismo capitalista ingloba la vita umana è graduale e ingannevole. Se inizialmente, infatti, il protagonista ne resta ingenuamente affascinato, soprattutto per la speranza della realizzazione di una promessa di benessere e di gratificazione sociale, ne riconosce però istintivamente la pericolosità, anche se dimostra non poche difficoltà ad ammetterlo razionalmente. Nel Padrone, infatti, il dipendente esce dal suo primo giorno di lavoro e pensa, passeggiando fuori dalla ditta: «Ora finalmente ero solo, padrone di me, e avevo davanti ai miei occhi la città generosa che mi aveva subito offerto lavoro».54 Sentirsi padrone di sé stesso vuol dire per il giovane avere un lavoro, essere emancipato e avere la possibilità di camminare, dice, «senza stancarmi mai di guardare le case, le strade, i negozi, i cinematografi, l’immenso fiume di automobili che correva strombettando allegramente come per giocare e la gente che camminava accanto a me sui marciapiedi».55 La nuova realtà, la metropoli e la sua nuova vita sono dei catalizzatori d’illusioni. Inoltre, da un punto di vista simbolico, il giovane si muove in una città ormai quasi buia: il sole lo aveva visto tramontare dal palazzo dell’azienda e ne restavano solo gli ultimi raggi. L’immagine del tramonto che lascia la città sotto un cielo ormai «già viola scuro»56 rispecchia la situazione in cui si trova il protagonista, che attraverserà nel romanzo un passaggio altrettanto cupo. Poche pagine più avanti tornerà un crepuscolo significativo per il senso del romanzo: il giovane scrive di essersi seduto su una panchina

guardando il sole che calava dietro il palazzo della ditta: il palazzo era vuoto e trasparente e il sole da rosso arancio è diventato nerastro quando si è immerso dietro i cristalli. Tutto il parco, i colori degli alberi, i prati rasati, la fontana e i vestiti dei bambini hanno subìto in quel momento una rapida metamorfosi: i verdi si sono incupiti rivelando ombre profonde e dense dove prima qualcosa si muoveva e scintillava, gli uccelli hanno smesso di cantare e di pigolare tutti insieme, si udiva solo qualche verso acuto qua e là. Anche l’umore dei bambini e dei loro accompagnatori è cambiato, i bambini si sono innervositi, hanno cominciato a fare capricci e le madri e le governanti li hanno strappati dalla fontana portandoli verso lo zoo o verso le zone dove l’ombra azzurra del palazzo di vetro non era ancora giunta e splendeva qualche lama di sole.57

Questo passo è alla fine del secondo capitolo, dunque all’inizio del romanzo, quando il giovane sente una fascinazione per l’azienda e per il Padrone: il palazzo della ditta, nonostante tutto, «emanava una forza di attrazione e di concentrazione simile alla fede religiosa. Come questa, infatti, ma senza oscurità e senza mistero, la ditta mi aveva chiamato a sé e ora la mia vita le apparteneva per sempre».58 Non stupisce che Guido Piovene, che ha pubblicato un’illuminante recensione del Padrone, paragoni la società iper-tecnologica alla quale il romanzo si riferisce al campo di concentramento che «avanza verso una specie di nazificazione larvata» e che «può essere […] un campo di sterminio, ma abitualmente è un luogo di convivenza forzata fra tristi vittime e tristi carnefici, destinati a imitarsi perché la realtà è comune, privi di anima, vuoti nel sopraffare e nel subire, avidi di morire finché rimane in essi un barlume d’umano, poi adattati in un’atonia dove l’unico scopo è la sopravvivenza».59

V. «Il lavoro rende liberi»: il narratore-dipendente

Così come il Padrone, il dipendente subisce un’evoluzione – anche se non lineare – e manifesta dei momenti di contraddizione. Ne è un esempio il suo sentirsi parte di una comunità: l’incoerenza in questo caso si manifesta nel fatto che da una parte desidera sentirsi incluso in un gruppo sociale, dall’altra nega quest’aspirazione. Il giovane vorrebbe avere «una casa […], una moglie e un figlio, dei vicini che udranno la mia voce e i racconti dei miei successi commerciali nella ditta, come io potrò udire i loro», dando a queste conquiste il valore di un riscatto sociale. «Tuttavia», afferma, «non voglio pensarci troppo, si sa che quando si desidera molto una cosa e tutti gli sforzi di un uomo sono rivolti a questo scopo, si finisce per ottenerla».60 Queste parole lasciano trasparire la consapevolezza dei propri desideri da parte del protagonista ma possono anche – e credo più verosimilmente – essere intese come una spia rivelatrice dell’inautenticità delle sue aspirazioni.

