La trasformazione che, in quanto scrittore, mi riguarda di più, è quella che ha subordinato in modo prepotente ogni forma di attività culturale alla logica economica del profitto. La cultura ha perso sempre di più quella relativa autonomia, che manteneva nei confronti delle pure logiche di mercato. La mercificazione della cultura non è certo un fatto degli ultimi trent’anni, ma zone dell’attività intellettuale e artistica avevano in precedenza mantenuto un’attitudine autocritica, denunciando in vario modo questa tendenza generale e mostrando i limiti della pretesa autonomia del campo culturale nei confronti di quello economico. Questa attitudine faceva sì che la cultura non fosse solo compiaciuta celebrazione dei ceti privilegiati e della loro visione sofisticata del mondo, ma anche espressione di un’esigenza di trasformazioni materiali e spirituali radicali, tali da prefigurare una società più felice e più giusta.
La compiuta subordinazione dell’attività culturale a quella economica ha vanificato anche quanto persisteva di pensiero critico presso scrittori, intellettuali e artisti. E ciò è avvenuto nella forma dello spettacolo. Su questo punto, nessuna analisi ha potuto finora modificare nella sostanza quella operata da Guy Debord a partire dal 1967. Oggi nulla esiste nell’intelletto o nei sensi, che non sia già anche nel medium, sotto forma di prodotto a larga diffusione. Oggi nulla è pensato e sentito, per scandaloso che sia, se non ha già un suo pubblico. (La cosa dev’essere prima nella mente del pubblico, affinché possa essere anche in quella dell’autore.) I nuovi arrivismi di ogni forma e colore, inclusi quelli a tinte “situazioniste”, che tanto oggi vengono deprecati nel mondo letterario, non manifestano altro che la verità del campo: non è il successo personale la meta ultima, il successo è la sola forma d’esistenza che un prodotto culturale (artistico o letterario) può avere. Non ne esistono altre. Al di fuori di questa non c’è l’insuccesso, la marginalità, il dilettantismo, la bohème, la clandestinità. Non esistono margini: ogni differenza può infatti essere immediatamente investita dallo spettacolo e ottenere una sua funzione.
Uno dei segni della definitiva perdita d’autonomia della cultura si è avuto con la celebrazione del presunto passaggio da una cultura elitaria, per pochi ricchi, ad una cultura democratica, per tutti. In Italia, sono state le televisioni private di Silvio Berlusconi ad inaugurare questa nuova era. Tale passaggio si è avvalso di un aspetto della tradizione del pensiero critico, per togliere ogni legittimità morale a quanto, dell’espressione umana, non possa essere ridotto a merce, a prodotto in grado di essere immediatamente diffuso. Da allora la diffidenza e lo scetticismo dei ceti popolari nei confronti di tutto ciò che risentisse di un’elaborazione intellettuale sofisticata si è mutata in aggressiva rivendicazione della povertà di strumenti e della ristrettezza di prospettive, come valore democratico indiscutibile. Ciò ha ridato, di conseguenza, legittimità a tutte le nuove forme di elitarismo culturale, di destra come di sinistra, che non fanno altro che prendere posizione su parcelle di mercato culturale ridotte, ma ancora in grado di godere di un plusvalore simbolico.
In un tale contesto, ciò che uno scrivente versi percepisce è la sempre maggiore irrilevanza della campo culturale nel suo insieme, per il destino della società e delle persone che ci vivono. Quello che viene a mancare è l’idea stessa che la scrittura e la lettura siano esperienze formative e trasformative, capaci di agire su di noi, di modificare la nostra visione della realtà, di esplorare aspetti dell’umano non funzionali alla società esistente. Di fronte a questa eventualità, colui che scrive senza preoccuparsi della possibilità che il suo prodotto abbia un pubblico, colui che scrive per realizzare innanzitutto l’avventura che la scrittura può essere, si percepisce oggi come una sorta di esperimento vivente. Questa condizione è un’ulteriore regressione rispetto a quella, tante volte ribadita in questi anni, dell’intellettuale o scrittore come testimone. Il testimone presuppone, almeno, che un ordine di valori esista da qualche parte, affinché la sua testimonianza possa essere compresa e valutata fino in fondo. Il testimone presuppone che un ordine di valori persista in forma minoritaria e che possa trasmettersi al futuro. Oggi la situazione mi sembra ancora più difficile e incerta: il poeta in particolare diventa testimone solo di se stesso, della sua capacità di dialogare ancora con i morti (la letteratura del passato), del suo malinteso fecondo con il linguaggio, della sua capacità di esistere diversamente che come merce. Lo scrittore come esperimento vivente deve affrontare il rischio del solipsismo. Per sfuggire alla menzogna generalizzata, bisogna poter resistere ad ogni evidenza condivisa. Questo implica un lavoro assiduo e in solitudine, a partire dalle modalità più ordinarie di percezione. Lo scrittore come esperimento è colui che può forse parlare a nome d’altri, solo parlando a partire da sé, solo interrogando l’esistenza di un possibile ordine di valori che non sia quello dello spettacolo – ossia del profitto. E d’altra parte, questa condizione apre un campo sterminato per la scrittura poetica: Perec lo chiamava l’infraordinario, noi possiamo concepirlo come tutto quanto esiste al di sotto della soglia dello spettacolo, al di sotto di quanto è mediaticamente consistente, significativo. Tutta la strada che dall’esilio del reale ci riconduce ad esso.
