Poesia, storia e rivoluzione
in Una volta per sempre
Una lezione fortiniana
Luca Mozzachiodi

Credevamo di essere nella rivoluzione; e invece siamo tutti nella storia.
Franco Fortini a Raniero Panzieri e ai «Quaderni Rossi»

L’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo.
Karl Marx

Rifacendomi all’indirizzo generale di questa serie di conversazioni vorrei prendere a oggetto della mia analisi la raccolta poetica Una volta per sempre1 del 1963 che come sapete è la terza di Franco Fortini, seguendo Foglio di via e Poesia e errore.

I.

Prima e piuttosto di fornire una lettura dettagliata delle cinque sezioni delle quali si compone la raccolta2 vorrei ricostruire alcuni elementi fondamentali del retroterra culturale e sociale nel quale Fortini matura le posizioni estetico-politiche che vediamo dare forma a quest’opera.

Come ci ricordano infatti le date apposte ad alcune sezioni la maggior parte dei testi si colloca tra il 1959 e il 1962, tuttavia ciò non deve far pensare a una struttura diaristica: nella raccolta anzi convergono riferimenti a esperienze personali o fatti storici antecedenti che già erano presenti nelle due precedenti (ad esempio lo sterminio degli ebrei della poesia Endlösung o l’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici); dobbiamo piuttosto chiederci invece, e sarà il primo scopo di questo mio intervento, a quale altezza di rimeditazione dei suoi temi fosse l’opera fortiniana nel suo complesso. Da un punto di vista generale e con un’attenzione speciale alla ricostruzione filologica ci aiuta la recente pubblicazione della tesi di Riccardo Bonavita3 la quale ricostruisce bene, con un uso attento delle categorie sociologiche di Bourdieu, la posizione di Fortini all’interno del «campo letterario» e in particolare la sua posizione di crescente marginalità dovuta al alla nascente fortuna dei poeti che avrebbero composto la cosiddetta Neoavanguardia, per formazione e valutazione del rapporto tra tradizione letteraria borghese e poesia contemporanea diametralmente opposti a Fortini. A ciò aggiungeremo noi la rottura drammatica con il Partito Socialista dovuta duplicemente allo spostamento verso destra del partito dopo la fine del patto di intesa con il PCI e alla scarsa attenzione mostrata, in seno al partito stesso, per la sua attività e in particolare per la prima organica raccolta di saggi Dieci inverni del 1957 che infatti recava il sottotitolo Contributi a un discorso socialista. La rottura è ben documentata dallo scambio epistolare con Raniero Panzieri del 1958 nel quale si legge

E, ultima prova del fatto che non parla solo l’orgoglio ferito, io non sono nulla. Negli ambienti letterari sì, si riconoscono alcuni miei versi e qualche intelligenza ai miei saggi critici; ma non ho mai avuto un minimo di autorità, o di luogo comunque autorevole dal quale parlare, i comunitari sai come mi considerano e debbo ringraziare il cielo se Olivetti non mi taglia i viveri, gli Alicata e i Salinari sai cosa pensano di me; i Guiducci hai visto come si son comportati; non c’è un gruppo: un foglio, nulla, in cui il mio contributo abbia un luogo o un senso.4

Come riflessi biografici, diciamo come condizione politica ed esistenziale, siamo già pienamente nel clima di Una volta per sempre, penso alla prima strofa della poesia Il comunismo che recita:

Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m’hanno riconosciuto.

E poco più oltre c’è ragione di pensare che i nomi della lettera nella loro significazione di ambienti culturali generali dei partiti di massa siano appunto «i compagni che m’hanno piagato» della strofe finale, nella quale però si legge l’avvenuta presa coscienza di una propria necessità storica altra che inquadra già in un contesto diverso da quello partitico la propria attività culturale, anche se principalmente in una prospettiva etica.

Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.

Per intendere quali forme assuma la complessa e ricca rimeditazione politico-estetica della poesia e del comunismo di Fortini in quegli anni e agli inizi della composizione di Una volta per sempre bisogna tenere presente i grossi rivolgimenti politici ed economici di quegli anni, senza intendere i quali tutte le posizioni espresse da questo autore in campo poetico rischiano di essere ridotte anche dalla critica a un bisticcio tra correnti poetiche o a una sorta di derby letterario tra i poeti delle generazioni postmontaliane.

Non faremmo giustizia all’opera e soprattutto alla storia se presentassimo in questi termini la questione, la tesi che dunque ora verrò argomentando è che la «verità necessaria» che Fortini pensa e scrive nei versi del suo libro non sia scritta tanto in lode della lirica tradizionale contro la Neoavanguardia, che è la prima e più vulgata ipotesi, e nemmeno sia una versione, magari riverniciata alla Brecht, della cosiddetta poesia impegnata o civile, civile poi di che civitas? Impegnata in che?

Se un impegno c’è nella poesia e negli scritti di quegli anni è quello di ripensare attraverso la critica delle istituzioni letterarie il ruolo e la funzione degli scrittori (e per un certo verso specialmente dei poeti) alla luce dei mutamenti non solo politici o culturali, ma anche di tipo sociale ed economico che coinvolgono la società italiana e non è del resto un caso se molte delle poesie di Una volta per sempre sono coeve alla stesura dei saggi di Verifica dei poteri e in particolare di quelli teoricamente decisivi come Verifica dei poteri, Astuti come colombe, Istituzioni letterarie e progresso di regime e di alcune parti del grande saggio storico-politico Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo.5

Vediamo dunque quali sono le ragioni, gli strumenti e dunque la sostanza di questo nuovo ragionare sulla posizione del poeta in rapporto alla società.

