Accesso alla cultura
e accesso al mercato editoriale
Piero Attanasio

Mi è stato chiesto di provare a svolgere un discorso “critico” sullo stato attuale dell’editoria italiana.* Interpreto questo invito come un’occasione per una riflessione più complessiva sull’editoria, utilizzando le diverse linee di ricerca che – all’interno dell’Associazione Italiana Editori – cercano di rispondere ad esigenze che nascono in modo indipendente l’una dall’altra, talvolta contingenti, talaltra di carattere più strutturale. Nella concitazione del lavoro quotidiano, difficilmente si riesce a trovare il tempo per guardare il quadro generale, concentrati come si è sul singolo dettaglio. Ma, almeno ogni tanto, è salutare farlo e ogni sollecitazione in questo senso è benvenuta.

Però voglio anzitutto premettere che fare un discorso “critico” non può in ogni caso equivalere a proporre un’interpretazione univoca ai problemi diversi che emergono dalle indagini di dettaglio. L’abitudine alla ricerca in profondità abitua piuttosto alla convivenza con la pluralità delle risposte alla varietà dei problemi, inibisce qualsiasi ricerca del tout se tient, rende allergici alle analisi che preordinano ideologicamente le conclusioni alla ricerca. Di qualunque tipo esse siano.

Vi sono due correnti di pensiero che si confrontano, a mio avviso senza sbocchi, ragionando di editoria. La prima delle due potrebbe definirsi “panglossiana”,1 e prospetta soluzioni interamente basate su meccanismi di mercato, sostenendo che qualsiasi deviazione dalle logiche del profitto sia deleteria. Il testo più brillante che esemplifica questo atteggiamento rimane, anche a distanza di anni, il pamphlet che Franco Tatò pubblicò con Donzelli, dal programmatico titolo A scopo di lucro.2

La seconda corrente è di tenore opposto, esemplificata a sua volta dai più recenti libri di André Schiffrin e di Jeanine e Greg Brémond sulla situazione rispettivamente negli Stati Uniti e in Francia.3 Si tratta del persistente atteggiamento “apocalittico”, secondo cui le logiche di mercato producono solo danni alla crescita di un’editoria dai solidi fondamenti culturali e pluralistici.

Personalmente considero i due ragionamenti del tutto speculari, e non in grado di dare un grande contributo alla comprensione dei problemi. Da un lato, quando si dice che bisogna (non che si possa) pubblicare libri solo a scopo di lucro, si fa una dichiarazione ideologica senza fondamento nell’analisi economica. Che piuttosto deve indagare la forma delle funzioni obiettivo degli editori così come esse sono, e sono libere di essere. Funzioni di mera massimizzazione del profitto non spiegano il comportamento delle imprese nella gran parte dei settori economici, e men che meno nell’industria culturale.

Dall’altro lato, un approccio apocalittico si dimostra altrettanto povero e improduttivo: ripete in sostanza lo stesso tipo di schema: il conflitto tra lo scopo di lucro e lo scopo culturale, facendo del secondo la propria bandiera, e lamentandosi del dominio mostruoso del primo.

In entrambi i casi si riduce il problema ad un conflitto tra profitto e cultura, parteggiando per l’uno o l’altra, come tifosi allo stadio. Dimenticando di studiare a fondo come le variabili culturali (i libri che si fanno, i modi e i tempi con cui si fanno) influiscano profondamente sui risultati economici e come d’altro canto l’economia delle imprese editoriali sia un elemento imprescindibile di qualsiasi discorso culturale sull’editoria.

Tale semplificazione impedisce di guardare e comprendere le contraddizioni interne tanto degli scopi di lucro che di quelli culturali. È per esempio curioso che i libri di Schiffrin e dei Brémond narrino vicende con un forte coinvolgimento autobiografico, lamentandosi di imprese troppo orientate al profitto, ma nel momento in cui quelle stesse imprese realizzavano perdite. Viene allora da chiedersi se alcuni aspetti negativi esasperati dagli autori non siano da attribuire non allo scopo di lucro ma all’incapacità di lucrare o, per meglio dire, all’incapacità di comprendere le variabili culturali che sono alla base del lucro nella produzione libraria. Allo stesso tempo, i due approcci non danno minimamente conto delle differenze che pure esistono tra imprese più orientate alla massimizzazione del profitto di lungo periodo, secondo canoni in fondo classici di un’economia marginalista, e imprese fondate invece su una forte “finanziarizzazione”, che finiscono per assumere i livelli di profitto da distribuire come vincolo di breve periodo e per questa via sono destinate ad alimentare bolle speculative orientate all’economia finanziaria con scarsa attenzione all’economia reale.