2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
Non mi pare che la dimensione autoriflessiva della scrittura poetica sia oggi più diffusa che trent’anni fa. Se davvero lo fosse, io interpreterei questo aspetto come parte di un fenomeno più ampio: il manierismo che ha preso piede a partire dagli anni Novanta. Manierismo e neometricismo, e forse anche un’enfasi sulla componente metapoetica, sono per me reazioni ad una perdita di prestigio del genere lirico, e si configurano come reazione corporativa. Di fronte ad un indebolimento delle gerarchie di valore – eclissi delle collane di riferimento, moltiplicazione degli scriventi versi, ecc. –, il poeta reagisce mettendo l’accento sugli aspetti tecnici del proprio mestiere: si professionalizza.
3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?
Il termine “formalizzazione” come inteso da Fortini rinvia per me alla questione della figurazione. La conquista di una forma è sempre realizzazione di una figura di mondo. Ciò significa che ogni singolo verso deve poter sostenere come proprio sfondo la totalità del mondo, o almeno una tensione ad essa. Il verso, come meccanismo che governa il fondamentale scarto tra metro e sintassi, tra ritmo e senso, deve rendere palpabile il diramarsi simultaneo delle versioni del mondo. Il verso e più in generale l’organizzazione ritmica del componimento – anche quando si tratti di un brano di prosa – è la traccia dell’enunciazione vivente, del soggetto che nella sua fragilità esistenziale e conoscitiva apre un mondo. Ma lo specifico della forma poetica sta nel fatto che al di fuori dell’enunciazione – prima e dopo di essa – nulla è veramente garantito, né il soggetto che parla né il mondo di cui si parla. Ogni garanzia esiste nella presa di parola non garantita, in questo rischio di tenere assieme soggetto e mondo, attraverso un discorso non di completezza (lineare, narrativo) ma d’intensità (puntuale, provvisorio). Ogni libro di poesia è una convocazione di un soggetto e di un mondo, di un certo soggetto e di un certo mondo. L’idea stessa di convocazione implica un’assunzione di responsabilità etico-politica. Di questo soggetto-mondo solo certi rilievi emergeranno, ed essi acquistano un peso decisivo proprio in rapporto a tutto ciò che nel componimento non è reso visibile, a tutto ciò che è taciuto. La forma è l’organizzazione di una figura, e la figura è uno spiraglio. Ciò che decido di far vedere si rapporta, ogni volta, a tutto ciò che non faccio vedere: il poeta si muove di continuo tra il visibile e l’invisibile sociale, così come tra il significativo e l’insignificante.
Il problema della forma si pone per me, innanzitutto, a livello di serie di testi (di sezione o di intero libro), e non a livello di singolo componimento. Per questo motivo sono ben poco interessato all’utilizzo delle forme chiuse. Non si tratta di vivificare o meno forme ereditate, si tratta di sperimentare una nuova forma ogniqualvolta si esplora un diverso aspetto del mondo. E qui è implicito l’uso del patrimonio letterario ereditato, ma anche il riuso di una quantità di discorsi extraletterari.
4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha» (Fortini, Prefazione al Faust). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?
In tempi recenti, sono intervenuto diverse volte sul significato che per me e per altri poeti a me contemporanei ha l’esperienza della traduzione. In particolar modo, su invito di Paolo Febbraro, ho dedicato al rapporto mio e di altri con la poesia francese contemporanea un saggio approfondito intitolato Passi nella poesia francese contemporanea. Resoconto di un attraversamento, saggio che apparirà questo autunno nell’“Annuario di poesia”, curato da Febbraro e Manacorda. Qui mi limiterò soltanto a definire ciò che io chiamo “attraversamento” e che costituisce per me l’esperienza chiave della traduzione. Un attraversamento è legato ad una carenza originaria, ed è un movimento che cerca altrove quello che non riesce a trovare a casa propria. Esso si definisce, innanzitutto, in termini di critica della propria cultura, o più precisante d’insoddisfazione nei confronti delle proprie istituzioni poetiche. Questo vuole la logica dell’attraversamento: essa prevede sempre un “rimbalzo”, un possibile ritorno. Questo avviene in ultima analisi nel lavoro di traduzione, ma non solo. Lettura di testi in lingua originale, traduzioni dal francese all’italiano, riflessione sugli scritti teorici, tutti questi momenti agiscono poi sulla nostra consapevolezza di autori, di scrittori in lingua italiana.
