Predicando la rivoluzione
ai bufali
Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione
Gabriele Fichera
In una nota pagina del saggio su Leskov Benjamin fa affiorare, dalle pieghe polverose di secoli di narrazione, un singolare racconto di Erodoto. Si tratta dell’episodio che riguarda il faraone, sconfitto da Cambise re dei persiani. Quest’ultimo per umiliare il nemico fa sfilare sotto i suoi occhi un corteo di trofei di guerra, in cui sono presenti come schiavi la figlia, il figlio e un servitore. Il comportamento del faraone è bizzarro. Non si commuove alla vista dei figli costretti alle catene, ma alla fine, quando vede il servitore vecchio e impoverito, manifesta in modo evidente il proprio dolore: «allora si batté il capo coi pugni e mostrò tutti i segni del più profondo dolore». Benjamin si chiede perché il faraone pianga di fronte alla vista del servo e non a quella dei propri cari. Allo stesso modo il lettore di Un po’ di compassione potrebbe chiedersi perché Rosa Luxemburg, imprigionata nel carcere di Breslavia, non perde tempo nel compiangere la propria condizione e quella delle compagne di cella, anzi confessa di provare un nuovo irrefrenabile amore per la vita, e invece, come racconta nella lettera all’amica Sonja Liebknecht, piange amaramente di fronte allo spettacolo di un soldato che picchia selvaggiamente un bufalo. La risposta, per il momento ellitticamente formulata, potrebbe essere: perché il bufalo ricambia il suo sguardo – «gli stavo davanti e l’animale mi guardava».
Il piccolo libro adelphiano, curato da Marco Rispoli, raccoglie: la lettera della Luxemburg di cui si è appena detto, datata dicembre 1917, e pubblicata per la prima volta da K. Kraus sulla sua rivista «Die Fackel» nel 1920, cioè un anno dopo l’assassinio della rivoluzionaria polacca; l’intervento, intriso di livore anticomunista, di una lettrice della rivista che sbeffeggia la Luxemburg e la sarcastica risposta dello scrittore; un breve racconto di F. Kafka, intitolato Una vecchia pagina, risalente al 1917; delle pagine di E. Canetti che prendono in esame proprio questo racconto e più in generale il rapporto tra uomo e animale in Kafka; uno scabro testo giornalistico di J. Roth del luglio 1923, in cui si descrive minuziosamente il funzionamento di un enorme mattatoio viennese. Il tema che unisce questi scritti è quello del dolore degli animali inferto loro dagli uomini: non tanto larvata metafora dell’ingiustizia patita dagli uomini inermi da parte di coloro che li opprimono.
Kraus, nel commentare l’astioso scritto della lettrice, finisce per proporre un’interessante chiave di lettura della vicenda. Egli si interroga sul fatto che, nell’opinione comune, all’animale non sembra sia concesso di stupirsi «per l’oltraggio subito più di quanto non si stupisca l’uomo che glielo infligge». Invece la Luxemburg era una donna capace di meravigliarsi; lei «che non possedeva altri beni se non il proprio cuore e voleva guardare a un bufalo come a un fratello, lei avrebbe ben volentieri predicato la rivoluzione ai bufali».