II.

Da un punto di vista nazionale sono gli anni in cui comincia la fase detta del “miracolo economico” che porta a una grande espansione del settore industriale e di quello dei servizi con una massiccia fase migratoria dalle campagne del Sud alle periferie industriali del Nord (Genova, Torino, Milano alcune zone del Veneto e dell’Emilia), allo sviluppo della grande industria di massa e allo sviluppo della fabbrica come luogo principe della produzione e quindi come sede dei rapporti sociali ad essa connessi; in poche parole l’Italia esce da una fase di paleocapitalismo, ancora largamente agrario peraltro in molte zone del Sud, e entra in una fase di capitalismo avanzato non più legato tanto al notabilato locale o al padrone di ottocentesca e marxiana memoria quanto ai grandi gruppi monopolistici e ai capitani d’industria; la produzione cresce con la crescita del mercato interno e l’impiego di masse di operai, donde la fortunata nozione di operaio-massa in quegli anni, genera conflittualità di tipo nuovo quando la grande industria ristruttura il suo funzionamento interno, le sue fasi di distribuzione, le politiche di assunzione e i salari alla luce dello sviluppo tecnologico e della crescita del mercato.

Le principali forze politiche cercano in diverso modo di far fronte alle novità dopo che il PSI si era progressivamente avvicinato all’area di governo (fatto chiaramente sgradito a Fortini e tra le cause del suo allontanamento sempre più netto) e che nel 1960 il governo della Democrazia Cristiana presieduto da Tambroni, che ricalcava ancora un modello conservatore tradizionale e cercava appoggio dai monarchici e dal Movimento Sociale, era caduto a seguito delle proteste di piazza a Genova, scelta come città del congresso MSI nonostante fosse medaglia d’oro per la Resistenza, e dell’uccisione di alcuni operai in una manifestazione a Reggio Emilia.

Il PCI, che era stato alla guida delle proteste di Genova, oscilla nella strategia politica tra un’apertura alla sinistra cattolica e una più attenta analisi della nuova fase economica che si era aperta con un importante convegno dell’Istituto Gramsci del 19626 dove significativa fu la relazione di Bruno Trentin. Nello specifico il PCI all’interno di un quadro teorico con implicazioni politiche evidenti era impegnato a rimeditare Marx e la teoria del valore difendendola da un doppio ordine di attacchi, da parte degli economisti che discutevano intorno all’opera di Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci del 1960 e dall’altra dai neokeynesiani teorici dell’intervento statale e delle politiche di inflazione; negando la teoria del Valore-lavoro, vuoi perché si interpretavano in maniera diversa i processi di metamorfosi della merce e di valorizzazione del lavoro, vuoi perché si vedeva il salario come figura intera del valore-lavoro, si riduceva il problema del capitalismo a una sperequazione nel momento della distribuzione (non in quello della produzione!)7 e quindi in ultima analisi come qualcosa di correggibile, di controllabile e di necessario.

D’altra parte il PSI, che attraverso i primi esperimenti di astensione faceva votare la riforma scolastica e la nazionalizzazione dell’Enel avviandosi poi a entrare nel governo con il centrosinistra organico, maturava una lettura della relazione dialettica tra piano del capitale e riforme di struttura che se da una parte aveva delle implicazioni nettamente neoilluministiche e riformiste, come in Guiducci che da amico di Fortini divenne uno dei più invisi al poeta, dall’altra nelle sue punte più avanzate a sinistra, come il già ricordato Panzieri, interpretava con una originale lettura marxiana i nuovi processi di circolazione delle merci e di meccanizzazione del lavoro e attraverso la teorizzazione dell’inchiesta sociale forniva un nuovo strumento conoscitivo e interpretativo della realtà della fabbrica e della classe operaia che mutava condizioni sociali e coscienza politica di mese in mese attraverso le lotte e le esperienze.

In questo quadro risulta infatti chiaro come il sindacato (vale a dire quasi totalmente la Cgil che già dal 1956-57 manifestava più aperte linee di autonomia e di ricerca rispetto al PCI) costituisse il punto in cui interessi teorici, letture innovative e pratiche di lotta sindacale e politica potevano veder convergere per qualche tempo sinistra socialista, sinistra comunista, e militanti non affiliati a fianco della classe operaia. La rivista laboratorio di questi rinnovamenti fu senz’altro «Quaderni Rossi», animata da Panzieri fino alla morte e alla quale presero parte prima di fondare «Classe operaia» anche alcuni intellettuali comunisti poi rilevanti per l’itinerario di Fortini come Mario Tronti e Alberto Asor Rosa: il primo numero conteneva saggi anche di esponenti della Fiom-Cgil quali Foa, Pugno e Garavini la cui collaborazione cessò però dopo che il sindacato e il partito comunista assunsero una posizione critica verso gli scioperi delle fabbriche metalmeccaniche torinesi del 1962.