Insomma, un dibattito tra panglossiani e apocalittici appiattisce il quadro, semplificandolo ad una sola dimensione interpretativa. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, è la capacità di apprezzare le differenze. Non è il mercato in sé a dover essere discusso, ma i livelli più o meno concorrenziali dei mercati (al plurale) dell’editoria, anche misurando e cercando di interpretare le differenze tra i diversi mercati nazionali, sia in Europa che nel resto del mondo. Se si guardano ad esempio i mercati editoriali francese e statunitense si può constatare come siano estremamente diversi: nel primo caso si è realizzata la più forte concentrazione produttiva in Europa, nel secondo la maggiore concentrazione del commercio al dettaglio, con un dominio di pochissime catene di librerie. Evidentemente non è la stessa cosa, sia se si guarda alle cause che hanno determinato le due situazioni, sia se si analizzano le conseguenze sulle condotte e le performance del settore. Di recente, Jason Epstein ha descritto con pochi tratti la situazione statunitense4 e la debolezza degli editori rispetto alle catene delle librerie da un lato e gli agenti degli autori dall’altro, debolezza accumulata non per essersi troppo concentrati sul profitto ma per non aver saputo gestire in modo proprio le tendenze di lungo periodo del mercato. Apparirà irriguardoso, ma il paragone più immediato è con l’industria del calcio in Italia, dove le società sono strette tra il grande peso dei procuratori dei calciatori e le situazioni monopolistiche nel mercato dei diritti televisivi. Anche qui si sentono lamenti contro la logica del profitto, “l’avvento dei manager” che avrebbe cambiato una precedente natura idilliaca del calcio romantico.5 Ma anche qui: perché il male è individuato nell’eccessivo orientamento ai profitti quando tutti realizzano perdite?

All’uscita del libro di Schiffrin era divenuto di moda in Italia leggerlo come se si parlasse del nostro paese: una “editoria senza editori” anche in Italia? Si poteva assistere a dibattiti tra molti editori che se lo chiedevano: e dico editori nel senso più proprio e nobile del termine. Eppure, il mercato italiano è ancora diverso da quello francese o americano. E come tale va guardato.

Proviamo allora a ragionare sulla struttura competitiva del nostro mercato. È noto come esso sia caratterizzato dalla presenza di tre grandi gruppi (Mondadori, Rcs e De Agostini) attivi pressoché in tutti i segmenti di mercato, anche se con modalità e politiche diverse. Tuttavia, in nessun segmento si può dire che essi abbiano un dominio assoluto: nella varia devono confrontarsi con il gruppo Longanesi, Feltrinelli, Giunti e una sempre maggiore capacità della piccola e media editoria di occupare spazi fino ad un po’ di tempo fa impensati.6 Nella scolastica sono certamente forti, ma altri editori (Zanichelli, Pbm, La Scuola ecc.) non hanno posizioni di minor forza. Nell’universitario e professionale hanno un contraltare, oltre che in importanti imprese italiane (di nuovo Zanichelli, Il Mulino, «il Sole 24 Ore», Maggioli, ecc.), nelle multinazionali straniere presenti anche sul nostro mercato (Wolter Kluwer Italia, anche con i marchi Ipsoa e Cedam; McGraw Hill, Springer, ecc.) o in aziende italiane partecipate da imprese straniere (Giuffrè, partecipata da Elsevier). E si potrebbe continuare guardando al mercato ragazzi, al reference, alle guide turistiche, all’editoria d’arte, citando aziende medio-grandi (almeno sui parametri del mercato nazionale) ma soprattutto la vitalità di molta editoria di minori dimensioni.

Si tratta allora di spiegare un’apparente contraddizione: la cronaca degli ultimi venti anni dell’editoria italiana è costellata di acquisizioni e concentrazioni. Aziende importanti come Einaudi, Garzanti, Le Monnier, La Nuova Italia, Utet, Electa, Cedam, Piemme, solo per citarne alcune tra le molte, sono state acquisite da gruppi maggiori. Ma la storia del settore non consente di dire che vi è stato, nello stesso periodo, un processo di concentrazione nel mercato, che presenta oggi più o meno gli stessi indici di concentrazione di venti o trenta anni fa.7 Il fatto è che se la modalità di crescita più frequente dei gruppi maggiori è quella delle acquisizioni, la crescita delle imprese minori è invece meno eclatante, “fa meno cronaca”, ma è altrettanto costante. Ad esempio, una ricerca condotta dall’Aie per il periodo 1995-2000 sul mercato del lavoro nel settore dimostrava come il mantenimento dei livelli occupazionali era ottenuto nonostante un calo dell’occupazione nei gruppi maggiori, grazie alla capacità di crescita delle piccole imprese che avevano un sostenuto aumento del numero di occupati.8

Dunque, il quadro generale dell’editoria italiana è quello di un settore relativamente piccolo (3,5 miliardi di euro circa), ma paragonabile in dimensioni da un lato ad analoghi mercati europei, in particolare quello francese9 e spagnolo (nonostante questo abbia un importante sbocco anche in America Latina); e dall’altro con altri segmenti della cosiddetta industria dei contenuti: la stampa quotidiana e periodica, la televisione generalista. Anzi, se si analizzano i soli fatturati derivanti dalle spese dei consumatori (quindi escludendo i ricavi per pubblicità) il libro si dimostra come la maggiore industria culturale del paese, avendo la capacità di catturare il 31% delle spese dei consumatori.10 Ed è un mercato relativamente pluralista e concorrenziale (anche in questo caso il “relativo” deve essere inteso in ragione di possibili confronti con altri rami dell’industria culturale, fino ad arrivare al caso estremo del duopolio televisivo), nel quale vanno appunto conservate queste caratteristiche di pluralità.

