G. Stuparich, Guerra del ’15, a cura e con un saggio di G. Sandrini, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 197.
Il ritorno in libreria dopo diversi decenni di assenza di Guerra del ’15 di Giani Stuparich, diario che racconta giorno per giorno le vicende dei primi due mesi della Grande Guerra viste dagli occhi di un volontario giuliano, è una novità da salutare favorevolmente. In effetti, tra le numerosissime iniziative per ricordare il centenario del conflitto mondiale, si sentiva la mancanza di una ristampa di questo testo che da tempo è stato riconosciuto come una testimonianza fondamentale all’interno del più ampio panorama della letteratura scaturita dall’esperienza bellica. Era inoltre necessario l’avvio di una nuova discussione, reso indispensabile dalle recenti scoperte e analisi filologiche che hanno portato alla luce il taccuino originale in cui Stuparich appuntò le sue prime impressioni della vita di trincea per poi rielaborarle e sistemarle in vista della prima edizione pubblicata da Treves nel 1931.
Guerra del ’15 «è un libro di scarna poesia», così lo definiscono Ara e Magris in Trieste. Un’identità di frontiera,1 ponendo poi l’accento sulla tematica umana e quotidiana che percorre il testo, su cui ha insistito opportunamente buona parte della critica e su cui ritorna anche Giuseppe Sandrini nel suo saggio, Giani Stuparich: poesia e verità di un «semplice gregario», posto a conclusione della nuova edizione.
Questa scarna poesia, che farà dichiarare anche a Gramsci che ci troviamo di fronte a uno dei migliori libri scaturiti dall’esperienza del fronte, trova la sua concretizzazione nel tentativo di comprensione, anzitutto umana, dei soldati al fronte che si traduce in un ripetuto tentativo di immedesimazione. È su tale punto che si può avviare un confronto tra il nostro testo ed altri scaturiti dalla medesima esperienza: si pensi soprattutto a Jahier e Camber Barni, dove trova ampio spazio l’attenzione verso gli uomini in trincea, sia nella loro forma di massa sia in quella del singolo “tipico” (in particolare il soldato Somacal Luigi nell’opera del primo o il soldato Sartorello in quella del secondo). La differenza fondamentale è quella stilistica, laddove Stuparich mai rinuncia a un costante controllo sulla propria materia e sulla propria lingua, sempre composte e ordinate secondo precisi filtri letterari che si rifanno alla più alta tradizione letteraria italiana. Solo raramente l’autore si concede qualche punta espressionistica che però non vale a cambiare il tono generale della scrittura.
Sandrini nel suo saggio pone dunque con chiarezza il problema che ne risulta: il rapporto tra «verità» e «poesia». Il curatore giustamente imposta il discorso sul confronto con il taccuino che Stuparich teneva in trincea e giunge ad evidenziare una forte conseguenza tra le due fasi della scrittura, poiché la «riscrittura non tradisce l’impressione fermata in un modo stenografico nel taccuino, ma elabora ricostruendo quelle parti che erano rimaste affidate alla memoria». Nel passaggio da un testo all’altro «il lavoro di Stuparich consiste insomma nel rimettersi addosso i suoi panni di granatiere, nel rivivere le giornate del 1915 con la sensibilità affinata di un uomo che ha trovato la sua misura stilistica nello “scrivere bene”» (p. 191). Ecco che dunque la dialettica poesia-verità, che trova il suo superamento nella riscrittura del diario, va tradotta nei termini concreti della contemporanea opposizione e complementarietà di memoria-appunti di prima mano.
Va però notato che la dimensione memoriale nel libro di Stuparich si complica con un duplice piano del ricordo che fa riferimento ai due differenti presenti della scrittura. Una delle caratteristiche dell’opera, come nota anche Sandrini – che giunge a definirla «la nota più inconfondibile del libro» (p. 193) – è infatti costituita dai ripetuti confronti con episodi della vita prebellica dell’io narrante, favorita anche dalla consuetudine che l’autore aveva con quelle terre già prima della guerra. Questo fattore viene a costituirsi come uno degli elementi strutturali del libro senza il quale la narrazione perderebbe espressività e movimento. Avviene così per vari episodi che si collocano in momenti temporali differenti, come il ricordo del ballo di Santa Lucia, avvenuto nel 1908, dove una signora triestina si rifiuta di concedere una danza a un ufficiale ungherese (pp. 76-77) o i ricordi d’infanzia che emergono richiamati alla memoria da piccoli dettagli del presente (pp. 119, 123-124) o ancora i ricordi dell’inizio della guerra con l’arruolamento del protagonista (p. 102) che costituiscono gli antefatti immediati della vicenda. Alla fine tale elemento viene ripreso con la cosciente trasformazione di tutto il racconto in un ricordo quando il narratore, promosso a ufficiale e assegnato ad un diverso reggimento, ripensa «come paralizzato dalla commozione» alla sua esperienza fino a quel momento (p. 179). Si tratta di un’esperienza che segna in profondità il protagonista e lo fa già sentire irrimediabilmente diverso dal mondo borghese cui era abituato prima.