Fortini partecipa a questo generale rinnovamento e a questo ciclo di lotte come redattore di «Quaderni Rossi» sui quali pubblica due importanti scritti, Il socialismo non è inevitabile sul numero 28 e Per un discorso inattuale che contiene la traduzione del discorso di Brecht al congresso in difesa della pace tenutosi a Parigi nel 19359 e scrive inoltre il testo per il documentario Scioperi a Torino,10 tutti questi sforzi insoliti per un letterato di tradizione italiana, come anche Fortini dimostra di sapere nella sua lettera a «Quaderni rossi», traducono una notevole disposizione ad adeguare anche sul profilo del ruolo la letteratura ai tempi nuovi e alle diverse esigenze di lotta, per non schiacciare però la sua prospettiva in una traduzione meccanica della realtà esistente in termini poetici occorre tenere presente la sua vocazione umanistica di fondo e l’impianto dialettico del suo ragionare.

A tal proposito leggiamo appunto due brani che riportano le sue letture di queste tendenze e costituiscono un possibile inquadramento del livello di elaborazione al quale collocare Una volta per sempre: da Il socialismo non è inevitabile

Ammettiamo da noi già parafata la dichiarazione di morte presunta del socialismo italiano; ammettiamo di aver avuto, negli ultimi sei o sette anni, l’agio morale di misurare l’ampiezza della sconfitta; ammettiamo anche la ragione di quanti pensano oggi volgere il tempo della fatica di scoprire il profilo intellettuale del domani piuttosto che alla lotta immediata. Ma come spegnere il vizio della speranza? Parrebbe una garanzia la presenza di giovani che non hanno avuto tempo, quel vizio, di coltivarlo. Ma, diciamolo chiaro, la sola garanzia seria può venire dalla rilevazione di indici non controvertibili, dalla verifica della premessa maggiore: l’esistenza di un dato grado di tensione anticapitalistica e la sua traducibilità in prospettiva politica.11

E dall’Ospite ingrato

Disputa fra Basso e Giolitti al Turati sul XXII congresso del PCUS. All’uscita, Giolitti e Guiducci, Momigliano e Pizzorno con signore. Ci sono anche Musatti, Mazzocchi e tutti quanti. La separazione dei gruppi, all’uscita è bella come un diagramma. La voce di Guiducci: “La politica o è scientifica o è reazionaria”. Calcolo quanto tempo ci vorrà perché sia ministro dei Lavori Pubblici. Ma quelli del PSI son capaci di dimenticarsene.

Stamani leggevo, in Pizzorno: che la storia non ci insegna nessun parallelismo fra virtù morali-politiche e cultura. Ha il buon gusto di non rammentare gli spartani. Certo ha ragione: se però per cultura si intenda tutta la cultura meno la pedagogia alle virtù morali e politiche; che è anche una virtù morale e politica.12

Insomma Fortini matura da un lato, come già i versi del ’58 indicavano, una precisa valenza umanistico-morale del suo ruolo di scrittore, dall’altra la coscienza di doverla saldamente ancorare a una visione anticapitalistica perché non si risolva in uno sterile richiamo all’umanità o addirittura in una prospettiva reazionaria. Appaiono dunque importanti in questa luce i riferimenti a Brecht e alla traduzione del suo discorso: come il poeta tedesco parlava agli scrittori convenuti a Parigi per parlare della lotta al fascismo in difesa della cultura e nel suo appello risuonava chiaro che il problema era che «la brutalità non viene dalla brutalità ma dagli affari che senza la brutalità non si possono più fare»13 così Fortini richiama alla prospettiva anticapitalista vedendo nell’antifascismo, anche quello che aveva condotto alla già ricordata caduta del governo Tambroni, non una vittoria, ma una secca della sinistra, alla quale era seguita un’altra barbarie, quella del piano capitalistico controllato che «programma se stesso per diecimila anni», si fa seconda natura.

Il tema del rapporto fra natura e cultura, tema marxiano già dai Manoscritti economico-filosofici esplicitamente citato nell’appendice a Poesia delle rose, percorre diversi testi della raccolta, tra i quali: Fine della preistoria, Le radici, La gronda, Il museo storico e viene a Fortini, oltreché ovviamente dal Marx dell’Ideologia tedesca e dei Manoscritti, dalla tradizione hegelo-marxista e lukacsiana e dalla scuola di Francoforte. Dell’una e dell’altra molti dei testi principali uscivano in quegli anni, spesso tradotti da amici di Fortini come Renato Solmi, Sergio Bologna o Cesare Cases e da Fortini venivano prontamente letti e commentati, qualche titolo: di Lukács Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1959), La distruzione della Ragione (1959), Teoria del romanzo (1962), Il romanzo storico (1963), L’anima e le forme (1963), di Benjamin Angelus novus (1962), di Adorno Filosofia della musica moderna (1959), di Anders Essere o non essere (1961), ma anche l’Estetica di Hegel (1963) e quasi tutta l’opera brechtiana incluse le due opere teoriche Scritti teatrali e Dialoghi di profughi (1962), letture queste che si riflettono ampiamente nella scrittura fortiniana di quegli anni e che costituiscono il particolare retroterra culturale di questa raccolta, un esempio di poesia allegorico-dialettica che non ha praticamente seguito nella poesia italiana del Novecento e che anche all’interno dell’opera fortiniana si darà in futuro in modo assai diverso.

III.