Si arriva – inevitabilmente – ad un nodo fondamentale di ogni discorso “critico”: quello delle politiche che consentano di conservare e possibilmente ampliare gli spazi di libertà che oggi esistono e il pluralismo del mercato. In altri termini: occorre ragionare innanzitutto su quali debbano essere le funzioni obiettivo delle politiche per il libro e poi sugli strumenti più idonei a realizzarle. Sotto il primo profilo, dai discorsi fin qui fatti, risulta evidente che le funzioni obiettivo non possono essere solo di efficienza del mercato, il cui allargamento è certamente auspicabile ma non sufficiente. Parallelamente sono da considerare obiettivi relativi al livello del pluralismo: la presenza di un maggior numero di imprese, anche laddove ciò possa diminuire l’efficienza complessiva del mercato, per l’incapacità di sfruttare economie di scala e di ripartizione dei costi fissi, è un obiettivo in sé.

Una buona definizione degli obiettivi consente di ragionare meglio sugli strumenti. Proverò a spiegarmi attraverso tre esempi tratti dalle cronache recenti. Si tratta di temi di politiche del libro sui quali è in corso in Italia – ma non solo in Italia – un dibattito vivace: il prezzo fisso, la gestione collettiva dei diritti d’autore (in particolare in relazione alle fotocopie e al diritto di prestito) e i movimenti per gli open archives in ambito universitario.

Come si vede, argomenti distanti tra loro, sui quali si possono provare ad applicare metodologie di analisi comuni, non per ottenere le stesse risposte, ma per non tralasciare nessuna domanda.

Il dibattito sul prezzo fisso ha avuto storicamente uno strano destino. Sembrerebbe che oggi sia pressoché impossibile trovare un economista disposto a sposarne le ragioni. Eppure le riflessioni sul tema nascono internamente al dibattito economico, sul finire degli anni Settanta. Il caso del commercio librario è proposto come emblematico “fallimento di mercato”, sussistendo una cosiddetta “tirannia delle piccole decisioni”.11 Al consumatore il mercato non è in grado di fare la domanda rilevante. In regime di prezzi liberi gli si chiede semplicemente: “Vuoi comprare uno stesso libro ad un prezzo più basso al supermercato o più alto in libreria?”. Il consumatore razionale non ha dubbi, e questo può ridurre il numero di librerie in grado di sopravvivere. Siccome le librerie offrono una gamma più ampia di titoli, il risultato sarà un impoverimento dell’offerta culturale presente sul mercato e probabilmente una maggiore difficoltà delle imprese minori. La domanda rilevante, che nessuno pone al consumatore, dovrebbe essere: “Sei d’accordo nel risparmiare qualcosa nell’acquisto dei best seller ma avendo alla lunga meno libri tra cui scegliere?”. Siccome il comportamento del singolo consumatore non influenza in modo significativo l’equilibrio finale, il mercato non pone la domanda in questi termini: sta qui appunto la “tirannia delle piccole decisioni” che porta alla richiesta di intervento pubblico regolatore.

È un argomentare economico di vecchia data, che è divenuto necessario ricostruire compiutamente perché caduto in uno strano dimenticatoio. È noto che l’introduzione in Italia di una limitazione degli sconti ha avuto un iter complesso, con immediate revisioni per decreto di una norma appena approvata dal Parlamento, costituzione di Commissioni di studio, periodi di sperimentazione, ecc. Ma nel dibattito che ha accompagnato tali complesse vicende più spesso si è chiesto se la norma favorisse la crescita del mercato, giudicando così su criteri di efficienza una norma invece pensata per influenzare gli equilibri competitivi del mercato. Poi, si potrà essere d’accordo o meno sulla opportunità di tale obiettivo o sull’efficacia della norma, ma purché si basi il proprio giudizio su una corretta individuazione di obiettivi attesi e risultati registrati.

Va detto, da questo punto di vista, che sembra non possano essere attesi risultati miracolistici. La Francia, paese in Europa dove sono state adottate più a lungo e con più coerenza politiche di sostegno alle librerie indipendenti (non solo con la legge sul prezzo, ma anche con finanziamenti alle cosiddette “Librairies de création”) per garantire il pluralismo dell’offerta editoriale, è poi il luogo dove maggiore è la concentrazione produttiva. Dopo tre anni di sperimentazione, il caso italiano presenta elementi di sicuro interesse anche nel confronto internazionale. Nato da una serie di compromessi, il sistema è una sorta di ossimoro, essendo un sistema di “prezzi fissi flessibili” con un limite di sconto più alto che altrove e un numero di eccezioni alla regola molto elevato.12 Vi sono segnali, sia pur non decisivi, che il sistema funzioni meglio che altrove. Da un lato il limite allo sconto funge da regolatore della concorrenza tra le librerie e gli ipermercati, aumentando la forza delle prime rispetto ai secondi, dall’altro lato i residui di flessibilità – in particolare sulle promozioni temporanee – fungono da incentivi per politiche di innovazione lungo i canali di vendita.13 Si discute invece sul fatto che il sistema non abbia effetti regolatori della concorrenza all’interno del canale di vendita delle librerie, tra le catene in continua espansione e le librerie indipendenti. Anzi, si sostiene che, essendo state le catene più pronte nello sfruttare i margini di flessibilità presenti dalla legge, questa avrebbe rafforzato proprio le posizioni di queste ultime. Tuttavia, si potrebbe obiettare che un regime di prezzo fisso, anche più rigido di quello adottato in Italia, non sembra essere uno strumento idoneo a regolare la concorrenza all’interno di un canale, esaurendo i suoi effetti alla competizioni tra i canali di vendita.

Ancor più delicato è il discorso relativo ai sistemi di gestione collettiva dei diritti. Il dibattito si è animato in Italia a seguito del (tardivo) sviluppo di un sistema di raccolta dei diritti d’autore sulle fotocopie e della necessità, indotta da una Direttiva europea, di introdurre un sistema di equo compenso sul diritto di prestito. L’animosità del dibattito ha oscurato le ragioni dei sistemi di gestione collettiva dei diritti e ha finora impedito di riflettere pacatamente sugli effetti complessivi che i diversi sistemi possibili hanno sul mercato, dal punto di vista sia dei consumatori sia dei produttori.

La gestione collettiva dei diritti d’autore è un sistema adottato quando la gestione individuale implica eccessivi costi di transazione tali per cui l’effettivo accesso ai contenuti protetti non può ottenersi a prezzi finali ragionevoli. I sistemi di gestione collettiva possono essere volontari o introdotti dalle leggi, per il tramite di eccezioni al diritto esclusivo dell’autore. I casi di cui parliamo comprendono sistemi di licenze legali per cui la fotocopia entro certi limiti e il prestito in biblioteca sono liberi, ma devono essere accompagnati dal pagamento di un equo compenso ad autori ed editori.

In nome della libertà di accesso alla cultura esiste un sentimento diffuso dell’iniquità dell’equo compenso, per dirla in forma di paradosso. Eppure, se si riconosce un ruolo al diritto d’autore, occorrerà chiedersi perché essere contrari alla remunerazione proprio di queste particolari tipologie di sfruttamento delle opere dell’ingegno.14 In altri termini, occorre chiedersi perché la critica si concentri sulle forme di sfruttamento secondarie a gestione collettiva invece che su altre. Vorrei dirlo in termini un po’ provocatori: perché si è creato un movimento contro il compenso del prestito in biblioteca e mai contro l’esistenza dei videonoleggi? Si tratta di due meccanismi che sfruttano il medesimo diritto, il primo attraverso una gestione collettiva e il secondo attraverso una gestione individuale. La natura paradossale della situazione si apprezza meglio se si pensa che è proprio chi stigmatizza l’eccessivo ruolo del libero mercato nell’industria culturale a protestare verso le forme più regolamentate di sfruttamento dei diritti esentando dalle critiche le forme più tipiche del libero mercato.

Ciò che sfugge sono in particolare gli effetti perequativi che le forme di gestione collettiva dei diritti sono in grado di offrire. Si pensi soltanto a due caratteristiche: in primo luogo, se la remunerazione di autori ed editori avviene anche al momento della fotocopia o del prestito bibliotecario, ne risulteranno avvantaggiate le opere che hanno la capacità di durare più a lungo nel tempo e in ultima analisi autori ed editori più orientati al catalogo. Quanto più i canali di vendita tradizionali si muovono verso indici di rotazione delle vendite più rapidi, imponendo una permanenza sempre più effimera dei titoli sugli scaffali di vendita, tanto più le forme di remunerazione secondaria possono essere utili fattori di riequilibrio del mercato. Inoltre, se si analizza la concentrazione nella distribuzione dei proventi per fotocopie in confronto con quelli generali del mercato si può apprezzare come la prima sia molto più bassa.15

Un secondo effetto di estrema importanza si ha nell’allocazione delle risorse lungo la catena del valore editoriale. In particolare, essendo spesso i sistemi di gestione collettiva influenzati da scelte politiche fondate su criteri di equità distributiva, ad avvantaggiarsene sono gli anelli più deboli della catena del valore. In Italia, come in molti altri paesi del mondo, la distribuzione dei proventi tra “creatori” da un lato (autori, traduttori, curatori, illustratori, ecc.) ed editori dall’altro è paritaria: 50% dei proventi è a beneficio dei primi, 50% dei secondi. La distribuzione del valore lungo la catena avviene attraverso un tipico meccanismo equitativo che non tiene conto della capacità di influenza che in ciascuna singola situazione una delle parti può avere in ragione della propria forza di mercato.

In molti paesi, inoltre, una quota dei proventi raccolti è utilizzata per offrire garanzie sociali ai soggetti più deboli nell’industria culturale, attraverso la creazione di borse di studio per giovani autori o traduttori o il finanziamento di sistemi previdenziali integrativi per le stesse categorie, ecc.

I paesi dove i sistemi di gestione collettiva dei diritti in ambito librario producono maggiori redditi sono quelli del Nord Europa, dove è molto evidente la loro funzione politica a favore dell’indipendenza dell’editoria nazionale (minoritaria per ragioni di lingua), e di sostegno degli autori. Se si prendono i dati relativi ai proventi per fotocopie e prestiti in Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e li si confronta con la popolazione residente negli stessi paesi si può constatare come la raccolta pro-capite sia rispettivamente di 2,8 euro per abitante per le fotocopie16 e di 1,7 euro per abitante per i diritti di prestito.17 Per avere un termine di confronto la raccolta in Italia è pari a 6 centesimi di euro per le fotocopie e ancora zero per i diritti di prestito. Si può obiettare che l’Italia è distante dalla Scandinavia nelle politiche culturali per molti altri aspetti ed in primis per il livello dei finanziamenti al sistema delle biblioteche, ma mi chiedo se la risposta debba essere quella di allontanarsi ancora di più o non si debba invece guardare a quelle esperienze complessivamente come un modello.

Intanto, in Italia, il dibattito rimane sul piano meramente ideologico, sulla gratuità di alcune forme di accesso, da garantirsi a scapito di autori ed editori. Ciò fa andare in secondo piano la discussione sui punti cruciali dei sistemi di remunerazione collettiva: come deve essere distribuito l’onere tra gli utilizzatori e come devono essere distribuiti i proventi tra i titolari dei diritti?

Sotto il primo profilo vi sono problemi di equità del carico tra diverse tipologie di utilizzatori: utenti delle biblioteche di ente locale, studenti universitari, docenti e altri professionisti, clienti delle copisterie private, aziende con all’interno servizi di copia, ecc. E per ogni categoria di utenti sarebbe necessario un approfondimento per analizzare l’incidenza dell’onere lungo la catena del valore: ad esempio, quanto è pagato dall’Università per i servizi di copia al suo interno deve ricadere sull’utente dello specifico servizio (attraverso un aumento della tariffa), sulle tasse che gli studenti pagano ad inizio anno o sul bilancio complessivo dell’Università, quindi sull’insieme delle fonti di finanziamento?

Dal lato dei beneficiari, vi sono altrettante scelte che devono essere compiute per rendere più efficiente, equo e trasparente il sistema di ripartizione.18

In ultima istanza: il sospetto è che l’ideologia del libero accesso, per come nei fatti prende corpo, danneggi soprattutto i soggetti più deboli nel sistema editoriale (gli autori, i traduttori, gli editori più piccoli e indipendenti), favorisca quindi la concentrazione nel mercato e indebolisca in particolare l’editoria nazionale indipendente nel contesto globale.

A risultati simili si arriva, a mio avviso, quando si analizzano gli effetti di movimenti quale quello dell’open access: se non si ragiona sugli effetti complessivi sui mercati la visione che se ne ha è inevitabilmente parziale. Conviene allora ripartire anche in questo caso dai rudimenti, anche a rischio di apparire definitivamente pedante.

Si ritiene che l’editoria privata, ed in particolare i grandi gruppi, abbiano un effetto negativo nella diffusione della cultura scientifica, in quanto praticano prezzi troppo elevati, approfittano delle proprie situazioni di forza nel mercato, realizzando profitti ingiustificati. La risposta tradizionale a questi problemi vede la creazione di case editrici a controllo pubblico, le University Press, in grado di riequilibrare i rapporti di forza competitivi. Tale risposta viene ritenuta insufficiente nello scenario aperto dalle nuove tecnologie e si propone un rovesciamento anche del modello editoriale. Si propone uno spostamento da un modello “pay to access” ad un modello “pay to publish”.19 Nel primo caso chi paga è chi accede al contenuto, se con tecnologia cartacea al momento dell’acquisto del volume, se con tecnologia digitale secondo modalità diverse, che vanno dall’abbonamento al “pay per view”. Nel secondo caso paga chi pubblica, il che può voler dire che il costo è interamente a carico dell’istituzione che cura l’archivio o del singolo autore o dell’istituzione cui l’autore afferisce, come sempre più spesso avviene in ambito anglosassone. Il resto del processo produttivo (editing, controlli redazionali e soprattutto refereeing) non dovrebbe cambiare.