Va notato inoltre che l’elemento memoriale, soprattutto quand’è introdotto dai luoghi che i soldati vedono o attraversano, è legato anche al sentimento di solitudine e distinzione dagli altri (lenito solo parzialmente dalla presenza del fratello Carlo) che l’io narrante avverte costantemente nel tentativo, cui abbiamo già accennato, di comprendere e immedesimarsi nei suoi compagni al fronte. Il protagonista si trova così in un doppio stato di isolamento, il quale a sua volta si complica, come nota Sandrini, con una duplice declinazione della diversità rispetto ai commilitoni: «quella del letterato, che con fatica si integra nella mentalità media dell’esercito, e quella del triestino, lo “straniero” che ha scelto la guerra e viene guardato dai commilitoni con un certo sospetto» (p. 192).
Si tratta di un marchio indelebile che caratterizza la posizione psicologica stupariciana e di una tematica che percorre più o meno sotterraneamente tutto il libro, tanto da far affermare a un altro autorevole critico che è proprio il «fortissimo bisogno di integrazione ed appartenenza» a costituire la cifra caratteristica di questo libro rispetto alla coeva memorialistica di guerra.2 Questa tensione costantemente frustrata è infatti l’elemento che consente al narratore di guardare le vicende del fronte con un altrimenti impossibile connubio di vicinanza e lontananza. Ed effettivamente i termini di questa lontananza subita, tormentosa, implacabile e non voluta, sono difficili da ritrovare altrove.
Tuttavia in altri momenti felici della narrazione, Stuparich non manca di cogliere benissimo lo stato psicologico dei soldati mostrando che il suo sforzo di comprensione non è sempre vano. È così che riesce a rendere l’atmosfera mitopoietica della vita di trincea, laddove coglie la «voce anonima della guerra» (p. 15), o il senso di religiosità primitiva, che si condensa nell’idea che sia il «destino» a guidare gli eventi bellici (p. 123), riconoscendoli come processi necessari del ricordo e dunque della narrazione dei fatti. Non a caso tali fattori si ritrovano anche in altre opere della memorialistica di guerra, come hanno mostrato le acute analisi Paul Fussell.3 La differenza con le altre testimonianze, anche in questo caso, sta nella distanza con cui lo sguardo del narratore si posa sugli eventi (pp. 40-41), condannandolo così ad una maggiore consapevolezza e dunque ad una sofferente presenza e a un doloroso distacco umano.
Un ultimo aspetto interessante è costituito dai riferimenti a personaggi esterni alla narrazione principale, delle cui vicende si viene a conoscenza in trincea attraverso lettere o giornali. Si pensi al ferimento e alla convalescenza di Scipio Slataper, o alle morti di Angelo Vivante e di Renato Serra. Tali elementi fungono da legami con un mondo che ormai si percepisce come sempre più distante (non è un caso che dopo un po’ anche la lettura dei numeri della «Voce» perda di interesse agli occhi di Stuparich) e al contempo come stimolo di ricordo e riflessione.
Questa nuova edizione di Guerra del ’15, arricchita dalla postfazione di Sandrini, costituisce insomma un utile invito a riscoprire e a ridiscutere, a cent’anni di distanza dalle vicende narrate, un autore e un’opera importanti e peculiari all’interno del vasto panorama della letteratura della Prima guerra mondiale.
Note
1 A. Ara, C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 2007, p. 106.
2 F. Senardi, Il giovane Stuparich. Trieste, Praga, Firenze, le trincee del Carso, Trieste, Il Ramo d’Oro, 2007, p. 220.
3 P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, trad. it. di G. Panzieri, Bologna, il Mulino, 1984.