Anna Ottani Cavina,
Una panchina a Manhattan
Roberto Barzanti

Anna Ottani Cavina, Una panchina a Manhattan, Milano, Adelphi, 2019.

In questi tempi di strambe mostre d’arte, consegnate chiavi in mano a assessori in cerca di iniziative risonanti, ripercorrere occasioni come quelle che Anna Ottani Cavina passa in rassegna, quasi in un diario di viaggio, desta rimpianti e indirettamente suggerisce modelli sui quali riflettere. Una mostra è tanto più valida quanto più invita a una scoperta, illuminando un autore o un’epoca di nuova luce. E ponendo domande, stuzzicando curiosità, istituendo comparazioni. È un fatto che, a partire dagli anni Settanta molte esposizioni hanno avuto una funzione chiave nel suscitare una nuova relazione tra pubblico e opere, ed «è difficile oggi – si legge nell’apertura introduttiva – raccontare cosa siano state le mostre, come abbiano cambiato il rapporto tra il museo e il suo pubblico, quanto abbiano aperto le porte del mondo». Quelle mostre erano un’avventura e di parecchi esaltanti momenti il volume raccoglie brevi resoconti, spesso buttati giù all’inaugurazione e quindi freschi di immediate impressioni. Si sfoglia con la nostalgia che prende quando si ricordano incontri irripetibili. «Una stagione si è chiusa» sentenzia l’autrice, e chissà quali altre mostre ci aspettano. Il titolo allude a un luogo amato da Robert Rosenblum, che, insieme a Federico Zeri e a Giuliano Briganti, compone la trinità dei numi-guida delle avide incursioni: «diversi fra loro, distanti nelle dottrine sull’arte, avevano tutti una fede incrollabile nell’artista come individuo, quando invece in quegli anni si celebrava il suo sacrificio – nell’ambito della cultura accademica – sull’altare della Storia, dell’Ideologia, del Contesto». Mostre, quindi, innovatrici, controcorrente come ogni operazione contemporanea che non voglia arrendersi alla melassa imitativa delle mode. Il viaggio segue linee che non ubbidiscono ad alcun ordine. Si parte da Bisanzio. Fede e potere, 1261-1557 messo in scena al Metropolitan di New York nel 2004 e si chiude con Poussin e Bacon che nel 2017 si cimentano a Chantilly con La strage degli Innocenti. Vien voglia di soffermarsi su mostre vedute se non altro per riassaporare atmosfere lontane: sui pittori riminesi del Trecento, ad esempio, che si rifanno a Giotto e ne propagano la linfa. Una cultura che era già stata consacrata da Cesare Brandi nel 1935 e sanciva la sopravvivenza di artisti di prim’ordine «oltre il fatidico 1348, anno di morte illacrimata e collettiva». Assediati dalla covid-19, il riferimento induce a meditare con speranza sul senso di una sfida vittoriosa. Talvolta è un unico dipinto a dominare la ribalta: insegnamento di cui far tesoro, di fronte a mostre che pretendono la monografia esaustiva e sfibrano l’incauto visitatore. A New York, sempre al Metropolitan (2003), un solo dipinto di Leonardo, il San Girolamo, in compagnia di 106 disegni autografi che attestano la formazione fiorentina sotto l’«ala innovativa» di Andrea del Verrocchio, in un intreccio di arte e scienza che rimarrà la cifra del genio. Non basta aver capito il peso di questa collaborazione per giustificare una mostra che diventa un saggio storiograficamente ineccepibile? È questa misura che prevale quando l’esposizione si incarica di chiarire il risultato finale di una lunga ricerca. La scrittura traduce l’interpretazione con fedeltà come l’ago di un sismografo che registri i sussulti della terra. Ed ecco le pagine della stessa Ottani Cavina dedicate a John Ruskin per la mostra veneziana del 2018, a Palazzo Ducale. Tra pittura e scrittura fluiscono rispondenze singolari, l’analitica prosa si modula in poesia, è «creazione dentro la creazione», fedele a una formula di Oscar Wilde. Il minimo frammento ritiene romanticamente il tutto. La rapsodica varietà delle nubi nei cangianti cieli detta pause e squarci di sublime astrazione. E quante altre tappe da segnalare: da Matisse a Hockney, ritratto mentre, «mansueto e soave», segue appartato le accanite discussioni, sorseggiando una rinfrescante bevanda da una bottiglietta di plastica che fa tanto pop. L’inserimento in questi schizzi da taccuino di gesti quotidiani conferisce ai pezzi andamenti da eleganti elzeviri, che accostano visione critica e psicologie còlte al volo. Il libro si trasforma così, suo malgrado, in un godibile manuale: felice nell’allineare con una disinvoltura che esclude toni clamorosi e proclami estetici, figure che hanno scandito esperienze da fissare senza nostalgia. Irriproducibili.