Vediamo ora di raccogliere alcuni punti alla luce di quanto detto per leggere qualcuno tra i testi più stimolanti e meno noti della raccolta: non procederò a una lettura integrale ed escluderò alcuni testi famosissimi proprio perché ben noti e ben studiati, tanto nelle opere recenti di Diaco e Bonavita, quanto in alcuni degli scritti critici precedenti.14 Piuttosto è interessante qui leggere le linee di continuità tra testi e sezioni che dimostrano l’esistenza di una prassi poetica come prassi politica sul terreno specifico della letteratura.

Che Fortini infatti dovesse in qualche modo uscire dall’impasse a cui aveva condotto la commistione semplice di lirismo diaristico e impegno politico ancora una volta è ben dimostrato dalle analisi filologiche condotte da Bonavita nel suo libro sulla tormentata vicenda redazionale di Poesia ed errore e in questo senso bisogna a mio parere interpretare la citazione di Majakovskij che apre la sezione Un’altra attesa: «è bene scrivere una poesia sul primo maggio fin da novembre o dicembre».15 Anzitutto siamo al contrario del diarismo, una poesia sì d’occasione ma preparata anticipatamente, l’occasione si fa dunque oggetto di consapevole arte piuttosto che sussulto psichico e ispirazione momentanea (di contro a tutto il lirismo e a quel tanto di impressionistico che ancora sopravviveva nella poesia italiana degli anni ’50-60), inoltre però richiama il senso di un’attesa vivificata dal lavoro e il fatto che sia il primo maggio, festa dei lavoratori, non è privo di valore. Molti testi della sezione, quali Un’altra attesa, Non posso e Mattina di Luglio, rappresentano l’alienazione quotidiana nelle forme di una realtà dalla quale l’uomo è estraniato, che vede naturale e pietrificata: «La pietra della morta realtà» di Non posso. Essa appare in termini vicini ai processi di reificazione descritti nel Capitale: «all’uomo viene così contrapposta la propria attività [attraverso la forma merce che occulta la relazione sociale tra produttore e lavoro], il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di indipendente che lo domina secondo leggi autonome che gli sono estranee».16 Altri ancora come L’ora delle basse opere situano questa alienazione in uno scenario meno indistinto e vanno verso una rappresentazione, sia pure a tratti espressionistica, della realtà del capitalismo italiano degli anni Sessanta e dei suoi mutamenti, è il caso dei graffianti Ringraziamenti di Santo Stefano:

Principi potenti cuoi,
principi unghie di marmo,
signori di tutti noi,
voi di invisibili armi,
voi che ci avete creati
ciechi e quieti come le merci
sigillate nei mercati,
come i visceri lerci
dei macelli, che vanno
nei vostri splendidi autoclavi,

sazi nei doponatali
vi ringraziano gli schiavi.

Il testo, voluta parodia di una preghiera liturgica, rivela la natura tutt’altro che sovraterrena del malessere “esistenziale”, per così dire, che aleggia in molte poesie della raccolta, Fortini sa bene che i rapporti di produzione generano rapporti sociali e i rapporti sociali la coscienza, per questo la «morta realtà» è qualcosa di più di un’illusione, è il tempo nel quale è consentito ai signori di creare gli schiavi dalla sazietà degli schiavi stessi.

Qui emerge un primo problema al quale Una volta per sempre ha dovuto rispondere: se l’uomo si è alienato dai suoi prodotti sociali e percepisce la realtà come stante intorno e di fronte a lui quale condizione data con leggi autonome cosa potrà fare la letteratura? Può un’attività sociale, sia pure di tipo artistico ed estetico, rappresentare qualcosa di diverso dall’alienazione della coscienza se di quella coscienza è frutto? Una strada potrebbe essere la denuncia di questa alienazione: è per esempio la scelta di Pasolini in opere come La religione del mio tempo o Poesia in forma di rosa, ma anche del gruppo del Menabò che preparò il numero su letteratura e industria (Vittorini, Calvino, Scalia e Sereni tra gli altri), un’altra sarebbe nella mimesi linguistica e tematica di quella alienazione come forma di piena autenticità (come ad esempio tentarono gli autori del Gruppo 63, e paradigmatici sono in questo senso i poemetti di Pagliarani), una terza quella di indicare nella poesia o nell’arte stessa una via privilegiata della coscienza, tanto privilegiata da poter fare ricorso a forme di inconscia consapevolezza che bruciano i processi conoscitivi e rappresentativi (è la teoria dell’ispirazione, ma anche quella di molta letteratura a matrice simbolista, religiosa, orfica e surrealista).

Bene io credo che Fortini, nonostante a tratti partecipi di tutte queste tendenze come ogni autore che non è mai un monolite e conosce anche diverse discrasie tra le proprie intenzioni e i risultati, abbia invece cercato di impostare una soluzione dialettica: leggiamo la bellissima poesia Endlösung:

Kube, Thilo, Mengéle, Gilser, Salmuth
Witiska, Stroop, Strauch, Bormann, Haase,
ahu che creta si strappa in gola, ahu che corda
che croste d’emazie alle unghie, che siero
nelle rainures di graniglia per dissezioni! Nostra orda,
compagni di ginnasio ora costellazioni!