Il racconto di Kafka presenta una allegoria dell’imbarbarimento totale degli uomini. La piazza di una fantomatica città è assediata da nomadi selvaggi che si nutrono della carne di un animale ancora vivo, lacerandone il corpo a morsi. Ma il bue crudelmente sventrato è un’immagine dell’uomo inerme di fronte all’esercizio della violenza più cieca; per questo motivo il suo dolore scuote i nervi del protagonista, il calzolaio, che si getta per terra per salvarsi dai barbari, trasformandosi simbolicamente in animale, assumendone, non solo fisicamente, l’orizzonte percettivo. Un’idea alternativa di salvezza scaturisce invece dall’innalzamento dell’uomo su se stesso e quindi dall’uscita dallo stato di minorità. È quello che fa la Luxemburg osservando, ricambiata, l’animale che soffre. Sono così disegnate due traiettorie opposte: mentre in Kafka l’uomo abbassa il proprio sguardo al livello animale, la Luxemburg, che, come si è detto, se potesse predicherebbe la rivoluzione anche ai bufali, facendo nascere una «repubblica bufalina», lavora per sollevare l’animale (immagine del passato filogenetico dell’uomo) al livello della propria bontà e del suo sentimento di giustizia. In questo frangente, allora, si produce qualcosa che si avvicina molto all’esperienza dell’aura come «apparizione irripetibile di una lontananza», così come l’ha prospettata Benjamin nel saggio su Baudelaire, citando proprio Kraus: «Quanto più vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa guarda». Vale a dire: «L’esperienza dell’aura riposa quindi sul trasferimento di una forma di reazione normale nella società umana al rapporto dell’inanimato o della natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa siginifica dotarla della capacità di guardare». Oppure di piangere. La Luxemburg piange le lacrime del bufalo insieme all’animale. Ed ecco che i loro sguardi si incrociano in un punto lontanissimo del futuro dell’uomo. L’aver toccato questo limite insieme e grazie all’animale scatena, con tutta probabilità, la giustificata e profonda commozione della rivoluzionaria.
Le dinamiche dello sguardo che congiunge l’uomo all’animale conoscono però declinazioni di segno differente, che incrinano il fragile meccanismo delle epifanie d’aura.
Così, in un altro frammento dello scrittore praghese, citato ancora da Canetti, il protagonista viene sorpreso mentre osserva un topo morente, dopo averlo infilzato e sollevato dinanzi a sé. Questo sollevamento finisce per indicare il rovesciamento parodico – e di sapore pirandelliano, si ripensi alla novella La carriola del 1917 – di quello tentato dalla Luxemburg. Non si cerca più di umanizzare l’animale, ma lo si posiziona, beffardamente, ad altezza d’uomo in modo da poterne osservare le caratteristiche fisiche con sguardo da anatomista.
Ed infine l’articolo di Roth intercetta il tema della umana crudeltà e indifferenza verso l’animale, componendolo in una figura di evidente perdita dell’aura. Nell’asettico mattatoio, i cui ritmi di macellazione sono fordisticamante scanditi, e la cui produttività è ben indicata dall’asciutta dovizia di dati e cifre forniti dall’autore, accade che «lo sguardo mansueto [dei buoi] sfiora appena gli uomini, va oltre i corpi e le pareti verso lontananze vagamente intuite». L’aura, in quanto esperienza capace di umanizzare l’altro, è discacciata da questa fabbrica di morte. Uomo e animale non si guardano più. Eppure anche i bovini di cui ci parla Roth, come quelli della Luxemburg, «venivano da lontano». E ugualmente si avviano ad essere sacrificati all’uomo che «signore macellante della Creazione – rimane senso e scopo di ogni vita animale». Leggendo queste pagine, rinsecchite dal gelido del dolore, è impossibile non pensare al lager nazista descritto in certe pagine di P. Levi, e a quei versi del Belli che lo scrittore piemontese incluse nell’antologia privata La ricerca delle radici. I versi sono tratti dal sonetto Se more e raccontano della morte di un asino, sfruttato fino allo stremo e infine assassinato dal suo padrone, che così, con questo orribile cachinno verbale, chiosa la vicenda: «E io je diede una stangata in testa. / Lui fece allora come uno starnuto / Stirò le cianche, e terminò la festa. / Poverello! m’è proprio dispiaciuto». Questo “starnuto” è ancora in grado di far germinare in noi un incoercibile, umano stupore? Le pagine di questo libro possono essere un buon viatico in tal senso. Perché quel sentimento di meraviglia, capace di avvicinare l’uomo, con uno schianto silenzioso, ai gradi più intensi della propria moralità, è lo stesso che talvolta fa scrivere a chi, quasi senza accorgersene, nel medesimo istante lo innerva e se ne nutre, frasi tanto semplici quanto irreparabilmente “lontane”, come questa della Luxemburg: «Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata».