Andrea Agliozzo,
Mutarsi in altra voce
Gabriele Fichera

Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce. Metrica, storia e società in Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2023.

«Se mangiate un budino a forma di conchiglia, voi credete che la sostanza di quello che mangiate sia il budino. In realtà, quello che vi viene venduto, senza che voi ve ne accorgiate, è la forma del budino». Il tema, in questa intervista ironicamente tratteggiato, è fra quelli capitali del pensiero poetante di Fortini. Si tratta della «formalizzazione». Della vita, e dell’opera letteraria. Ed è precisamente su questo argomento che il nuovo saggio di Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce, articola una serie di analisi accurate e stimolanti. L’autore elegge come asse portante la questione della metrica, indagata sia sul piano della riflessione teorica, che in Fortini è stata ricca e originale, sia su quello delle sperimentazioni concrete condotte dal poeta. Negli anni Cinquanta Fortini si convince del fatto che pian piano sta nascendo ormai una nuova metrica che prende le distanze da due estremi: il tradizionalismo vintage della «allusione metrica» e la fittizia, illusoria liberazione del ritmo dalla mal sopportata gabbia di schemi prosodici fissi. In una lettera a Pasolini dell’ottobre 1957 Fortini parla già di qualcosa di diverso: un auspicabile lavoro di gruppo finalizzato alla creazione di poesie che abbiano sì, uno spiccato carattere ritmico, ma che allo stesso tempo «per ripetizione e istituzionalità, per forza cogente nei nostri confronti, abbiano la costanza di una “metrica” vera e propria. Ricordi il verso a cinque percussioni di Pavese? Era su questa strada». Per Fortini insomma è il momento di passare ad un «verso aperto di secondo grado […] un verso aperto-chiuso». La nuova metrica si sta muovendo, un po’ sulle orme della lingua e della poesia anglosassone, verso il potenziamento degli aspetti accentuali del verso, a detrimento del “peso” durativo delle sillabe. Questa presa di coscienza matura, precisa Agliozzo, all’ombra del doppio canale con cui la lingua tedesca si apre un varco nel suo mondo espressivo. Il ruolo linguistico giocato dal rapporto con la moglie Ruth Leiser si interseca, per mille motivi, con la traduzione delle poesie di Brecht. Agliozzo mostra bene come, et pour cause, proprio nella sezione intitolata Traducendo Brecht della raccolta Una volta per sempre (1963), sia particolarmente visibile il tentativo fortiniano di mettere in atto la metrica accentuale. Ma con altrettanta dovizia di esempi l’autore porta l’analisi sulle raccolte che seguono, in particolare Questo muro (1973), oppure che precedono come Poesia ed errore (1959). Per questa si segnalano le ottime pagine dedicate a Il poeta servo, dove lo straniamento metrico si colora di alcune tangenze, ma sempre “a distanza”, col sillabato ungarettiano, e quelle dedicate a Metrica e biografia, testo che già dal titolo pone questioni molto precise. In questo quadro assume una decisa rilevanza il verso 7: «una ho portata costante figura». Il riferimento è dunque, almeno a noi pare, non solo alla costanza, ma anche alla pulsione unificante del metro. Si tratta di un punto su cui è il caso di soffermarsi. La riflessione teorica consegnata a saggi che, soprattutto se rapportati alla loro data di nascita, sono stati definiti da alcuni studiosi persino «sconvolgenti» per la loro novità – Metrica e libertà (1957), Verso libero e metrica nuova (1958) e Su alcuni paradossi della metrica moderna (1958) – ci squaderna davanti due elementi concettuali decisivi e fra loro interconnessi. Il primo è il versante sociale del metro per cui, scrive Fortini, «se l’aspettazione ritmica è attesa della conferma della identità psichica […] l’aspettazione metrica è attesa della conferma di una identità sociale». Ne deriva, quasi per aforistica fatalità, che «metrica è la inautenticità che sola può fondare l’autentico; è la forma della presenza collettiva». Il secondo è la contraddittoria forza unificante del metro. Non è un caso che Fortini, per sottolineare il nesso fra metrica e storia, prenda le mosse dalla distinzione hegeliana fra «tendenziale monometria dell’epica e tendenziale polimetria lirica». In virtù infatti dell’abbrivio oggettivante di quello che chiama «basso continuo» o «rintocchi di un metronomo» l’ossatura ripetitiva si tramuta in costitutiva forma temporale: «Si ha una vera e propria trasposizione, o allegoria, o mimesi, dell’intento “obiettivo” dell’epica; la metrica si fa uno degli strumenti stilistici capitali di quella “imitazione della storia” che l’epica vuole essere». È in questo senso allora che la «costante figura» dei versi prima citati si rivela essere «una», pur nella sua vitale contraddittorietà. Infatti per Fortini il metro «è contraddittoriamente e simultaneamente elemento di eccezionalità, di separazione, “forma astraente”, ma anche presenza di razionalità e di ordine. La sua capacità di distinguersi e unirsi continuamente dal e al sistema di segni che è il linguaggio» gli conferisce non un luogo privilegiato «ma tuttavia un luogo particolare» (corsivo mio). Questa unitarietà è tensione alla totalità. Paradossale proposta d’integrazione umana. Non deve stupire quindi che Fortini abbia legato a filo doppio il destino letterario di questa impaginazione metrica monotona e accentuale, a quello di un tipo di poesia a lui molto cara, radicalmente diversa da quella “lirica”. È quella che a più riprese in quegli anni chiama poesia «di situazione». Quest’ultima pone in primo piano non più i “sentimenti” puramente soggettivi ma piuttosto il movimento drammatico delle azioni, la pluralità e la conflittualità delle voci, gli elementi gestici della dizione. In una parola, il teatro. Ancora nel saggio Metrica e libertà Fortini commenta il celebre passo di Shakespeare sul fantasma di Cesare, affermando che esso incarna «valori poetici non lirici e in nessun modo riconducibili alla lirica; quelli che in altra occasione chiamai valori poetici di “situazione”». Quest’altra occasione, è utile ricordarlo per comprendere la circolarità e l’ampiezza di ricadute della riflessione fortiniana, è l’illuminante saggio di poetica L’altezza della situazione o perché si scrivono poesie che il Nostro allega alla sua raccolta del 1956 I destini generali, e che era uscito nel 1955 su «Officina». Già in questa sede si capisce come la sua stella polare sia la poesia brechtiana – il che ci riporta alla scelta per una metrica accentuale. Fortini associa infatti la poesia di situazioni drammatiche a quella goethiana del «buon soggetto». Ma è proprio a quest’ultima che qualche anno dopo farà riferimento anche nell’Introduzione a Poesie e canzoni di Brecht, tradotto da lui e da Ruth: «Si giunge così a vedere che la più alta poesia di Brecht è poesia della situazione poetica e si fonda perciò […] non tanto su di una tensione fra lingua sociale e parola privata, né fra “ciò che è detto” e “ciò che è taciuto”, quanto piuttosto fra un universo storico, culturale, ideologico, già costituito e presupposto ed una occasione, una situazione, un esempio […] C’è in lui la scelta del buon soggetto, nel senso che Goethe dava a questo termine discorrendone con Eckermann». Come si può vedere qui l’anello si chiude e quelle inesauste tensioni di Fortini, che il prezioso libro di Agliozzo ci aiuta a misurare, fra poesia e società, letteratura, metrica e storia, possono trovare per un attimo una riottosa ma composta sintesi. Forse addirittura una forma. E stavolta, non certo di budino.