In altri momenti, il narratore scrive e pensa con lucidità, analizzando il contesto e sé stesso: in questi passi traspare spesso noia, disaccordo e odio, che si traducono in una scrittura puntuale e liberatoria, simile a una seduta psicanalitica. Infatti, contemporaneamente all’entusiasmo per la nuova vita e alla fascinazione per il dottor Max, il narratore scrive, in un impeto di chiarezza, sempre nel primo capitolo, di avere la «sensazione di una trappola»:

quante cose erano accadute in un giorno: avevo trovato lavoro, avevo conosciuto il padrone della ditta commerciale, il dottor Max, che in quel momento (per un istante ebbi la sensazione di una trappola) mi teneva addirittura sottobraccio, avevo visto i volti di molta altra gente che avrei potuto conoscere meglio e ora mi trovavo ai piani più alti della nuova sede della ditta che non più tardi di questa mattina mi ero accontentato di guardare un momento dal basso scambiando anche questo desiderio per giovanile improntitudine.61

Il protagonista soccombe infine al proprio destino: viene scelto come dipendente modello e paragonato a un «albero da giardino»,62 nato dall’«inseminazione del padrone stesso»,63 in quanto uomo «puro, intatto».64 E l’annullamento di sé e l’omologazione dovuti all’essere lavoratore passa anche per la descrizione di alcuni tratti significativi dell’ambiente e di chi lo abita come, per esempio, il sorriso dei commessi nel negozio in cui il narratore, entusiasta per il nuovo stipendio, decide di comprare un cappotto a rate: «avevano denti uguali e uguale modo di sorridere».65

Inizialmente il giovane, che viene dalla provincia ed è forte del sostegno della sua famiglia e dell’amore della sua fidanzata, venendo in contatto con l’azienda ne è come folgorato:

da oggi la mia vita muta radicalmente: fino a ieri ero un ragazzo di provincia, senza nulla in mano, che viveva alle spalle dei genitori. Oggi, invece, sono un uomo che ha trovato lavoro e che d’ora in poi provvederà a se stesso […]. Lo so, voi mi amate molto più di quanto io possa amare voi, ma non è colpa mia, bensì delle leggi che così vogliono perché la vita continui. Tuttavia, durante questo primo giorno, ho pensato molto a voi, alla nostra città, ai nonni, alle zie, a tutte le persone care con cui ho vissuto fino ad oggi e mi sono commosso fino alle lacrime.66

«Il lavoro rende liberi» («Arbeit macht frei») sembra di leggere in queste righe, proseguendo la metafora del campo di concentramento proposta da Piovene.

Il giovane prova per la sua nuova vita contemporaneamente l’entusiasmo degli inizi, il dolore della separazione e l’incertezza per il futuro. Inoltre, attraverso il lavoro, egli può inserirsi in dinamiche sociali e in una comunità che lo fanno sentire parte di qualcosa di nuovo, non più isolato nella vecchia provincia. È una sensazione, dice il narratore, «che non avevo mai provato, è molto bella, un poco simile a quella che si ha al cinematografo quando, in un bel film, tutti gli spettatori, il loro cuore, la loro ragione e i loro sensi provano la medesima emozione».67

Ma più che in un cinema, il giovane si troverà in un incubo. Se infatti all’inizio del romanzo l’accesso alla vita cittadina e lavorativa era legato al proprio passato e il protagonista, anche se ormai “uomo”, non aveva reciso il filo che lo univa alla famiglia e alla provincia, nel corso del libro il cambiamento del narratore passa anche per la cancellazione del proprio vissuto e per la fine delle relazioni precedenti all’ingresso in azienda. Già la sera del primo giorno di lavoro, infatti, il giovane, da subito minato dalle dinamiche aziendali, non riesce a dormire, rendendosi conto di non aver mai pensato durante la giornata a Maria, la sua fidanzata:

Perdonami, Maria, ma se tu sapessi quante cose ho avuto da fare e osservare tutto il giorno! Non pensare che non ti ami, sai che sono qui, in questa grande città, per trovare un lavoro in modo da potere presto far fronte ai miei impegni verso di te, verso la tua famiglia, verso la città che ci ha visto insieme per tre anni come fidanzati. Ora questo lavoro l’ho trovato, spero che tutto vada bene.68

E più avanti, riflettendo sulla sua città abitata da anziani, tra cui i suoi genitori:

Parlano, ma cosa dicono non so, forse delle speranze che essi hanno riposto in me: ebbene, cari genitori, anche se voi ora non mi sentite io posso dirvi che sono felice, che le vostre speranze sono ben riposte, che già fin da oggi, per quel che ho potuto, ho fatto molto, moltissimo, molto più di quello che voi, con il vostro amore per me, potreste anche lontanamente immaginare.69

Queste parole sembrano nascere da un momento di lucidità e di comprensione del protagonista (un’”illuminazione”, per utilizzare un termine parisiano), in contraddizione con quanto si legge all’inizio del capitolo, dove l’amore dei genitori per lui è descritto come un sentimento inarrivabile: il lavoro distrugge e declassa quello che l’amore può.

