Perché scrivere un libro sulle strategie della menzogna nella politica contemporanea? Il falso nella comunicazione politica è un topos, da Platone a Machiavelli, fino a Napoleone solo per citare alcuni nomi. Gli arcana imperii sono sempre esistiti. Però adesso è cambiato qualcosa, c’è una specificità che dà il senso della gravità della questione. Cosa è cambiato dunque oggi?
Intanto che le notizie, le verità scomode non vengono più nascoste, ma subiscono una trasformazione: viene ridotto o addirittura neutralizzato il loro significato originario fino a fargliene assumere, spesso e volentieri, uno di senso opposto (valga su tutti l’esempio della “guerra umanitaria”). Il nostro è il tempo della comunicazione di massa (anche se viene consumata in privato), e questo significa che necessariamente, se si vogliono rendere innocue le verità inconfessabili, queste devono essere prima filtrate, perché possano servire a distrarre e non, al contrario, a stimolare un atteggiamento critico nel cittadino. L’industria della comunicazione, già da qualche tempo, è l’instrumentum regni che serve a creare consenso e a gestire le masse.
Di tutto ciò sente l’urgenza di parlarci Vladimiro Giacché nel suo ultimo libro, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea. L’autore ci avverte che siamo in presenza di una novità storica poiché la fabbrica del falso è una struttura organizzativa che produce non solo le menzogne, ma anche i consumatori di queste stesse menzogne.
Parlare di menzogna oggi per Giacché quindi non vuol dire parlare dell’esistenza del falso nella gestione del potere, ma passare al vaglio la serie di strumenti di cui esso si serve per esistere e per agire nella politica contemporanea. Alla certezza dell’esistenza di una strategia del falso, che ormai è organicamente strutturata e condotta in maniera razionale, Giacché fa seguire pertanto un’indagine sulla sistematica falsificazione che si impadronisce delle parole e ne cambia il significato a partire dai termini chiave del nostro lessico politico, per passare poi a un’attenta analisi dei clichés imperanti, dei luoghi comuni, che vengono puntualmente smontati con rigore logico e serietà scientifica. Già questo basterebbe a giustificare il libro, ma altri motivi si aggiungono a confermarne la validità, come presto vedremo.
Una critica della menzogna è anche un discorso sulla utilità della verità a dispetto dei tanti discorsi che legittimano un relativismo incombente, l’inesistenza di una verità assoluta; a dispetto dei chiacchiericci tanto alla moda che arrivano a sostenere la bugia perché creativa e relazionale. L’autore oppone la necessità di smascherare le tante menzogne che privano il cittadino di questo nome e di un ruolo attivo nella società. A tutti coloro i quali, filosofi postmodernisti, considerano il concetto di verità superato e totalitario e a coloro i quali, pur riconoscendole come tali, ritengono che le menzogne – proprio perché evidenti – non necessitano di commenti e approfondimenti, Giacché risponde con questo libro. Ricordando agli uni che «se non esiste la Verità, certamente esistono le menzogne» (p. 8), e agli altri mostrando la necessità di partire dallo smascheramento delle menzogne per poter avviare delle strategie di resistenza allo stato di cose presente.
La strategia del falso ha ovviamente il suo strumento principale nel linguaggio. Un linguaggio che esaspera, annulla, stravolge i significati a seconda dell’esigenza del momento. L’analisi che Giacché fa della nascita e dello sviluppo di un monstrum concettuale tanto in voga, ovvero quello di “totalitarismo”, è davvero esemplare.
Il libro è diviso in tre parti, intitolate «Guerra alla verità», «La verità del falso» e «Strategie di resistenza», che a loro volta contengono i quindici capitoli suddivisi in un numero forse eccessivo di paragrafi, il che nuoce all’unitarietà del discorso e al carattere saggistico del libro e rivela a volte la provenienza eterogenea degli spunti.