Nella rappresentazione dei morti nei campi di sterminio come un’orda confusa, nella quale i compagni di un tempo sono divenuti costellazioni abbiamo non solo un raro esempio di poesia cosmico-materialistica, poco diffusa nella tradizione del Novecento, ma soprattutto un’allegoria chiave per intendere il senso dell’attesa rappresentata nella sezione: dal punto di vista della storia universale gli uomini sono materialmente costellazioni; il che vuol dire che se non c’è una redenzione sovraterrena, come non c’è un’oppressione sovraterrena, ogni forma, persino quella di un’esistenza individuale è storicamente determinata e determinabile, solo assumendo un ipotetico “punto di vista delle costellazioni” il senso di questa attesa sarebbe allora chiaro e la lotta per il socialismo vale allora non perché è inevitabile ma nella misura in cui non lo è.

La realtà alienata non è dunque deplorevole (da denunciare), vera (da studiare, mimare), falsa (da respingere in nome di una verità altra), essa è piuttosto una menzogna continua nella quale la verità cresce. Più tardi Fortini dirà «risultati artistici, tecnici, o scientifici autentici si danno, è chiaro, anche nei termini della mistificazione che accompagna l’insieme della pratica artistica, tecnica e scientifica neocapitalista. Dice Adorno: non si dà vita vera nella falsa. Correggerei (tutto sommato, con Lenin): non si dà vita vera se non nella falsa»;17 compito della poesia potrà essere dunque «il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione».18

Chi in questa mezza citazione adorniana ha immediatamente riconosciuto la variazione (filosofia con poesia) ha chiare le due principali conseguenze: e cioè 1) che compito della filosofia e compito della poesia qui si equivalgono e 2) che dal punto di vista dell’opera d’arte cioè dell’attività estetica dell’uomo divenuta azione cosciente la venuta della redenzione (cioè la fine della preistoria, il socialismo) diventa indifferente.

Da questa prospettiva intendiamo meglio alcuni passaggi del saggio Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo dove leggiamo:

Ora la prassi-coscienza che è il fine della storia marxista non è diversa cosa dal “sogno di una cosa” che gli uomini avrebbero da sempre avuto: è insomma La facoltà formatrice della vita, quell’ordinarla a partire dalla meta che è appunto il proprio delle opere d’arte. La formalizzazione della vita è la vittoria sull’impiego solamente praxico della medesima, cui siamo sottoposti dal lavoro alienato. […] La poesia, come i frammenti di ferro meteoritico che pur sempre ferro sono e stanno sulla terra ma “significano una diversa origine” si manifesta come frazioni di “tempo orientato”.19

dove è evidente un originale impasto di temi lukacsiani (l’aspetto formale dell’arte come negazione umanistica del lavoro alienato), adorniani (il porsi della poesia dal punto di vista della redenzione e la natura formale dell’opposizione tra arte e società capitalistica) e benjaminiani (il tempo orientato) che costituiscono la generale impostazione del problema della poesia dal punto di vista estetico e storico-filosofico. Resta da intendere come e con quali elementi esso si traduca nella pratica compositiva: se infatti scorriamo brevemente i testi della raccolta notiamo all’ingrosso due aspetti, ovvero che si tratta di testi perlopiù brevi anche quando disposti in sequenza (come la Poesia delle rose) e nei quali prevale un tipo di metrica basata su accenti forti, un versoliberismo attento non tanto al parlato (come fa molta altra poesia italiana di quegli anni) ma a un ritmo logico-ragionativo che nasconde anche dietro gli spazi tra le strofe un passo del ragionamento, un’evoluzione dialettica (si vedano in questo senso ad esempio le già discusse Il comunismo, la quale nella sua doppia tensione programmatica e testamentaria non è altro che una fortiniana An die Nachgebornenen e merita giustamente un posto nella sezione Traducendo Brecht come qualcosa cresciuto a margine e in riflesso all’opera del poeta di Augsburg e Ringraziamenti di Santo Stefano ma anche L’edera, Il museo storico, Un peschereccio di Rostock si chiama Bertolt Brecht); si tratta di quello stile da traduzione cui Fortini si riferirà poi nella prefazione del 1967 a Foglio di via20 e che ha due importanti risvolti nel saggio Metrica e libertà21 e soprattutto nella fondamentale traduzione delle poesie di Brecht per Einaudi (Poesie e Canzoni del 1959) per la quale Fortini si cimenta organicamente per la prima volta con una tradizione poetica che nulla spartisce con la sua formazione montaliana e postsimbolista.

Nella importante prefazione alla raccolta leggiamo «in Brecht non c’è mai nessun appello iniziale al senso comune, la struttura ideologica ‒ che è, almeno per le poesie della maturità, quella marxista ‒ precede, non segue, il qui-e-ora della poesia».22 Proprio questa consapevolezza di dover fuoriuscire dal senso comune (in quanto rappresentazione alienata) permette a Fortini di scrivere una lirica che non è solo elegia o canto, non serve lo spirito dei tempi ma mira a mutare il proprio tempo.

Capiamo a questo punto la ragione di due brevi poesie conseguenti:

Fine della preistoria

Dietro i tetti scende il sole.
Apollo scioglie i suoi cavalli.
Nelle chiese pende Gesù.
I tempi sono maturi e vizzi.
Che cosa aspetti.

Ai poeti

Di secco orrore e di tremante logica
Facciamo versi! È perfetto il tempo:
in sé confuse e ostinatamente
per pazienza indistinte e per paura
le classi affollano i cinema, i tram,
si triturano a sciami…

L’appello della seconda poesia si rifà indirettamente a un’importante nota brechtiana dal titolo Lirica e logica:

la pretesa più elementare è che una poesia trasmetta per contagio al lettore la sua atmosfera emotiva, questo contagio. Questo contagio è un’azione vaga, ancora non molto ben definita, è, direi quasi, di natura formale. La capacità di contagio di una poesia può essere limitata da diversi fattori: luogo, persona, professione, nazionalità, classe sociale. Non è affatto detto che le poesie che riescono a commuovere il maggior numero di persone siano le migliori.23

L’orrore e la logica devono essere la sostanza di questa nuova poesia perché essa non si perda in rivendicazioni populiste o speculazioni messianiche, ma non hanno solo la funzione di rendere fertile la proposta estetico-formale di ordinare la vita e il tempo secondo la fine di quella preistoria (cioè marxianamente la fine delle ere presocialiste), bensì anche quella di fornire una scorza, una sorta di guscio protettivo che protegga il contenuto di verità delle poesie dalla inevitabile consunzione cui è sottoposta la poesia-merce (Fortini la chiama poesia-valore). In questo senso vanno le indicazioni di prassi del famosissimo saggio Astuti come colombe:

ma come scrittore ‒ almeno nella parte in cui mi sia dato di comunicare con ad un pubblico ‒ mi dico di voler apparire il più astratto, il meno impiegato e impiegabile, il più “reazionario” degli scrittori […]. I gestori della cultura industriale e progressiva già da sempre hanno veduto nel mio colorito qualcosa che li ha dissuasi dal fidarsi di me.24

Omologo dell’evoluzione della fase capitalistica ad una forma di capitalismo a regolazione statale tramite riforme e politiche keynesiane è l’evoluzione dell’industria culturale che sussume le posizioni di dissidenza, di semplice denuncia della realtà industriale all’interno del sistema di rapporti che la produzione industriale genera facendole diventare quote di mercato letterario (ad esempio il prestigio che assume progressivamente l’opera di Calvino o di Vittorini). Fortini trae l’idea dell’estensione sociale generale dei rapporti di produzione dal modello di fabbrica alle relazioni sociali dalla rilettura marxiana di Tronti25 ma a differenza di questi non pone un “di fuori” irriducibile alla dialettica del capitale che si dà come totalità (cioè la classe operaia, che nella forma della soggettività operaia è per Tronti un prodotto del capitale ma non interna al capitale stesso). In diversi saggi Fortini tenta una teoria della poesia-valore che, seppure schematica, resta affascinante come unico tentativo, nell’ambito della letteratura italiana di quegli anni, di applicare la dialettica marxiana del Capitale ai problemi dell’estetica e della poesia in particolare; d’altra parte gli interessi economico-politici di Fortini e la sua consapevolezza di dover nettamente ripensare le forme dell’impegno alla luce della fase di sviluppo del capitale sono largamente documentati dall’inserzione di scritti di Mandel e della Robinson nella sua antologia laterziana sulla cultura politica degli anni Sessanta.26 Il di fuori che Fortini pone rispetto alla dialettica del capitale è, come visto, il contenuto di verità della poesia, la sua possibilità deittica (e questa impostazione gli viene certamente dalla lettura incrociata degli scritti di Adorno e di Benjamin), ma cosa mostra questa poesia? Verso quale tempo è orientata?

Leggiamo le poesie Il museo storico e La gronda.

Il museo storico

E non scusarmi, se vuoi. Ma devo dirtelo quello
che tutti sanno e non sanno. Presto anche qui
presto la gente sarà nel socialismo.
Con poca fatica saranno migliori di noi. Di sicuro
o più felici o meno feroci. I valori
che dicevi di credere e qualche volta anch’io
avranno nuovi nomi e i vecchi nomi
saranno tristi e belli come le canzoni dei vinti,
come le canzoni dei vinti che a sera
sui nostri giradischi distrassero noi dall’orrore
e dalla verità. Vedranno con studio e pietà
quello che ci congiunse ai nemici, nemici noi stessi
appariremo. Dai vetri dei musei guarderanno i giardini
alti di luce e ai muri la nostra rosa dipinta.

La gronda

Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegoli. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.

Penso con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via.

Questi due testi tra i più belli e, almeno il secondo, tra i più giustamente famosi di Fortini lo dicono chiaramente, verso il socialismo come negazione dello stato di cose esistente che in La gronda è rappresentato per allegoria dalla vecchia gronda cascante a cui basta un volo di rondine per precipitare e che nei versi di Il museo storico viene immaginato, ancora marxianamente, come il mondo studiato dagli uomini che hanno raggiunto il socialismo, quel «naturalismo giunto al proprio compimento»27 dei Manoscritti economico-filosofici che è il perno dell’umanesimo socialista (nel quale certamente il progetto politico-estetico-pedagogico si inquadra) e che segue «la condizione di compiuta iniquità» di lukacsiana memoria,28 cioè quell’era preistorica-capitalistico-borghese i cui uomini non potranno che parere nemici strutturarli della loro stessa umanità e la loro arte una incerta e elegiaca imitazione di una natura non alienata all’uomo.