Nel sesto capitolo il narratore decide di tornare a casa per riflettere più lucidamente sul suo rapporto con il dottor Max, e quello che prova è «un sentimento […] di insofferenza, di noia e perfino di assurdità», e deve «ammettere, con ripugnanza, che più nulla mi lega a mio padre, a mia madre, a Maria e alla città in cui sono nato. Non un sentimento, non un ricordo, nulla».70 Anche le sue cose gli sembrano quelle di un estraneo e decide di rompere il fidanzamento con Maria. Il narratore è svuotato di sé, è diventato un altro che lui non ha scelto, trasformandosi nell’automa-lavoratore voluto dal Padrone, che dedica corpo e anima alla ditta: «Che cosa è accaduto?», gli chiede il padre, e lui risponde «Non lo so»:

Eppure qualcosa è accaduto perché queste persone sono pur sempre mia madre, mio padre, la mia fidanzata, e questa città la città dove sono nato. È possibile che in così poco tempo non soltanto sia scomparso il passato, ma che questo passato addirittura non esista, se non nei sentimenti, almeno nella memoria? È possibile che la grande città, la ditta e soprattutto il dottor Max abbiano potuto spazzar via tutto ciò che è stata la mia vita?71

La risposta che il romanzo dà a queste domande è positiva: il dipendente non riesce a reagire alla volontà del Padrone e, nel suo dedicarsi al lavoro, si sente costretto a farsi oggetto e ad annullarsi. All’esitazione che il protagonista mostra all’idea di sposare Zilietta il Padrone replica:

La purezza che lei possedeva il giorno del suo arrivo in ditta e che ora ha perduta. La purezza di cuore, quella purezza di dipendente modello a cui tutti si uniformeranno un giorno. Immorale perché lei parla degli oggetti, riferendosi a Zilietta, col massimo disprezzo, quando invece proprio il fatto di diventare un oggetto è forse la conquista più alta di un uomo come lei che voglia trovare una collocazione reale in una ditta. Finché sarà uomo, così come intende la personalità umana, non ci sarà mai un posto per lei in una ditta.72

VI. Ribellarsi o soccombere?

Il dottor Max infonde nel protagonista il senso di colpa e sa che, in ogni caso, lui tornerà («è certo che ritornerà»)73 perché acquisirà «coscienza reale delle cose», comprendendo che «non c’è realtà senza padroni»:74 da cosa dipenderebbe, altrimenti, un dipendente?75 Il narratore dedica letteralmente anima e corpo alla ditta, sottoponendosi alla somministrazione obbligatoria di dolorosissime iniezioni di vitamine:

il dolore dell’iniezione è forte e può durare anche tutta la giornata, ma questo dolore è nulla, assolutamente nulla in confronto a un altro dolore che mi tormenta ben di più dell’intera giornata. Questo dolore nasce in parte dal dolore medesimo dell’iniezione ma soprattutto dalla convinzione che il dottor Max mi ha offerto di fare queste iniezioni appunto perché dolorose, in una parola per farmi del male e per infierire su di me.76

L’umiliazione, il dolore e la frustrazione per l’imposizione delle iniezioni portano al culmine l’insofferenza del narratore verso la ditta, la sua nuova vita e soprattutto verso il Padrone,77 fino a desiderare di ucciderlo: «Molte volte ho pensato di ucciderlo. […] Mi trattenevano soltanto la logica, il buon senso, ma sempre all’ultimo istante».78 Ma è solo nell’immaginazione che il delitto si realizza, nel sogno di un accoltellamento al cuore ai bordi dell’autostrada (con l’«arma più naturale e anche più soddisfacente»),79 perché nella realtà non c’è abbastanza forza:

Naturalmente ruberei il portafoglio e l’orologio. Non c’è delitto senza movente. Poi, forse, rimarrei un istante a guardarlo: che non soffia più, non gorgoglia dalle ferite nei polmoni, non ansima, non moralizza, non fa nulla. Spettro del denaro, senza più denaro. Idiota, canaglia. Oh, Superman!

Infine, eccomi: attraverso i campi di corsa, sono in periferia, illuminato, in certo qual senso glorificato dalla gigantesca scritta rossa: TORNADO, che sovrasta la città e mi sta alle spalle. Eccomi sul tram, poi sul filobus, sulle scale, a casa, eccomi qui.

Spesso, in questi momenti, trilla il telefono.

«Scemo, cosa fa? Dorme?»

È lui, il dottor Max.80

Durante un’iniezione giornaliera il giovane scoppia in un pianto silenzioso e remissivo e immagina di uccidere anche Lotar, l’uomo-scimmia tuttofare del dottor Max – servizievole e fedele, esecutore materiale e impeccabile delle punture – per mettere fine all’obbligo della cura e alleggerire la sua prigionia. Sono le voci del passato che gli parlano per convincerlo a compiere o a desistere dal fare il gesto estremo:

Mi è parso di sentire le voci di mio padre, di mia madre e di Maria, tutte insieme che dicevano: «Ma non devi piangere per una semplice iniezione! Cosa sarà mai? Sai quanta gente al mondo sta peggio di te, è costretta a sopportare cose ben più gravi, gli ammalati negli ospedali, per esempio, o i minatori che devono stare per ore e ore a mille metri di profondità, o gli spazzini che sono costretti a maneggiare tutto il giorno l’immondezza. Tutti sopportano, perché anche tu non devi sopportare? Una cosa che ti fa bene, poi. Su, su…».81

Nell’immaginazione del protagonista, la sua famiglia antepone al suo sacrificio quello di altri uomini. Ma tra loro c’è una differenza fondamentale: se per gli ammalati, i minatori e gli spazzini la sofferenza intacca il corpo, nel giovane a essere compromessa è prima di tutto la psiche. E subito dopo:

Al tempo stesso ho sentito altre voci, tutte di uomini celebri, Frank Sinatra, Al Capone, Giulio Cesare, Cesare Borgia, Marcellus Cassius Clay, Einstein, che ripetevano in coro: «Che fai? Cosa aspetti? Fallo subito, ora, hai un tagliacarte, lì sul tavolo, infilzalo, ah». Poi anche le voci sono scomparse e io sono lì curvo sul tavolo, con Lotar che mi massaggia la coscia.82

Il narratore si sente incitato non da personaggi di fantasia o del fumetto ma da uomini realmente esistiti. In questo momento sembra che la storia e l’umanità del giovane che il Padrone vorrebbe annullare tentino una ribellione: sono il colpo di coda, disperatissimo, prima della rassegnazione al matrimonio con Zilietta e della generazione di un figlio demente, a cui il protagonista augura di nascere già oggetto, così da non soffrire come ha sofferto lui, che è stato anche uomo:

Spero dunque che non sia come me, uomo con qualche barlume di ragione, ma felice come sua madre nella beatitudine pura dell’esistenza. Egli non userà la parola ma nemmeno saprà mai cosa è morale e cosa è immorale. Gli auguro una vita simile a quella del barattolo che in questo momento sua madre ha in mano, solo così nessuno potrà fargli del male.83

La morte – e la lotta per la vita, la Struggle for life darwiniana – è uno dei temi fondamentali del romanzo ed è riconosciuta come il modo per svincolarsi dal «ciclo naturale della sopraffazione»84 e dalla condizione di oggetto, come farà il dipendente Pippo suicidandosi con dei barbiturici in una camera d’albergo vicino alla stazione. Nel gesto di questo personaggio sono confermati dei meccanismi e dei motivi del romanzo. I barbiturici, infatti, sono utilizzati principalmente come ansiolitici e sonniferi: ingerendone una dose eccessiva Pippo si suicida entrando in un sonno irreversibile, in un sogno senza ritorno, e cioè nella dimensione in cui il narratore era riuscito a trovare il coraggio di uccidere il Padrone. Anche la zona del suicidio è significativa: la stazione è un luogo che consente la fuga – in questo caso definitiva. Uccidersi sembra essere l’unica libertà rimasta ai personaggi e ogni volta che nel romanzo appare la morte il senso di irrealtà scompare, come dopo il funerale di Pippo:

Stranamente anche questa giornata è stata una giornata reale a differenza di tutte le altre che non lo sono. Un’altra volta ho provato questa sensazione di realtà ed è stato in presenza del dottor Saturno quando ho capito, dalle sue parole e dai suoi occhi, che egli era vicino alla morte. E oggi, con la morte di Pippo. Il che mi fa pensare, data la coincidenza, che la sola realtà possibile sia appunto la morte. Allora tutto il resto cosa sarebbe?85

Pensando di fargli piacere, il protagonista confida al Padrone che la sua unica aspirazione è la morte – e non più la vita borghese che desiderava all’inizio del romanzo. Al contrario, il dottor Max cercherà di togliergli anche quell’unico desiderio umano che gli resta, perché lo rende libero:86

«Ma lei a che cosa aspira? Perché a qualcosa vorrà pure arrivare, vorrà anche lei arraffare qualcosa dalla vita o da me, come tutti, come tutto il mondo. Vorrà anche lei rubacchiare qualcosa, e dunque…»

L’ho interrotto, per la prima volta, e ho risposto:

«Sì, anch’io aspiro a qualcosa.»

«E a cosa aspira? Sentiamo.»

Per farlo felice ho risposto:

«Alla morte.» Ma ho provato dolore perché quello che dicevo era la verità.87

Il protagonista, però, sa che ormai è troppo tardi: si è trasformato nel dipendente modello; ma, nonostante tutto, resta consapevole della propria sottomissione e prova un forte rimorso:

Se mi fossi opposto alle mille violenze di ogni giorno con altrettanta e maggiore violenza, forse ora non sarei a questo punto, non avrei alcun obbligo di sposare Zilietta, non solo, ma la mia posizione e il mio stipendio sarebbero i massimi che si raggiungono in una ditta come la mia. […] È possibile infine che io, che sono sempre stato il primo in tutto, abbia perso il senso della realtà fino a questo punto?88

Il desiderio di rivalsa sociale, di far parte della grande macchina aziendale e di non essere solo hanno dato questi risultati. Il narratore ha infine ottenuto quella forma di vita borghese che desiderava all’inizio del libro, diventando veramente parte del meccanismo capitalistico:

Ho dunque una moglie, una casa, un frigorifero, una lavatrice: tutto quello che occorre per vivere nella società; il mio stipendio è ottimo, il dottor Max mi ha regalato un’automobile nuova e oggi nessuno saprebbe riconoscere in me l’uomo di un tempo nella grande massa dei dipendenti che affollano le strade al mattino per recarsi al lavoro. Col mio matrimonio il dottor Max si è molto placato in quanto egli vede nella mia famiglia il prototipo della famiglia ideale che intende creare in futuro: cioè il capolavoro della proprietà assoluta.89

La vita con Zilietta è una vita normale, scrive il narratore, se non fosse per l’assenza della parola («chiamati col loro nome tutti gli oggetti, non resta che il silenzio», che servirebbe «agli uomini per comunicare tra loro e per essere poeti. Forse sarà servita un tempo. Per conto mio essa è soltanto uno strumento di difesa e di offesa nella lotta».90

In una lettera del 12 giugno 1965 a Giovanni Comisso, quindi poco dopo la pubblicazione del Padrone, Parise scrive, parlando dell’inutilità della letteratura nel presente:

Ciò che è utile oggi sono soltanto gli oggetti, una miriade, un caleidoscopio di oggetti toccabili e azionabili meccanicamente: tra di essi la parola, l’ineffabile strumento che ci ha dato la natura, è simile a una farfalla tra gli ingranaggi di una macchina elettronica. Essa vola comunque, ma l’occhio dell’operatore meccanografico non si posa sulla farfalletta ma sulle cifre. […] La realtà impoetica che ho sotto gli occhi è l’unica realtà vera, e non mi resta che rappresentare l’assenza di poesia di questa realtà. […] Vivo nello sbalordimento del nulla di certo, nella mancanza dei sentimenti, nel dolore appunto di una realtà che offre solo cose tangibili.91

Ma, essendo scrittore, Parise usa come strumento proprio la parola che, come si legge nel romanzo, ha la sua funzione di poesia, di comunicazione e di feroce resistenza. In un’intervista del 1969 Parise dirà:

«Il nazismo è nella vita quotidiana […] Hitler non è stato che un precursore. Oggi riviviamo industrialmente, con forzature ideologiche, la qualità della violenza del nazismo: cioè, prima di tutto qualità moralistica, per il momento astratta. Ma il nazismo si sta riformando intorno a noi. E noi saremo le prime vittime».

Noi, chi? gli chiedo.

«I razionali, i razionalisti, i liberi, gli inadatti al moralismo ideologico».92

Il padrone è stato scritto nel 1964, dunque pochi anni prima sia del Sessantotto che dell’espansione del neocapitalismo totalitario che oggi abbiamo sotto gli occhi. Con grandissima lungimiranza, con un «miscuglio di dolore intellettuale o di vitalità biologica»,93 Parise ha immaginato un mondo per quegli anni distopico, che pure a noi sembra quasi attuale, se non fosse per i suoi eccessi romanzeschi. Parise, anche se sconfortato e intimorito da un cambiamento così epocale, a differenza del protagonista del romanzo, non si è arreso: scrivendo Il padrone ha scelto la letteratura come forma di resilienza.

Note

1 G. Parise, Amore e fervore, Milano, Garzanti, 1959; dal 1973 con titolo Atti impuri.

2 Cit. in G. Parise, Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, I [1987], Milano, Mondadori, 2006, p. 1597.

3 «I personaggi metaforici sono due: il Padrone e il Dipendente, legati fra loro da un rapporto complesso, ma soprattutto dalla megalomania padronale, dalla prepotenza neocapitalistica» (A. Barbato, Il Colosseo di plastica, in «L’Espresso», 11 aprile 1965).

4 G. Parise, Il padrone, Milano, Feltrinelli, 1965; poi Torino, Einaudi, 1971; poi con introduzione di S. Perrella, Milano, Mondadori, 1992; poi Milano, Rizzoli, 1999; poi Milano, Adelphi, 2011; con il testo del 1971 in Id., Opere, I cit., pp. 833-1073: 1040-1041. A quest’ultima edizione si riferiscono le indicazioni date in seguito.

5 Si legge, per esempio, in un articolo del 1983: «Altri amici tra cui il mio primo editore, Livio Garzanti, uguale a sempre, con gli stessi problemi di sempre» (G. Parise, Mia cara Milano ecco perché ti amo, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1983).

6 G. Parise, Il «padrone» dice Parise non è un romanzo di fabbrica, intervista a cura di M. Grillandi, in «Il Gazzettino», 20 luglio 1965.

7 G. Parise, Sto cercando di capire che cosa vuol dire felicità, intervista a cura di E. Fabiani, in «Gente», 4 novembre 1972.

8 I viaggi statunitensi di Goffredo Parise (il primo del 1961 e il secondo del 1975) e gli scritti relativi sono stati puntualmente analizzati nel volume di P. Dato, L’ultimo anti-americano. Goffredo Parise e gli USA: dal mito al rifiuto, Roma, Aracne, 2009.

9 G. Parise, Odore d’America, Milano, Mondadori, 1990.

10 Fotobiografia corredata da una Conversazione con Giosetta Fioroni in G. Pedullà (a cura di), Dossier Parise, in «Il Caffè Illustrato», 3, novembre-dicembre 2001, pp. 52-65: p. 58.

11 A. Balduino, I “miti” americani di Parise, in I. Crotti (a cura di), Goffredo Parise. Atti del Convegno di Venezia, Istituto per le Lettere, il Teatro e il Melodramma della Fondazione «Giorgio Cini», 24-25 maggio 1995, Firenze, Olschki, 1997, pp. 79-97: p. 90.

12 C. Marabini, Dopo l’incubo, in «Il Mondo», 24 maggio 1970. Parlando del «crematorio», ci si riferisce al libro di G. Parise, Il crematorio di Vienna (1969).

13 Cfr. D. Scarpa, In the blood, in the mood. Goffredo Parise tra Darwin e Montale, in P. Grossi (a cura di), Les illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise. Actes du colloque international de l’université de Caen, 14-15 mai 1999, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2000, pp. 123-147; ora con titolo In his blood, in his mood. Goffredo Parise tra Darwin e Montale, in Id., Storie avventurose di libri necessari, Roma, Gaffi, 2010, pp. 255-284 e 443-453.

14 «Darwin è una delle mie letture preferite» (M. Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, in «La Fiera letteraria», XLIII, 34, 22 agosto 1968, pp. 16-17: p. 16).

15 A. Barbato, Il Colosseo di plastica, cit.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 Ibidem.

19 G. Debenedetti, Parise? L’unico erede di Kafka, in «L’Espresso», 11 gennaio 1987; ora in Goffredo Parise, numero monografico di «Riga» a cura di M. Belpoliti e A. Cortellessa, Milano, Marcos y Marcos, 2016, pp. 278-279: p. 278.

20 Cfr. F. Cordelli, Dalla provincia al pop nel segno del vitalismo, in «Paese Sera», 1 settembre 1986; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 310-311: p. 310.

21 A. Zanzotto, Introduzione a G. Parise, Opere, I cit., pp. XI-XXXVII: p. XXI; poi in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, pp. 253-278: p. 262; poi, leggermente ampliato, in Id., Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, II, Milano, Mondadori, 2001, pp. 253-277: p. 262. La questione è approfondita in S. Lazzarin, Tracce di fantastico nel «Padrone» (1965) di Goffredo Parise, in «Critica letteraria», XLIV, 173/2016, pp. 733-762.

22 A. Barbato, Il Colosseo di plastica, cit.

23 N. Naldini, Il nuovo padrone di Milano, in Crotti (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 165-172: p. 166.

24 Ivi, p. 167. Si legge più avanti, sull’attenzione di Parise alla fisiognomica delle persone: «Parise ha sempre prestato molta attenzione alla presenza delle persone; alla fisiognomica, ai messaggi del corpo e alle sue espressioni, specie se seminascoste o occulte. Chi lo ha conosciuto non farà fatica a ricordare come Goffredo incontrando per la prima volta qualcuno, di qualsiasi età fosse o sesso, era solito tenergli gli occhi puntati addosso con uno sguardo non indagatore, bensì, per così dire, intensamente speculativo» (ivi, p. 171).

25 A. Moravia, Il moralista senza psicanalisi, in «Corriere della Sera», 5 marzo 1967; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa, Goffredo Parise, cit., pp. 282-283: p. 283.

26 Cfr. G. Pullini, Il “bestiario” di Goffredo Parise. Dal «Padrone» all’«Assoluto naturale» (e altrove), in Crotti (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 181-204.

27 A. Zanzotto, Introduzione, cit., p. XXI.

28 «Si è fatto giallo, gli occhi sono spariti tra le due fessure delle palpebre, la secrezione biancastra è apparsa agli angoli della bocca e tutto il corpo si è rimpicciolito e incurvato sulla sedia, in una successione di piccoli fremiti che partivano dalla nuca e finivano fino alla schiena» (G. Parise, Il padrone, cit., p. 876).

29 Ivi, p. 855.

30 Ivi, p. 914.

31 Ivi, pp. 855-856.

32 Ivi, p. 910.

33 Ivi, p. 891.

34 È significativo che il dottor Max sia l’unico personaggio del romanzo che viene definito sia con un nome proprio che con il suo ruolo.

35 G. Parise, Il padrone, cit., p. 892.

36 G. Parise, New York, Venezia, Edizioni del Ruzante, 1977; poi, a cura di S. Perrella, Milano, Rizzoli, 2001; ora in Id., Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, II [1989], Milano, Mondadori, 2005, pp. 997-1053 (il reportage è stato prima pubblicato sul «Corriere della Sera» nel 1976).

37 G. Parise, Il padrone, cit., pp. 933-934.

38 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, in «Successo», VII, 6, giugno 1965, pp. 59-61; ora in M. Belpoliti e A. Cortellessa (a cura di), Goffredo Parise, cit., pp. 272-277: p. 276. Si legge più avanti: «(Dio amante, uomo che l’ama e chiede di annullarsi in lui, libertà di separarsi da Dio e scegliere così l’inferno), anzi diventano una forma di religione pervertita; e quel miscuglio di morale e di sentimento nei rapporti tra padrone e servo, li umanizza, cioè li rende peggio, perché non modifica nulla della loro sostanza, ma vi fa colare elementi sadici e masochistici che li rendono, in più, perversi. Essi mettono in gioco tutta l’anima morbosamente, la espongono interamente alla disgregazione, ne accrescono il dolore almeno fin quando le resta il sogno di essere diversa. Giacché al momento giusto il dottor Max griderà con voce acutissima e scossa dal tremito: “Io sono il padrone qui dentro, è chiaro? Il padrone, il padrone, il padrone!”» (ivi, pp. 276-277).

39 G. Parise, Il padrone, cit., p. 877.

40 G. Cfr. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit. e A. Gialloreto, Barlumi «d’acrobatica ragione nelle sfere del nulla». Il difficile attraversamento degli anni Sessanta, in Id., La parola trasparente. Il sillabario narrativo di Goffredo Parise, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 109-139: p. 121.

41 «Fino a ieri bisognava fare del “prestatore d’opera”, cioè della massa, un consumatore perfetto e “morale”, oggi bisogna farne un risparmiatore perfetto e altrettanto “morale”. Per concludere è bene diffidare della parola “morale”, che muta con l’economia. E poi le morali, come spesso le ideologie, servono a confondere le idee. Questa per esempio: che tra gli “imprenditori” e i “prestatori d’opera”, cioè tra i padroni e i dipendenti, esiste come è sempre esistito, sempre e soltanto, un rapporto di forza e nulla più» (G. Parise, “Imprenditori” e “prestatori d’opera”, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1974; oggi in Id., Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, a cura di S. Perrella, Firenze, Liberal libri, 1998, pp. 136-141). Sul rapporto tra lavoratore – operaio, nello specifico – e padrone (i due termini sono stati inutilmente ingentiliti per Parise, perché «le parole non mutano le cose») si legge in un altro articolo della stessa rubrica: «Secondo la mia logica, infatti […] un operaio è prima di tutto un uomo, come lei e come me. […] Come tale, non sarà mai uno strumento industriale né mai sarà contento di esserlo diventato, spinto da necessità elementari» (G. Parise, L’operaio ideale, in «Corriere della Sera», 24 marzo 1974, ora in Id., Verba Volant, cit., pp. 37-43: p. 39).

42 G. Parise, Il padrone, cit., p. 968.

43 Ibidem.

44 G. Parise, La Chiesa cattolica, in «Corriere della Sera», 17 marzo 1976; ora, riproposto a mia cura, in Id., Suite romana, in S. Cirillo (a cura di), Roma punto e a capo. La città eterna attraverso gli occhi dei grandi narratori, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2017, pp. 243-256: p. 255.

45 G. Parise, Il padrone, cit., pp. 906-907.

46 Ivi, p. 908.

47 Ivi, p. 860.

48 Ivi, p. 861.

49 Ivi, p. 887.

50 Ivi, pp. 887-888. Parise tornerà chiaramente sull’argomento dieci anni più tardi in un articolo della sua rubrica «Parise risponde», in cui scrive del disappunto dei padroni per quello che loro percepiscono come disinteresse dei dipendenti verso una “morale del lavoro” (che Parise non condivide, considerando “morale” sinonimo di “ideologia” e associandola ai Paesi socialisti e considerandola inapplicabile in Occidente). Rispondendo agli “imprenditori morali” Parise approfondisce la questione della trasformazione del lavoratore in consumatore e il concetto di morale del lavoro. Secondo l’autore questi discorsi sono solamente un modo per confondere qualcosa che invece è chiaro ed evidente: che il rapporto tra padrone e dipendente è un rapporto di forza. In questo senso, la trasformazione del lavoratore è solo una conseguenza di una trasformazione sociale che lascia però immutata la sostanza del rapporto tra padrone e dipendente: «Elementare è che la “morale del lavoro” ce l’abbia […] l’imprenditore, che non lavora per conto di terzi. […] il “prestatore d’opera” da che il suo lavoro serve ad altro molto più che a sé, e, sia fatto bene o male, vale sempre enormemente più del salario. […] Oggi il “prestatore d’opera”, attraverso e per mezzo dei consumi, è diventato proprietario, non più soltanto delle sue braccia e del suo cervello, ma di una casa, di un’automobile, degli elettrodomestici, di tutte quelle cose insomma che provocano fatalmente e irreversibilmente l’illusione della proprietà. Ora quel “prestatore d’opera”, che gli “imprenditori” vogliono “morale”, è diventato quello che essi stessi volevano diventasse: un consumatore perfetto, un consumatore “morale”. Ma un consumatore “morale” e perfetto non è necessariamente anche un lavoratore perfetto e “morale”. […] il “prestatore d’opera” […] è diventato concorrente dell’”imprenditore”. […] E qui l’odio di classe diventa invidia di classe, la lotta di classe concorrenza di classe. Altro che “morale del lavoro”! […] Fino a ieri bisognava fare del “prestatore d’opera”, cioè della massa, un consumatore perfetto e “morale”, oggi bisogna farne un risparmiatore perfetto e altrettanto “morale”, che muta con l’economia. E poi le morali, come spesso le ideologie, servono a confondere le idee. Questa per esempio: che tra gli “imprenditori” e i “prestatori d’opera”, cioè tra i padroni e i dipendenti, esiste come è sempre esistito, sempre e soltanto, un rapporto di forza e nulla più» (G. Parise, “Imprenditori” e “prestatori d’opera”, cit., pp. 138-141).

51 G. Parise, Il padrone, cit., p. 912.

52 Ivi, p. 889.

53 Ivi, pp. 935-937.

54 Ivi, p. 879.

55 Ibidem.

56 Ibidem.

57 Ivi, p. 902.

58 Ivi, pp. 902-903.

59 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 272.

60 G. Parise, Il padrone, cit., p. 849.

61 Ivi, p. 874.

62 Emblematica è la lettera inviatagli dal Padrone alla fine del romanzo per convincerlo a sposare Zilietta: «Lei era qualche cosa che assomigliava a un giovane albero, […] senza alcun fine. […] Quest’albero, sradicandosi, per così dire, da sé, è giunto qui, in questo giardino […]. Non sapendo quanto è difficile, per una pianta vissuta fino a quel momento in libertà, adattarsi all’ordine ma soprattutto all’idea del giardino. Tuttavia, siccome era saldo e robusto, non ha ceduto come è accaduto a molti, ha difeso la propria esistenza e, con l’aiuto dei giardinieri, ha cominciato ad acquistare della bellezza quasi ideale e matematica che debbono avere gli alberi da giardino. Esso era l’albero più amato dal padrone tanto che egli […] si fermava all’ombra delle sue foglie e lo guardava estasiato. […] Perché mai […] un albero si era adattato con tanta affabilità e allo stesso tempo con tanto mistero all’idea che il padrone aveva di esso. […] Proprio nel momento più alto del suo rigoglio l’albero cessò di corrispondere ai desideri del padrone. […] A questo punto il padrone, che non aveva cessato di sperare, pensò di salvare il suo albero dal caos con un incrocio. […] Mi pedoni la storiella che mi è venuta sotto la penna. Avrei voluto farle un bel discorso, ispirato alla ragione, e invece, ancora una volta, il pensiero di lei mi ha condotto naturalmente alla metafora e alla poesia» (ivi, pp. 1063-1066).

63 Ivi, p. 1065.

64 Ivi, p. 874.

65 Ivi, p. 880.

66 Ivi, p. 835.

67 Ivi, p. 849.

68 Ivi, p. 885.

69 Ibidem.

70 Ivi, p. 969.

71 Ivi, p. 971.

72 Ivi, p. 1068.

73 Ivi, p. 1069.

74 Ibidem.

75 Il suo statuto di subalternità è tra l’altro insito nell’etimologia della parola stessa: ‘dipendente’, participio passato di ‘dipendere’, deriva dal latino dependēre «pendere da, dipendere», composto di de- e pendēre «pendere».

76 G. Parise, Il padrone, cit., p. 952.

77 «Perché il dottor Max vuole farmi del male, come ho percepito lucidamente fin dall’inizio di questa storia di iniezioni?» (ivi, p. 959).

78 Ivi, p. 1007.

79 Ivi, p. 1011.

80 Ivi, p. 1013.

81 Ivi, p. 958.

82 Ibidem.

83 Ivi, p. 1073.

84 D. Scarpa, In the blood, in the mood, cit., p. 130.

85 G. Parise, Il padrone, p. 1017.

86 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 274.

87 G. Parise, Il padrone, pp. 922-923.

88 Ivi, p. 1049.

89 Ivi, pp. 1072-1073.

90 Ivi, p. 1073.

91 G. Parise, lettera a G. Comisso del 12 giugno 1965, in Lettere a Giovanni Comisso di Goffredo Parise, con una prefazione a cura di L. Urettini, disegni di G. Fioroni, due note di R. Manica e S. Perrella, Lugo, Associazione Culturale “Il bradipo”, 1995, pp. 47-48.

92 V. Riva, Lo scrittore? Un uomo inutile, intervista a G. Parise, in «L’Espresso», 14 dicembre 1969.

93 G. Piovene, Il nuovo romanzo di Parise, cit., p. 277.