Il punto è quindi quello di valutare quali effetti produce tale diversa distribuzione degli oneri connessi alla produzione. In altri termini: non si tratta di confrontare una soluzione “gratuita” con una onerosa, ma di riflettere sugli effetti di una diversa distribuzione degli oneri tra produttori del contenuto e utilizzatori. Le domande rilevanti sembrano allora essere:

1. Quali condizioni, nel presente stadio dell’economia editoriale, giustificano la sostituzione e/o l’integrazione di una produzione privata con quella pubblica? La presenza tradizionale delle University Press ha un supporto teorico molto preciso, nel mondo anglosassone: l’esclusivo orientamento al profitto e le grandi dimensioni degli editori privati spinge a creare aziende pubbliche che editino testi scientificamente importanti ma commercialmente deboli. La presenza in un mercato come quello italiano di aziende private di più piccole dimensioni, con funzioni obiettivo più complesse, anche per la presenza di proprietà private non orientate al profitto (associazioni culturali, cooperative universitarie, ecc.) ha reso quasi inutile questa funzione.20 Quali cambiamenti nella struttura economica giustificano oggi un cambiamento di rotta? Da soli, i cambiamenti tecnologici non forniscono alcuna giustificazione; essi rendono infatti il processo produttivo editoriale più complesso: perché questo aumento di complessità dovrebbe giustificare fenomeni di disintermediazione?21 O perché la mediazione dovrebbe essere meglio gestita da operatori nuovi, di origine pubblica, senza bagagli di competenze editoriali alle spalle?

2. Quali sono gli effetti di un cambiamento di paradigma economico dal “pay to access” al “pay to publish”? Siamo in un mercato con attori pubblici e privati: sono pubblici (per lo più universitari) la gran parte dei creatori dei contenuti e molti dei consumatori (in particolare le biblioteche); sono privati pochissimi creatori dei contenuti e un numero significativo di consumatori: gli studenti e le loro famiglie (al netto dei sussidi pubblici, in Italia pressoché inesistenti) per la manualistica; le aziende e i professionisti per la produzione scientifica e professionale. La statalizzazione della produzione produce benefici a segmenti del settore privato. Non ci si può esimere dall’analizzare con scrupolo tali effetti. Ad esempio: perché dovrebbe essere più efficiente rendere gratuito per tutti gli studenti l’accesso ad alcuni contenuti invece di sviluppare un sistema di sussidi che consenta la gratuità solo ai meno abbienti e/o più meritevoli? Perché favorire l’accesso gratuito a contenuti editoriali, ad esempio, ad aziende farmaceutiche (per l’editoria medica), ad avvocati e commercialisti (per l’editoria giuridico professionale),22 ecc. dovrebbe rendere più equa la distribuzione delle risorse?

3. Il principale argomento proposto a favore dei sistemi di accesso gratuito ai contenuti si basa sul fatto che molti dei clienti in questo mercato sono pubblici. Molti ma non tutti, si diceva, ma comunque si tratta di capire se – per il pubblico nel suo complesso – ciò si traduca in una riduzione o in un aumento dei costi. Perché vi sia una riduzione dei costi per il pubblico dovrebbero esserci o guadagni di efficienza nel processo produttivo (ma è difficile che ciò accada nel passaggio dal privato al pubblico laddove non vi siano economie di scala non già sfruttate) o un effetto molto positivo derivante dall’annullamento dei profitti. Si pone allora sul tavolo l’alto livello dei profitti nell’industria editoriale Stm e i prezzi crescenti degli abbonamenti alle principali riviste internazionali.23 Si giustifica con ciò l’intervento ma si ragiona poco sugli effetti che proprio su queste variabili l’intervento provoca.

L’elevato livello di profitti caratterizza alcune multinazionali e certamente non la piccola editoria indipendente. Nella misura in cui le politiche di libero accesso indeboliscono le imprese private, l’effetto si riversa in particolare sulle imprese minori, che appunto possono contare su una minore forza finanziaria. Il sospetto è che ciò renda ancor più forti le imprese più grandi, aumenti il livello di concentrazione nel mercato privato e nel lungo periodo gli stessi livelli dei profitti di tali imprese.

La mia impressione è che, non essendo all’ordine del giorno la nazionalizzazione delle imprese editoriali esistenti (che avrebbe tuttavia, se non altro, una maggiore coerenza teorica), si propongano interventi potenzialmente nefasti per l’editoria indipendente. Ciò che manca è una sufficiente capacità di analisi e fantasia politica per immaginare iniziative diverse. Non sarebbe più coerente, ad esempio, in particolare nell’Europa continentale, sviluppare politiche di alleanze tra il pubblico e l’editoria indipendente per ridurre il peso delle multinazionali dell’editoria scientifica, aumentare la competizione sul mercato e per questa via risolvere i problemi che vengono posti (prezzi alti e margini di profitto eccessivi)?