Nella prima parte, la più ricca per argomenti ed exempla, l’autore analizza i luoghi comuni, le parole-chiave del lessico politico contemporaneo e le tecniche della menzogna – tra le quali centrale la decontestualizzazione; riporta l’attenzione sulla necessità di comprendere le radici di un evento, di restituirlo al suo contesto storico (le pagine sulle foibe andrebbero lette in tutte le scuole della Repubblica). O ancora si sofferma sulla spettacolarizzazione degli eventi per cui i fatti vengono rappresentati mediaticamente, o addirittura inscenati ad hoc. A tal proposito Giacché afferma assiomaticamente che «a una verità gridata e messa in scena corrisponde sempre una verità taciuta e rimossa» (p. 19). O ancora l’uso di eufemismi che sono l’«espressione di una delle fondamentali malattie politico-morali della nostra società: l’ipocrisia» (p. 29). Riporto solo alcuni dei tanti esempi presi in considerazione dall’autore: «società di mercato» o «sistema di mercato» ha sostituito «sistema capitalistico»; «azione militare», «operazione di polizia internazionale», «guerra umanitaria» ha sostituito il termine «guerra»; «maltrattamenti», «tecniche professionali di interrogatorio», quello di «torture». È evidente, già da questi pochi esempi, l’importanza che assume il controllo del linguaggio.
Giacché si sofferma, per smontarli dall’interno, su luoghi comuni come quello della pretesa superiorità dell’occidente, che porta ad atteggiamenti razzisti e xenofobi; o della superiorità democratica che porta alla folle idea di poter esportare la democrazia.
Come mai, ci si potrebbe chiedere, questi luoghi comuni hanno una tale forza? Essi adoperano o presuppongono alcune parole chiave del lessico politico-mediatico contemporaneo, parole il cui significato è dato per scontato e che invece va verificato. Queste parole vengono usate come grimaldelli ideologici, schemi di comodo. Abbiamo da una parte le parole-bandiera: democrazia, mercato e sicurezza; dall’altra le parole-spauracchio: terrorismo e totalitarismo. Queste parole vengono svuotate del loro significato per diventare forma, concetti passe-partout da strumentalizzare di volta in volta. Ma stiamo attenti! Come ci ricorda lucidamente l’autore «l’odierna guerra alla verità non è un problema che riguarda soltanto la sfera della comunicazione. Essa richiede un sofisticato e potente apparato che confeziona e smercia la menzogna. […] La falsificazione del vero rinvia alla verità del falso» (p. 143), argomento della seconda parte.
In essa si vede che solo a partire dal rapporto tra la nostra vita e le merci possiamo provare a decifrare la falsità che ci sta attorno. È tutto il capitolo 8, «Uomini e merci – Cronache dal mondo alla rovescia», a farci capire perché.
Vedere poi quante e quali menzogne esistono in una società ci permette di vedere quanti e quali problemi esistono in una società. La menzogna che serve a fare le guerre e a giustificare ingiustizie economiche o disastrose strategie ambientali è, dal punto di vista capitalistico, “necessaria”.
Mi preme sottolineare almeno un altro aspetto presente in questa seconda parte, per la sua complessità e per lo spazio che ad esso dedica Giacché: la perdita della memoria storica. «Tanto l’informazione mediatica quanto la pubblicità concorrono a determinare una delle più rilevanti caratteristiche della Weltanschauung contemporanea: la scomparsa della storia. La duplice istantaneità dell’informazione e del consumo si contrappone alla storia» (p. 187). Questo porta indissolubilmente alla crisi della storia come disciplina, poiché essa non riesce a sottrarsi alla manipolazione da parte del potere. Se essa non serve più per costruire una memoria collettiva, che si muova nelle tre dimensioni temporali di passato presente e futuro, rimarrà costantemente relegata alla dimensione di news, di merce giornalistica. E quando questo non basta ad annullare la “pericolosità” della ricerca storica si ricorre al revisionismo, al riduzionismo fino al negazionismo storico. Mi viene in mente, a questo proposito, una storia raccontata da Luciano Canfora (citato ne La fabbrica del falso laddove si parla del concetto di democrazia per la sua critica della «retorica democratica») nel suo Libro e libertà, a proposito di uno scontro avvenuto alla corte dell’imperatore Che-Huang Ti nel 213 a.C. fra i letterati ed il consigliere Li Sseu, sostenitore di un sistema di governo autocratico. Il consigliere regio convinse l’imperatore ad ordinare la distruzione per rogo di tutti i libri, con eccezione di quelli di medicina, agricoltura e pochi altri, e con particolare impegno i libri di storia. Questi testi avrebbero consentito ai letterati di confrontare il regime attuale con quello precedente, traendo da questo confronto ragioni per criticare il potere.
