Antonio Tricomi,
Macerie borghesi
Maria Teresa Gigliotti

Antonio Tricomi, Macerie borghesi. Genealogie letterarie del presente, Roma, Rogas Edizioni, 2023.

Con Macerie borghesi. Genealogie letterarie del presente, Antonio Tricomi offre ai suoi lettori un’antologia di scritti critici apparsi in vari contesti nel corso degli anni. L’obiettivo del volume, come dichiarato dall’autore, è quello di riflettere, attraverso la letteratura del secondo Novecento e dei giorni nostri, sulla crisi profonda della democrazia e sullo stato della società odierna, sottoposta alle logiche spietate del capitale. La raccolta, inoltre, inaugura una collana di critica letteraria il cui titolo, engageante, rinvia a uno scritto di Franco Fortini apparso sulla rivista «La Fiera letteraria» nel 1949 intitolato Vergogna della poesia.

La crisi della modernità, il timore di un’apocalisse e la critica all’antropocentrismo emergono dalla lettura di alcuni romanzi di Guido Morselli, pubblicati negli anni Settanta e oggetto delle riflessioni di Tricomi. In particolare, è in Dissipatio H.G., romanzo postumo edito nel 1977, che Morselli descrive una dissoluzione o nebulizzazione dell’intero genere umano, «fisiologico risultato di una tirannica legge psichica […] iscritta a indelebili caratteri cubitali in interiore homine» (p. 33). Ciò che lo scrittore sottolinea nel suo romanzo è la presenza in ogni essere umano di un «cupio dissolvi personale», espressione di una società che esalta la dimensione individualistica; il narratore, dunque, parla di una «morte isolata», di una dissoluzione, che pur essendo necessità collettiva, avviene in un ambito privato e nella solitudine dell’individuo.

Tematiche simili sono affrontate da Primo Levi in due opere, Storie naturali (1966) e Vizio di forma (1971): si tratta di racconti «fantabiologici» ‒ secondo una formula di Calvino ‒, attraverso i quali il lettore viene trasportato in un futuro distopico caratterizzato dal dominio del progresso tecnologico. Le due raccolte, che costituiscono un dittico, affrontano il tema dei rischi catastrofici e apocalittici che lo sviluppo tecnologico, «promosso a valore assoluto» (p. 36), porta con sé. Come notato da Tricomi, la pubblicazione di questi racconti ben si adegua all’identità autoriale di Levi, il quale con la sua opera intendeva soprattutto presentarsi come testimone dell’Olocausto: tra le invenzioni della modernità e il Lager è infatti possibile notare una continuità, poiché il primo è considerato da Levi il «più grosso dei “vizi”, degli stravolgimenti» che l’umanità abbia mai prodotto. Tale analisi riflette per alcuni aspetti l’interpretazione della modernità fornita nel celebre saggio di Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, che, come è noto, riconosce un rovesciamento della ragione illuministica in barbarie.

La crisi della società e il trionfo della borghesia trovano ampio spazio nella produzione letteraria e cinematografica di Pier Paolo Pasolini, autore che a più riprese compare in Macerie borghesi. Pasolini teorizzò l’esistenza di un nuovo totalitarismo, peggiore di quello nazifascista, ovvero quello del «capitalismo del consumo». Tricomi, ricorrendo al pensiero di Günther Anders, propone un confronto tra il filosofo tedesco e l’autore delle Ceneri di Gramsci: innanzitutto, entrambi accettano di apparire intellettuali conservatori agli occhi di chi sostiene che le conquiste raggiunte favoriscano l’emancipazione degli individui; inoltre, così come Anders, anche Pasolini recupera l’arte della maieutica socratica, volta a ridestare la coscienza di chi legge – si pensi alla poesia Versi sottili come righe di pioggia oppure al «trattatello pedagogico» inserito nella sezione Gennariello delle Lettere luterane.

Simili riflessioni si riscontrano anche nelle Mosche del capitale di Volponi, pubblicato nel 1989, romanzo il cui unico personaggio è il potere del capitale. Quando gli esseri umani si estingueranno, scrive Volponi, la terra sarà abitata da due specie viventi: una nata dall’incrocio tra esseri simili ai conigli e creature simili ai daini; l’altra costituita da topi. Secondo Volponi, infatti, ciascuno di noi ha subito una degradazione a causa del dominio del capitalismo a «vecchio topo unto, di fogna», pertanto non potremo stupirci quando, un domani, tali creature ripugnanti prenderanno il sopravvento.

Accanto a Pasolini, a ritornare frequentemente nella raccolta di Tricomi è la figura di Elsa Morante, la cui poetica viene delineata anche a partire dal confronto con l’amico. L’autore, dunque, ricorrendo alle parole che Franco Fortini scrisse nella recensione a Petrolio, apparsa sul «Sole 24 Ore» dell’otto novembre 1992, propone un raffronto tra i due. Secondo l’autore di Verifica dei Poteri, l’ultimo Pasolini va letto «come una sorta di dialogo con la Morante», più nel dettaglio con Il mondo salvato dai ragazzini (1968) e con La Storia (1974). Per verificare l’intuizione di Fortini, Tricomi indica alcune delle affinità e delle divergenze tra i due scrittori: per quanto riguarda il primo aspetto, è bene ricordare che sia Pasolini sia Morante mostrano una profonda avversione nei confronti della società piccoloborghese, responsabile del collasso della società in Italia e in Occidente. L’arte, pertanto, nella civiltà dei consumi ha il compito di opporsi alla morale borghese; lo scrittore, dal canto suo, dovrà conservare «l’animo del pugnace e persino scandaloso utopista» (p. 100). Il ritratto dell’artista ideale che Morante propone in Pro o contro la bomba atomica sembrerebbe richiamare la figura dell’intellettuale che Pasolini ha incarnato per tutta la sua vita, o addirittura spingendosi oltre, l’autore engagé di cui parla Morante è ricalcato sull’immagine di Pasolini.

Tra i due, tuttavia, numerose sono le divergenze, si pensi al giudizio riservato ai più giovani e alle contestazioni studentesche esplose sul finire degli anni Sessanta. Anche le poetiche dei due autori differiscono notevolmente: nei romanzi di Elsa Morante è presente innanzitutto un’ibridazione tra una materia realistica e una fiabesca e in più, essi si fondono su un manierismo disciplinato, che occulta i suoi modelli, mentre quello di Pasolini è basato sul conflitto e sulla contraddizione. Per l’intellettuale friulano, dunque, la poetica di Morante presenta dei limiti e tale giudizio emergerà sia nella recensione in versi al Mondo salvato dai ragazzini contenuta in Trasumanar e organizzar (1971) sia nella celebre stroncatura della Storia.

Dopo la morte di Pasolini, Morante si dedica alla stesura del suo ultimo romanzo, Aracoeli, il cui protagonista, come notato da Fortini, è una controfigura dell’amico prematuramente scomparso. Morante, inoltre, sembra assumere in parte lo «sguardo apocalittico» di Pasolini, così come il mondo arcaico e preborghese, di cui Aracoeli è l’emblema, pare destinato all’autodistruzione una volta entrato in contatto con quello borghese. La «residuale proposta utopica» ancora riscontrabile nel Mondo salvato dai ragazzini e nella Storia scompare definitivamente nell’ultimo romanzo di Morante. La parabola esistenziale di Aracoeli diviene una metafora del destino del mondo arcaico, premoderno, il quale va incontro a un processo di autodistruzione nell’incontro con la borghesia.

Attraverso le categorie della psicanalisi, Tricomi conclude la sua analisi dell’universo morantiano riconoscendo che la nostra epoca è caratterizzata non dall’evaporazione del padre, secondo una definizione di Recalcati ampiamente contestata in Macerie borghesi, bensì da quella della madre. La figura paterna, a causa della scomparsa del modello politico non borghese, diviene così l’unica autorità rimasta in vita e intrinsecamente dispotica, pronta a riaffermare il «pensiero capitalistico come l’assoluto stesso della civiltà» (p. 160). Già nei primi due romanzi di Elsa Morante, Menzogna e sortilegio (1948) e L’isola di Arturo (1957) si evince come nessuna figura maschile sia in grado di assolvere una funzione paterna, ovvero incarnare il «principio di civiltà»; allo stesso modo, le figure femminili, siano madri effettive o acquisite, non sono in grado di offrire un’alternativa percorribile alla crisi della cultura borghese; il registro simbolico materno, pertanto, non riesce a inaugurare «un’autentica prospettiva altra di civiltà» (p. 171).

Tra le pagine più dense di Macerie borghesi vi sono quelle dedicate all’analisi del pensiero pasoliniano, del quale Tricomi riesce anche a cogliere alcuni limiti. Come è noto, Pasolini riteneva che la modernizzazione capitalistica implicasse un processo di laicizzazione della società, il quale si sarebbe concluso con «la dittatura di un sacrilego, o al massimo neopagano, consumismo di massa» (p. 196). È questa una tesi che ben si coniuga con la riflessione sulla crisi delle democrazie occidentali, trasformate in «cripto-totalitarie società borghesi» e «agite da un subdolo totalitarismo morbido». Tricomi ritiene, tuttavia, che Pasolini abbia torto nel delineare tale secolarizzazione delle strutture sociali, mentre ha ragione Benjamin nel notare, in un frammento saggistico del 1921, una forma di religiosità all’interno del sistema economico capitalista. Il capitalismo, dunque, come unica religione, che richiede devozione dall’individuo assoggettato al capitale. Le riflessioni condotte in queste pagine dall’autore si appoggiano anche a quanto Mark Fisher ha scritto in Realismo capitalista a proposito dell’impossibilità di immaginare delle alternative al capitalismo – si pensi al primo capitolo del breve saggio, il cui titolo, È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, risulta piuttosto significativo. Il capitalismo, pertanto, secondo l’analisi del teorico britannico, ha esacerbato la sua natura ideologica, fagocitando qualsiasi utopia emancipatrice.

Oltre a Morante e Pasolini, Walter Siti è un autore a cui Tricomi dedica alcuni saggi contenuti in Macerie borghesi. Siti, nei suoi romanzi, riesce con grande lucidità a cogliere le incertezze del presente: la sua opera narrativa, secondo l’autore, rappresenta il «miglior sismografo che la letteratura italiana conosca per registrare i movimenti tellurici che, via via, squassano e ridisegnano il nostro tempo» (p. 257). In Bruciare tutto (2017), ad esempio, Siti offre ai lettori la rappresentazione di un’epoca, la nostra, di «perversione generalizzata» poiché concepisce solo l’idea di un’immanenza che si eleva al rango di trascendenza e, pertanto, richiede di essere onorata ritualmente. Il reale, dunque, è rimosso con violenza e «totalmente sacrificato all’immaginario» (p. 194).

Dalla lettura di Macerie borghesi emerge anche una lezione di metodo: Tricomi, infatti, non si limita all’analisi di testi letterari, ma estende il suo campo di indagine fino a comprendere il cinema e la televisione. In un’ottica intermediale, dunque, l’autore tenta di applicare le categorie interpretative di un testo letterario ad altri prodotti culturali. In particolare, è attraverso un confronto tra i film di Christopher Nolan sul «Cavaliere Oscuro» e quello di Todd Phillips, Joker, che Tricomi riflette sulle dinamiche sociali della nostra epoca. Da un lato vi sono i lungometraggi di Nolan, che non muovono nessuna critica alla logica culturale statunitense, anzi ostinatamente perpetuano il «mito di un capitalismo letteralmente mascherato da autentico progresso civile» (p. 250); dall’altro vi è Joker, un film che ben descrive la nostra era e la deriva populistica delle società occidentali.

Una spietata analisi della nostra epoca trova spazio in Flashover di Giorgio Falco, un libro difficilmente incasellabile in un genere e che ricostruisce l’incendio doloso che nel 1996 distrusse il teatro La Fenice di Venezia. Ad emergere è la «natura in sé totalitaria della sovranità capitalistica» (p. 244), in un Occidente ormai completamente sottomesso al potere assoluto del capitale. Gli individui sono ormai ridotti a «salme ambulanti» in una società in cui tutto si trasforma in macerie, non rovine. Ecco svelata dunque la scelta del titolo della raccolta: se le rovine sono una testimonianza di un tempo ancora non assoggettato al capitale, le macerie, invece, si presentano come un accumulo di materiale, «che aspira ad azzerare ogni memoria, e l’intera storia, per imporsi quale eterno presente, per favorire “l’oblio”» (p. 246). È il capitalismo, trionfo della morale borghese, a produrre e ammassare costantemente macerie. Il compito del critico, di fronte a quell’edificio crollato con le rovine ancora fumanti che è la società odierna, sarà quello di spazzare via le macerie, ma, al contempo, verificare con atteggiamento non conservativo che tra esse vi sia qualcosa da riutilizzare. E allora bisognerà mettersi all’opera per capire «su che basi e insieme con chi provare ostinatamente a reinventare, domani, la tradizione dell’utopia» (p. 271).

Dunque, è necessario, oggi più che mai, sforzarsi per costruire un progetto che possa ribaltare la narrazione dominante ed egemonica, mettendo in pratica anche la lezione di intellettuali cronologicamente più vicini a noi. Si pensi, ad esempio, ad Alessandro Leogrande, del quale Tricomi mette in luce il «principio metodologico» che egli ha seguito in ogni suo scritto, fondato sulla necessità di riappropriarsi della categoria dell’utopia, poiché «non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo sovvertimento» (p. 65). La lettura degli scritti di Leogrande, inoltre, suggerisce anche un modo per contrastare le derive della società odierna: bisogna impegnarsi, ciascuno a suo modo, «a coniare lentamente un nuovo alfabeto culturale per parlare il linguaggio di quei “margini” e di quei “frammenti” […] sì da “aprire uno squarcio” sul presente che ne possa davvero “comprendere qualcosa” perché anzitutto incline a trascenderlo» (p. 69).

La rilettura di alcuni autori attivi nel secondo Dopoguerra (Pasolini, Morante, Parise, Morselli) e di scrittori a noi contemporanei (Walter Siti, Francesco Pecoraro, Nicola Lagioia) può, in conclusione, aiutarci a comprendere la società attuale, primo passo per elaborare qualche strategia di sovvertimento. Pertanto, le parole che chiudono il saggio Vergogna della poesia, menzionato precedentemente, appaiono sia come un monito sia come un invito alla riflessione sul valore etico-civile della letteratura:

il poeta non genera poeti, non genera chi ripeta all’infinito la sua eco, ma pone invece l’esigenza di un superamento di quella forma: il passaggio dal formare al fare, dal poièin al prassein, dall’estetica all’etica e alla politica. La poesia dunque non è tanto engagée quanto engageante.1

Note

1 F. Fortini, Vergogna della poesia, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1270-1279: p. 1279.