Certamente è singolare che progetti ambiziosi come quelli della creazione di paradigmi di Open access, che nell’immediato richiedono ingenti investimenti e che hanno tutte le caratteristiche per incrementare stabilmente i costi che il pubblico deve sostenere possano essere promossi come risposta ai problemi di budget dei sistemi bibliotecari.24 Si può essere favorevoli a che il sistema universitario pubblico si assuma i costi della diffusione della ricerca, per gli effetti sociali che ciò può avere (io non lo sono, perché mi sembra vi siano altre controindicazioni, ma ciò è poco rilevante); ma non si può certamente pensare che questo sia un modo per ridurre i costi, sicuramente nel breve periodo ma con tutta probabilità anche nel lungo.

I tre casi proposti inducono ad una comune riflessione. Lo studio dell’editoria libraria, e dell’industria culturale più in generale, soffre di un rischio costante: che una vista superficiale consenta di vedere solo soluzioni semplici all’apparenza, demagogicamente forti, schematiche nell’individuazione di buoni e cattivi.25 E che sia allora difficile fermarsi a riflettere, a confrontare le opinioni invece che gli slogan. Se si vuole allora rintracciare un filo rosso nel ragionamento che si è cercato di fare si potrebbe dire che ogni discorso sull’accesso alla cultura, se non vuole rimanere sul piano demagogico, non può essere scisso dall’analisi delle modalità di accesso al mercato culturale da parte di una pluralità di autori ed editori.

Note

* Le opinioni qui espresse rappresentano il punto di vista personale dell’autore; nascono da un confronto aperto in occasione di un seminario promosso dal Centro Studi Franco Fortini a Firenze nel marzo 2003. Nel trasformare in un articolo le riflessioni del momento si è cercato di mantenere una forma colloquiale, integrandola con qualche nota e riferimento bibliografico. Si sono aggiunti esempi e riferimenti diversi, per esigenze di aggiornamento delle cose dette, cercando tuttavia di non modificare il senso complessivo del confronto sviluppatosi durante il seminario.

1 Il riferimento, più che a Voltaire, è a Keynes, che nella Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale (1936), Torino, Utet, 1953, paragonava al maestro di Candide, Pangloss, molti pensatori liberisti, intenti a dimostrare che viviamo nel “migliore dei mondi possibili”.

2 F. Tatò, A scopo di lucro. Conversazione con Giancarlo Bosetti sull’industria editoriale, Roma, Donzelli, 1995.

3 A. Schiffrin, Editoria senza editori, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; J. e G. Brémond, Editoria condizionata, Milano, Sylvestre Bonnard, 2003.

4 J. Epstein, L’agente letterario all’epoca di Internet, relazione al convegno Tra autore e editore. L’agente letterario da Erich Linder ai nuovi sviluppi del mercato letterario internazionale, a cura di Fondazione Mondadori, Università degli Studi di Milano e Fondazione Cariplo, Milano, 16 ottobre 2003, ora anche in L’agente letterario da Erich Linder a oggi, a cura della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004. Dello stesso autore cfr. anche Il futuro di un mestiere. Libri reali e libri virtuali (Milano, Sylvestre Bonnard, 2001), che può essere tranquillamente aggiunto alla lista dei pamphlet “apocalittici” sul destino dell’editoria di recente pubblicazione.

5 C’è sempre un idillio passato quando non si vuole guardare al futuro. Qui sono i mercoledì di Coppa, lì i Mercoledì di Casa Einaudi. Per distinguere i livelli solo i secondi meritano la maiuscola; per entrambi è presente il rammarico che le partite infrasettimanali come le riunioni di redazione si siano così diluite da perdere la loro forza rituale.

6 Stefano Mauri, nel suo recente intervento al convegno Più lettura più cultura più paese. Stati generali dell’editoria (Roma, 14 e 15 settembre 2004), ha ricordato come nella classifica dei dieci libri più venduti nel 2003 compaiono cinque titoli di (cinque diversi) piccoli editori. Cfr. S. Mauri, Promuovere cultura. I libri tra eventi e mercato. Le tesi degli editori.

7 In verità calcolare degli indici di concentrazione nel settore editoriale è piuttosto complesso per la scarsità di dati disponibili. Tuttavia, sia pure a grandi linee, il rapporto di concentrazione delle prime tre imprese rimane più o meno attorno al 50% nel lungo periodo.

8 Cfr. L’editoria libraria in Italia, «Quaderni di Libri e riviste d’Italia», Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2002.

9 La grande differenza nelle metodologie statistiche adottate per la rilevazione del mercato nei due paesi rende impossibile un confronto preciso, ma certamente l’ordine di grandezza è analogo.

10 Cfr. Lo stato dell’editoria in Italia nel panorama dell’industria dei contenuti culturali. La fotografia: cifre, tendenze e temi, a cura dell’Ufficio Studi dell’Aie, Milano, Aie, 2004.

11 Una ricostruzione è reperibile in un testo a sua volta datato: F. Hirsch, I limiti sociali dello sviluppo (Milano, Bompiani, 1981), tuttavia recentemente (2001) – ed opportunamente – proposto in nuova edizione dall’editore italiano.

12 L’art. 11 della legge 62 del 2001 prevede uno sconto massimo del 15%, caso unico tra i paesi che adottano regimi simili, e ben dieci eccezioni totali (sconti liberi) e tre eccezioni parziali (con sconti ammessi fino al 20%).

13 La cosa sembra avvenire sia nelle librerie sia nella grande distribuzione organizzata. Cfr. Rapporto sulla stato dell’editoria italiana. 2003, a cura di G. Peresson, Milano, Associazione Italiana Editori, 2003 (in particolare le pp. 39-42).

14 Il caso della critica radicale al diritto d’autore come istituto in sé non viene qui preso in considerazione; si discute invece la posizione di chi dice: “capisco l’utilità del diritto d’autore, ma non nel caso delle fotocopie (o dei prestiti in biblioteca)”.

15 In Italia non si hanno ancora dati definitivi essendo ancora in corso la prima distribuzione dei proventi raccolti dalla Siae sulle fotocopie. I dati provvisori indicano che, a fronte di una quota di mercato delle prime tre imprese del 50% circa sul mercato librario, l’analogo valore nella distribuzione dei proventi sulle fotocopie non raggiunge il 15% e solo uno dei gruppi leader nel mercato generale è presente tra i primi tre beneficiari dei proventi sulle fotocopie. Ciò rende evidente l’effetto ridistributivo del meccanismo.

16 Fonte: elaborazioni personali su dati Ifrro – International Federation of Reproduction Rights Organisations.

17 Fonte: elaborazioni personali su dati Federazione degli Editori Europei. Quest’ultimo dato, essendo la fonte limitata ai paesi dell’Unione Europea, non comprende la Norvegia.

18 Un buon esempio delle follie cui può condurre un atteggiamento ideologico è dato dal movimento creatosi a seguito del tentativo di raccolta dati per rendere più equa la ripartizione dei proventi: finché i milioni di euro versati da biblioteche e utenti sono rimasti fermi su conti correnti della Siae nessuna protesta, salvo scatenarsi quando si tenta di distribuirli ai legittimi beneficiari!

19 Sono debitore di molte delle riflessioni che seguono a David Worlock che, tra l’altro, ne ha parlato nel corso di Fiesole 2004 Collection Development Retreats, Fiesole, 18 e 19 marzo 2004, nella relazione Open Access: What does it mean?.

20 A me sembra che tale quadro sia emerso in modo molto evidente durante il convegno su Editoria e università per la cultura promosso da Egea e dall’Università Bocconi, Milano, 17 novembre 2003, in particolare dal confronto tra le esperienze straniere e italiane. Ciò non vuol dire ovviamente sminuire il ruolo che case editrici come Egea o Vita e Pensiero hanno nel panorama dell’editoria universitaria italiana, ma significa mettere in evidenza come tale ruolo sia giocato in un contesto economicamente e culturalmente differente rispetto a quello anglosassone.

21 Eppure è in genere la tecnologia ad essere proposta come giustificazione del cambiamento di politica economica nel settore. Per tutti cfr. la premessa alla Dichiarazione di Berlino su Accesso aperto alla letteratura scientifica, risultato della Conferenza Open Access to Knowledge in the Sciences and Humanities, Berlin, 20-22 ottobre 2003. Per il dibattito in Italia cfr. gli atti del convegno di Messina Gli atenei italiani per l’Open Access: verso l’accesso aperto alla letteratura di ricerca, 4-5 novembre 2004.

22 Una variante delle politiche di Open access nel mondo universitario è quella della pubblicazione di banche dati giuridiche a cura di enti pubblici. Anche qui esiste un dibattito in tutta Europa. Per il caso italiano cfr. il convegno organizzato da Cnipa: Tante leggi: come orientarsi?, Roma, 28 aprile 2004.

23 Il tema è ricorrente, per cui i riferimenti bibliografici dovrebbero coincidere con quelli sugli Open access. Si veda solo, per l’autorevolezza nel contesto italiano, quanto affermato da V. Milanesi, Presidente della Commissione Crui per le Biblioteche di Ateneo, nel saluto introduttivo al citato convegno di Messina. Poche righe riassumono il punto magistralmente: «La comunicazione via Internet ha profondamente modificato le possibilità di comunicazione. Oggi è possibile diffondere informazione in tempo reale a tutta la comunità scientifica in ogni parte del globo. Tuttavia le aspettative di una maggiore disponibilità di informazione sono andate in parte deluse a causa dei nuovi vincoli di accesso imposti da chi detiene il monopolio della comunicazione scientifica. I grandi editori dominano il mercato delle pubblicazioni e impongono prezzi sempre più elevati per l’accesso” [c.m.].

24 Cfr., di nuovo come esempio di una posizione molto più diffusa, il citato intervento di Milanesi.

25 Quanto sia demagogico, ancor più che ideologico, talvolta il dibattito è riscontrabile dalla convergenza di opposti schieramenti politici – dai più accaniti liberisti ai più convinti assertori dell’intervento pubblico – o di lobby apparentemente lontane – dai bibliotecari alle telecom – contro le ragioni di autori ed editori.