Tutto procede verso la rivoluzione, ma la rivoluzione è un taglio netto, una cesura storica “una volta per sempre”, un volo di rondine, questo ci mostra la poesia di Fortini e in questo senso la poesia può essere solo rivoluzionaria, non riformista o socialdemocratica.

«Nulla è sicuro ma scrivi» recita il verso più noto di Una volta per sempre e forse il più noto di tutto Fortini poeta: scrivi allora perché la poesia serve a ricordare che la naturalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della natura non si raggiungono automaticamente a colpi di nazionalizzazioni e decreti, che la fine dell’alienazione non si vota a maggioranza, che «credevamo di essere nella rivoluzione e invece siamo tutti nella storia»29 ma è in quella storia stessa e nella possibilità di educare ad essere all’altezza di essa e non in un programma politico-aziendale che le forze del socialismo maturano.

IV.

Mi tengo ora l’ultima parte di questa nostra lettura per riflettere, in controluce alla poetica di Una volta per sempre, su alcuni di quelle che ieri forse furono risposte e oggi sono perlomeno questioni aperte.

Da quanto si è visto sulle condizioni storiche e da come abbiamo esposto le fonti e i ragionamenti possiamo senz’altro dire, come Fortini stesso farà,30 che la sua visione della poesia sia in massima parte di matrice lukacsiana e più ancora adorniana; penso cioè da un lato alla visione dell’arte come veicolo di formazione privilegiata della coscienza e alla possibilità di una conciliazione formale nell’opera d’arte, alla produzione attraverso l’arte, diciamo così, di coscienza non alienata, dall’altra in particolar modo alle tesi espresse nel famoso saggio Discorso su lirica e società31 che certamente informano molti dei versi trattati prima e della postura tenuta da Fortini nel propugnare le sue idee circa il rapporto tra prassi poetica e realtà sociale. Come noto in sintesi la tesi adorniana è che la potenza sovversivo-contestatrice di una poesia non sia nel suo contenuto, in ciò che dice, dove però per contenuto dobbiamo intendere non solo la materia poetica ma l’intero discorso dei generi e degli stili (condanna quindi in una certa misura anche le movenze epico-drammatiche delle poesie brechtiane), bensì in una serie di fattori formali: l’ordine del metro si oppone al disordine, la lingua letteraria al nonsenso della lingua veicolo, il solipsismo lirico denuncia tanto la massificazione della società quanto la rottura delle relazioni sociali che pone l’individuo solo davanti all’oppressione, in poche parole quanto più una poesia si manifesta come ermetica, metafisica, lontana dalla realtà con tanto più vigore ne grida la bruttezza e la disumanità.

Questi discorsi ebbero all’epoca un preciso referente politico, nel caso di Lukács la lotta contro le versioni positivistiche, deterministiche e meccaniche del marxismo (e dunque in politica o attendiste e riformiste o opportunistiche), nel caso di Adorno soprattutto la grande insistenza che un po’ ovunque le forze democratiche e socialiste facevano sulla necessità di una letteratura engagé anche quando essa era ormai completamente sussunta dal capitale e divenuta articolo di commercio culturale.

Oggi però queste posizioni ci mettono davanti alcuni problemi, dato che la nostra società non solo non è più quella in cui furono pensate, ma nemmeno quella contro la quale Fortini tentò di rileggere e impiegarle come armi. Possiamo infatti ancora pensare che l’arte, e segnatamente la letteratura, conservi immutata una sua valenza pedagogica? E questa educazione estetico-umanistica a che uomo dovrebbe tendere? In un paese in cui, dagli ultimi dati a me disponibili, solo il 38% delle persone legge almeno un libro l’anno e circa il 60% dello stampato resta invenduto, ma ancora di più in cui la coscienza storica come ingrediente necessario di quel processo di comprensione e educazione attraverso l’arte non si trasmette più da una generazione all’altra, si può ancora porre la questione in questo modo senza che sia più o meno consciamente un rimpianto di istituti borghesi classici? Non si tratta di dire in maniera sciocca che internet e la cosiddetta realtà aumentata hanno ucciso l’umanesimo, ma che anche quell’idea di umanità era un dato storico che non sembra essere al centro non solo delle concrete realizzazioni ma persino dei progetti ideali del nostro tempo. Potrebbe essere recuperato solo facendo appello ai Valori (e in questo senso, troppe volte complici specialismi e crociate accademiche, troppo spesso assistiamo anche alla presentazione di un Fortini valore, di un Fortini da difendere come tale, un Fortini che ha sempre ragione), ma questo sarebbe negare recisamente ogni dialettica e mettersi tutte e due le mani davanti agli occhi per non vedere come i Valori finiscono in borsa, magari quotati con il ranking o le statistiche Anvur di qualche dipartimento. Per chiudere infine, e per tornare al tema di questo nostro incontro: il poeta e la società, possiamo essere serenamente adorniani oggi? O forse dobbiamo considerare il fatto che le idee di estetica e poetica che a quel tempo si volevano contestatarie oggi sono largamente penetrate nella coscienza media dello studioso di letteratura e del poeta italiano, magari attraverso le vie diverse dello strutturalismo, dell’ermeneutica, quando non direttamente della teoria critica, ormai ben arroccata in molti dipartimenti di prestigio, o ascoltate come il necessario rovescio della grande tradizione poetica del Novecento italiano? (penso a Sereni, a Luzi, a Zanzotto, a una certa lettura di Montale, oltreché allo stesso Fortini ma anche a non pochi tra i viventi). Se fosse così la consapevolezza della natura formalmente eversiva dell’arte non rischierebbe di essere un comodo alibi per tutti gli adornisti che vogliano sentirsi tanto in opposizione all’ordine esistente quanto comodamente inseriti in esso e previsti? Da critici piangono sulla fine della critica e della società che la accoglieva e nutriva ma si dimenticano poi che anche le società si costruiscono e che sono anche gli schiavi che creano i padroni.

