
È l’esistenza, la capacità di esistere di una creazione poetica (e la parola creazione ritorna tante volte in questo libro di critica su oggetti poetici definiti) che muove tutto l’intero corpo della poesia, come se fosse proprio – richiamando uno dei poeti, Vittorio Sereni, presi in esame dalle Carte Correnti di Roberto Galaverni –, un organismo vivente ( «la poesia come organismo vivente»): affinché questo “mostro” – Montale: «La poesia è un mostro: è musica fatta con parole e persino con idee» – attraverso le parole della percezione critica possa esistere e possa dare un significato a questa strana creatura, un poco preistorica, mai del tutto conosciuta e mai del tutto catturabile (verificabile) nel suo essere più profondo. La poesia diventa dunque nell’esercizio critico una misura di inquietudine, crea uno stato mentalmente inquieto nel contendere un significato estremo della poesia, difficile da stabilire. Non c’è un vero perché della poesia e di una sua formula risolutiva, ci sono tanti modi, tanti motivi di avvicinamento al problema della poesia. La poesia come materia sensibile di un pensiero in fieri, fluente e dialettico, a contatto (la poesia e le sue molteplici irradiazioni), in una critica relazionale, in una tensione-comunicazione tra poetica e poesia.
Per questo nel libro di Galaverni è apprezzabile un suo antidogmatismo (avverso a strutture preordinate o artefatte, pregiudizi critici). Interessante il suo approccio critico per fatti relazionali in una contesa verso il grado d’incidenza emotivo della poesia: da questo attrito lo spirito del libro prende corpo, da un corpo a corpo direi tra scrittura e idee, in una prospettiva critica mai conciliante prima di tutto verso se stessa. Infatti si possono considerare dentro a Carte Correnti – il titolo rappresenta l’incedere della poesia come un fiume, «tra ciò che sta e ciò che corre, tra fissità e movimento, tra la carta e la corrente del senso», come si spiega – più stili interpretativi dispiegati a raccogliere le informazioni sul senso della poesia. È anche Carte Correnti un libro di memorabili citazioni di poeti. Una di Ezra Pound dai suoi Saggi letterari vale la pena di essere trascritta:
In tutti questi anni di lavoro critico sulla poesia degli altri Galaverni ha sempre avuto un contatto con le Muse altrui, cercando di capirne il senso. Scrive in un libro proprio intitolato Le Muse (Diabasis, 2006) il filosofo francese Jean-Luc Nancy: «Le Muse prendono il loro nome da una radice che indica l’eccitazione, la tensione viva che s’impenna, si fa impazienza, desiderio o collera, che arde per sapere e fare». (Jean-Luc Nancy è anche l’autore di un libriccino sempre sulla poesia che mi è molto caro intitolato La custodia del senso, Edb 2017). Se queste Muse – prendiamo il tutto come un archetipico mitico – alimentano il fare del poeta, ci viene però da pensare che questo stato di eccitazione non sia poi così estraneo al fare della critica. Anzi dico che deve esserci. In Galaverni, nel suo tragitto critico ci sono delle ricorrenze: le stesse poesie sono per lui come espliciti paradigmi dello scrivere una poesia. La poesia egli senz’altro l’ha cercata ma in qualche misura è la poesia che ha cercato lui. Lo si può ben notare nel libro precedente a questo PPP Poesie per Pasolini (Mondadori, 2022), dove ha ritrovato e messo insieme nel corso degli anni (come un arazzo ricamato nel nome di Pasolini) poesie di altri poeti dedicate a Pasolini. Non esiste una poesia di un dato periodo storico che non sia poesia di ricerca. La poesia è sempre una ricerca – e senza fine, vorrei aggiungere. In concreto, e vengo all’ultima riflessione su Carte Correnti, tolti i nomi certi del Novecento si avverte nei quattro poeti “nuovi” Pagnanelli (che si tolse la vita nel 1987), Pusterla, Magrelli, De Angelis come una frattura avvenuta nella nostra poesia. In sostanza una specie di autocoscienza poetica che in sommo grado questi poeti del secolo scorso avevano (per non dire di Eliot e Pound, di Auden e Mandel’stam e Celan) negli ultimi decenni vada sempre più esaurendosi. Se, ad esempio, pensiamo a Fortini e ai suoi scritti sulla poesia (Saggi italiani), ma anche a quelli meno noti di Remo Pagnanelli (Studi critici), il divario visto dal nostro oggi verso un ieri non proprio così lontano appare davvero abissale. Penso che il vero discrimine storico per la poesia italiana sia stata la morte di Pasolini, il 2 Novembre 1975. C’è stato da quel momento in poi, e poi sempre di più, fino ai giorni nostri, una faglia quasi di incomprensione apertasi sempre di più, creando infine un tremendo vuoto. Già dunque nella lettura delle poesie Pusterla, Magrelli, De Angelis (di Pagnanelli viene invece commentata una inquieta prosa kafkiana: Cimitero di guerra) qualcosa resiste. Sì: resiste. La poesia ha una continuità con ciò che è avvenuto nel suo poi non lontanissimo passato? In queste poesie c’è una connessione con quel modo di fare poesia (non dello scrivere una poesia che è altra cosa). Se c’è un aspetto allora che inquieta e stimola nel libro di critica sulla poesia di Galaverni non è soltanto il suo approccio critico alla poesia, ma come la poesia riesca di nuovo a parlarci, a farci domande su ciò che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo nelle sabbie mobili di un ultra post-moderno, in un tempo accecato, in definitiva, da troppe cose senza valore. Dove noi, soprattutto, dobbiamo continuare a vivere a scrivere a pensare su ciò che chiamiamo poesia.