Michele Prospero,
La teoria politica di Marx
Alessandro Barile

Michele Prospero, La teoria politica di Marx, Roma, Bordeaux edizioni, 2021.

Con una buona dose di paradosso, il Marx espunto dalla critica dell’economia politica ricompare nella politologia, campo di studi tra i più scomodi e frammentari dell’intero corpus marxiano. D’altronde già Norberto Bobbio si chiedeva se esistesse «una dottrina marxista dello Stato», concludendo che l’unico terreno storicamente progressivo (e anche «sovversivo») fosse il liberalismo costituzionale, anche per coloro i quali prefigurassero un ribaltamento dei rapporti sociali. Il controcanto rivoluzionario sembrava confermare il vulnus: «il movimento operaio non possiede una teoria dello Stato, perché non ha bisogno di prefigurazioni e/o mistificazioni», rispondeva Antonio Negri in un suo noto scritto del 1976. Michele Prospero, con questo suo opus magnum sulla scienza politica in Marx ribalta la vulgata e afferma: sebbene nell’opera marxiana non esista una teoria politica «autonoma», non per questo vi è «trascuratezza», perché essa è ricompresa all’interno di una «teoria sociologica della società moderna». Il confronto tra l’autore e Marx avviene sul terreno ampiamente dissodato del “dellavolpismo”: in prima istanza a Prospero preme “fare i conti con Hegel”, utilizzando il giovane Marx della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (il “testo sacro” del marxismo anti-hegeliano) come grimaldello filologico attraverso cui presentare la discontinuità tra Marx e Hegel nei termini di una frattura inconciliabile. La polemica, utile negli anni Cinquanta a combattere alcune ambiguità dello storicismo togliattiano, risente oggi di un debito verso i “maestri” (oltre a Lucio Colletti, soprattutto, nel caso di Prospero, Umberto Cerroni) slegato da effettive necessità di posizionamento politico. Ma all’autore preme anche colpire una certa «metafisica del soggetto» (diremmo: dei soggetti, costitutivamente al plurale) «infondata», ovvero slegata dalla materialità dei rapporti sociali. È su questo piano che la critica di Prospero sembra possedere maggiore incisività (o quantomeno attualità). Attraverso l’uso di un marxismo interpretato come sociologia dei rapporti sociali, quindi come scienza empirica (un’istanza presente anche nel giovane Lenin di Che cosa sono gli amici del popolo, un Lenin diverso da Materialismo e empiriocriticismo e dai Quaderni filosofici, dove fondamentale è l’influenza della logica hegeliana), l’autore colpisce una certa «teologia» che vorrebbe istituire l’ordine sociale per mano di «una soggettività del potere che unifica e dal nulla disegna un ordine assente». Se la decisione è frutto di un preciso rapporto sociale, è la stessa politica a definirsi in funzione dei rapporti di forza (e del preciso calcolo di questi), fondati, per l’appunto, su relazioni sociali che si determinano fuori dalla politica. Insomma, se nella prima parte l’autore combatte una certa tradizione marxista nazionale (Badaloni, Gruppi, Gerratana, ma anche Luporini), l’intera opera vuole demolire alcuni riferimenti del “neomarxismo” italiano: Carl Schmitt e Giovanni Gentile ad esempio, quali matrici del connubio tra volontà di potenza e realpolitik che informa la “novità” dell’operaismo trontiano, una novità che incede carsica lungo tutta la vicenda della sinistra radicale dagli anni Settanta a oggi (non solo italiana). Quello di Marx, dice Prospero, è un realismo politico basato sullo studio scientifico di processi sociali, empiricamente verificabili, da cui ricavare una capacità di previsione, unico terreno concepibile per l’irruzione del soggetto in grado di inverare tale possibilità. Il comunismo non è così risultato della decisione ma «dell’immanenza dei rapporti di classe». L’originalità della proposta di Prospero consiste nel recuperare Gramsci liberandolo dalle pastoie storiciste. È parte di una “linea” politico-teorica alternativa tanto al realismo comunista-bismarckiano di Togliatti quanto al soggettivismo dei movimenti della nuova sinistra, sebbene nell’ideale incrocio tra le riflessioni di Colletti e Althusser possa rinvenirsi un’altra importante fonte dell’estremismo politico degli anni Settanta. È da stabilire se l’impotenza politica che avvolge oggi un’ipotesi di questo tipo sia determinata da specifiche ragioni teoretiche o dalle esiziali difficoltà in cui versa il campo della sinistra radicale.