Ma La fabbrica del falso non si ferma a disegnare un quadro totalmente negativo del mondo di oggi. Nell’ultima parte propone e approfondisce le diverse strategie di resistenza che possono essere messe in campo contro la menzogna e soprattutto contro la più pericolosa delle menzogne, che riguarda la necessità e l’ineluttabilità dello stato di cose presente. A questo si deve opporre la necessità di cambiamento e non l’astratta possibilità di un futuro diverso. Va riproposto un uso critico della storia e uno smascheramento delle pseudo-verità ufficiali. Ci si deve servire delle contraddizioni palesi ed additare la semplificazione, l’annullamento della temporalità e della processualità, l’assenza di contestualizzazione, come i nemici principali da combattere. In tutto ciò il soggetto ha una importanza decisiva ed è per questo che deve recuperare una sua identità stabile e duratura.
Giacché è attento osservatore del mondo attuale. Questo suo lavoro contribuisce all’analisi e alla comprensione dei processi messi in atto nella società e nella politica contemporanea con serietà illuministica, dando un esempio di uso pubblico della ragione, come base di un discorso critico verso quanti vogliono distruggere la verità, e lo fa con l’umiltà di chi non vuole dare nulla per scontato perché il tema trattato rappresenta uno dei problemi chiave dell’esistenza dell’uomo di oggi.
Non è in ballo semplicemente la capacità di intendere che esiste una chiara volontà di gestione militare della crisi, di assicurare il dominio sui mercati, di giustificare la guerra, ma è in ballo altresì la trasformazione sistematica dei cittadini in consumatori, in facili prede dei prodotti dell’industria della comunicazione, in plebe.
La fabbrica del falso è un’analisi della società che pretende di fare una quadro onnicomprensivo della situazione, e questo potrebbe essere avvertito come un limite. Si percepisce un’ansia di mettere le cose in chiaro che costringe, sembrerebbe, la stessa realtà che si critica in una classificazione da catalogo. In realtà il volume va inteso come una utilissima cassetta degli attrezzi per un pubblico da iniziare a queste questioni (penso per esempio ai tanti studenti delle nostre scuole, visto che questo è un libro ricco di exempla e dall’intento fortemente didattico – e a questo proposito un indice dei nomi e una minima bibliografia critica avrebbero avuto una qualche utilità), ma anche per un pubblico iniziato la cui esigenza è quella di non trascurare nulla e che ha bisogno di una guida su come muoversi nel vasto mondo dell’informazione distorta, in vista di passaggi politici sempre più necessari.
Concludo con una citazione da Fortini, risalente al luglio 1976, da Insistenze, (e mi chiedo se le riflessioni fortiniane degli ultimi vent’anni della sua attività sul «surrealismo di massa», sul «controllo dell’oblio», sull’«ignoranza volontaria» siano presenti al nostro autore): «Sapete cosa succede nel Libano? È difficile, vero? Una così compatta omertà, di destra, di centro e di sinistra, si è vista solo negli anni più bui del Vietnam. Sapere di più, capire di più, passare dal polverio della inutile emozione quotidiana a quelli che ho chiamato segmenti di nozioni-persuasioni costa caro, perché induce a scegliere, a rompere miracolosi e fatui equilibri». E concludeva l’articolo con un invito che Giacché sembra davvero aver colto: «Probabilmente bisogna riprendere a parlare dell’uso della parola» (p. 182).