5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?
Continuo a considerare l’opera poetica e intellettuale di Fortini un punto di riferimento fondamentale per il mio lavoro. Penso a Questo muro e a Paesaggio con serpente come due tra i maggiori libri di poesia del nostro Novecento. Quanto alla “funzione Fortini”, essa solleva oggi diverse questioni. Innanzitutto, la considerazione di una “integrale politicità della poesia” ci può immunizzare dal rischio di una poesia “civile”, di cui tanto si reclama il ritorno. E’ probabile che tanta nostalgia di poesia civile sia legata al tasso d’inciviltà che regna nel nostro paese, tanto nei palazzi come nelle strade. Ma non si vede bene quale potrebbe essere un nucleo di valori condivisi dall’intera società italiana, nucleo che farebbe da sfondo al dettato del poeta civile. Una poesia cattolica, in Italia, per assurdo che possa sembrare, può essere certa di riscuotere più consenso, e trovare elementi ideologici di maggiore condivisione, rispetto a una poesia civile, che esalti valori popolari o valori repubblicani. Ma una poesia politica non presuppone nessuna condivisione, semmai esalta la sua dimensione di parte. E questa dimensione rimane per me legata alla scrittura poetica: dal momento che io scrivo, escludendo come molla fondamentale del mio agire il profitto, sono già parte di una minoranza, utilizzo un patrimonio culturale trasmesso nella forma incerta del dono. Ma questo scarto apparentemente irrilevante si pone come prefigurazione di uno scarto più ampio e di carattere politico: quello della circolazione del sapere e dell’espressione artistica come forma gratuita e vitale, non governabile in termini di profitto economico o di rendita istituzionale.
Detto questo, per qualcuno nato nel 1967 non è probabilmente possibile immaginare una “politicità della poesia”, per il semplice fatto che è scomparsa l’esperienza che raccoglieva e promuoveva quella politicità. A partire dagli anni Ottanta non c’è più stata esperienza politica nei termini in cui poteva averla vissuta Fortini. Al suo posto abbiamo avuto esperienze di militanza eclettiche, scostanti, più o meno estranee alla vita di partito, o poco integrate in esse. Neppure l’esperienza da Seattle a Genova, nel movimento altermondialista, ha potuto sedimentare forme di agire politico consistenti. Di conseguenza, la stessa “funzione Fortini” è venuta storicamente meno.
A questo punto, però, andrebbe modificata l’ottica della questione. Un teorico della letteratura, il francese Jacques Rancière, può offrirci indicazioni in questo senso. Mi riferisco in particolare ad un suo saggio recente: Politique de la littérature (2007). Vi è un terreno “impolitico” nelle nostre vite, che può divenire occasione di una “politica” propriamente letteraria. Se la parola politica è quella che svela pubblicamente un nuovo campo di oggetti, e con esso una nuova dimensione della soggettività, la parola poetica è quella che viaggia ai margini del campo politico, laddove si gioca invece una disarticolazione tra oggetti e soggetti. La parola politica istituisce un noi e rivendica la capacità di questo soggetto collettivo di deliberare intorno a degli oggetti, che erano in precedenza sottratti alla sua deliberazione. La parola poetica coglie invece le linee di divergenza presenti all’interno del noi, e mostra come esista un sottrarsi degli oggetti alla presa e alla discussione collettiva, che non ha le sue ragioni in conflitti per il potere o l’egemonia. Esiste un’opacità degli oggetti, che resiste ad ogni sforzo di appropriazione simbolica in termini politici: un’insensatezza del mondo che difficilmente può essere presa in conto dalla parola politica. Anche per la politica in senso proprio non è irrilevante la “politica della letteratura”. Nei confronti delle più grandi promesse di emancipazione dell’essere umano, formulate in termini politici, la parola poetica ricorderà i vuoti, le lacune, il fondo tragico della vita, contro ogni chimera di un’umanità completamente risanata dal dolore, dalla morte, dall’insensatezza.
Alla luce di quanto detto, io interpreto l’integrale politicità della poesia come un rapporto costante tra la “politica della letteratura” e la politica propriamente detta, o come il costante cortocircuito che si può realizzare tra il terreno impolitico delle nostre vite e quello politico. Sciogliere questo rapporto sarebbe impossibile. In tale caso prevarrebbe infatti una concezione semplicemente apolitica della scrittura letteraria.