Oggi forse, ma lascio la parentesi aperta, una poesia di contenuti, anche la più piattamente realistica, potrebbe riservarci sorprese: se non altro quella di dover decidere quali questi contenuti siano e naturalmente per essere veramente realistici occorre conoscere la realtà nelle sue forme e nella sua struttura sociale, sia pure per riscoprirvi che l’umanesimo passa indenne o che subisce anch’esso trasformazioni e si presenta con un volto nuovo.

Sforzarsi di indagare e comprendere la realtà oltre a volerla enunciare è cosa che noi nella nostra situazione storica e sociale tanto complessa facciamo ancora poco, scrittori inclusi; forse perché la realtà non ci interessa o forse perché quello che troppi scrittori chiedono oggi è di essere prontamente messi in un museo storico, con le loro belle, tristi canzoni di vinti senza battaglia.

Note

1 Per tutte le citazioni di testi o passi dalle raccolte poetiche mi avvarrò di F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014.

2 La quale si può leggere come quarto capitolo del recente saggio di Francesco Diaco, Dialettica e Speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017.

3 R. Bonavita, L’anima e la storia. Struttura delle raccolte poetiche e rapporto con la storia in Franco Fortini, Bologna, Biblion, 2017.

4 Lettera di F. Fortini del 9 gennaio 1958, in R. Panzieri, Lettere 1940-1964, a cura di S. Merli e L. Dotti, Venezia, Marsilio, 1987 p. 124.

5 Tutti leggibili ora nella ristampa di Verifica dei poteri, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003.

6 Ora leggibile in Tendenze del capitalismo italiano. Atti del convegno di Roma, 23-25 marzo 1962, a cura di Istituto Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1962.

7 Su questi argomenti si veda ovviamente il primo libro del Capitale.

8 Ora in F. Fortini, Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1975, pp. 248-250.

9 Ora in Id., Verifica dei poteri, come parte di Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, a sua volta in Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp. 130-157.

10 In Id., Tre testi per un film, Milano, Edizioni Avanti!, 1963, poi in Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp. 1365-1383.

11 Ivi, p. 1384.

12 Id., L’Ospite Ingrato primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 955.

13 Cfr. Id., Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, cit., p. 167.

14 Tra i quali vanno almeno menzionati per la loro rilevanza nell’interpretazione della poesia e di Una volta per sempre: R. Pagnanelli, Fortini, Ancona, Transeuropa, 1988, L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Lecce, Manni, 1999 e T.E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, Gainesville, Florida University Press, 1999.

15 Cfr. V.V. Majakovskij, Come far versi, in Id., Poesia e rivoluzione, trad. it. di I. Ambrogio, Roma, Editori Riuniti, 1968.

16 K. Marx, Il Capitale, libro I, capitolo 1, sezione 4: «il carattere feticistico della merce e il suo segreto», trad. it. di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, Utet, 1974, pp. 148-161 e p. 152.

17 F. Fortini, Non si dà vita vera se non nella falsa, in Id., Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Rimini, Guaraldi Editore, 1971.

18 T.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1994, p. 304.

19 Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. 177.

20 Ora in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 63-68.

21 Ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., pp.783-799.

22 B. Brecht, Poesie e canzoni, trad. it. di R. Leiser e F. Fortini, Torino, Einaudi, 1959, p. VIII.

23 Id., Scritti sulla letteratura e sull’arte, trad. it. di B. Zagari, Torino, Einaudi, 1973, p. 249.

24 Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. 67.

25 In particolare il saggio La fabbrica e la società, nel n. 2 di «Quaderni rossi» e ora in M. Tronti, Operai e capitale, Roma, Deriveapprodi, 2006, pp. 35-56.

26 Vedi F. Fortini (a cura di), Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, Bari, Laterza, 1965, dove si distinguono tra gli altri il saggio di Ernst Mandel sul Neocapitalismo, pp. 3-22, quello di Oskar Lange su La pianificazione, pp. 37-62, e quello di Joan Robinson su Le comuni in Cina, pp. 144-161.

27 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1949, p. 111.

28 Cfr. G. Lukács, Teoria del Romanzo. Saggio storico-filosofico sulle forme della grande epica, trad. it. di L. Goldmann, Milano, Sugarco, 1963.

29 Fortini, Questioni di Frontiera, cit., p. 249.

30 «Da allora inoltre ho sempre pensato, con Adorno, che la poesia contenga un elemento eversivo non nei suoi contenuti ma nella sua forma». F. Fortini, Quel busto romano di una dea, intervista a cura di S. Palumbo, in «Poesia», 118, 1998, ora in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 732-737.

31 Ora leggibile in T.W. Adorno, Note per la letteratura. I. 1943-1961, trad. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 1979.