Julij Gugolev,
I campi di Orcus e altre poesie
Michela Zernitz

Julij Gugolev, I campi di Orcus e altre poesie, trad. it. di Claudia Scandura, Roma, Elliot-Lit, 2025.

La lettura del libro di Julij Gugolev, recentemente uscito per le Elliot-Lit edizioni, I campi di Orcus e altre poesie, la prima antologia italiana del poeta moscovita che riunisce testi tratti da tre raccolte: My – drugoj (‘Noi siamo l’altro’, 2019), Volynščnik nad Arlingtonom (‘Lo zampognaro di Arlington’, 2020) e Orkovy polja (‘I campi di Orcus’, 2022) mi suggerisce alcune suggestioni. La miscellanea, che prende il titolo dall’ultima raccolta del poeta, uscita in Israele, a differenza delle precedenti pubblicate in Russia, è curata e tradotta da Claudia Scandura, la slavista ripetutamente segnalatasi per l’impegno nel presentare al lettore italiano le più significative voci poetiche della Russia contemporanea. Ricordiamo in particolare il poema Latrine (1990) del poeta osseto di lingua russa Timur Gibirov (Le lettere, Firenze, 2008), premiato nell’edizione del 2010 del Lerici-Pea, le raccolte poetiche di Sergej Gandlevskij, le poesie di Elena Fanajlova, e infine il volume Spogliatoio femminile. Poesia e prosa 2001-2015 di Marija Stepanova, autrice ora ben conosciuta in Italia, solo per citare gli autori principali.

Come leggiamo nell’illuminante saggio introduttivo della curatrice, al pari di molti scrittori russi anche Gugolev, poeta e traduttore, è approdato alla poesia dopo aver svolto lavori diversi, nel suo caso assistente medico nelle ambulanze e conduttore televisivo. Dopo l’iniziale diffusione delle sue poesie negli anni Novanta in samizdat, e poi su rivista, le opere di Gugolev hanno cominciato ad essere pubblicate in volume nel nuovo millennio. Uno dei più interessanti autori della scena poetica russa contemporanea, Gugolev ha sviluppato negli anni una versificazione molto personale nella quale una lingua colloquiale e gergale, non priva tuttavia di riferimenti e citazioni del repertorio poetico classico, appare spesso declinata secondo una prosodia tradizionale. La trama linguistica, popolata di calembour, idiomatismi, assonanze paronomastiche, ambiguità polisemiche, contribuisce ad accentuare il contrasto fra il ritmo leggero, talvolta ai limiti della filastrocca, e la tematizzazione di situazioni angosciose e tristi. Con l’aggravarsi delle crisi internazionali e, soprattutto, della guerra fratricida estesasi dal Donbass all’Ucraina tutta, gli accenti ironici e autoironici si sono via via incupiti, e il tono dei componimenti più recenti esprime una critica amara che colpisce sia i nuovi media che allontanano dalla realtà e ne favoriscono la mistificazione, sia gli equilibri generazionali, nei quali i padri sono allineati alla tradizionale narrazione dell’“enorme paese” e sono pronti a sacrificare i figli che “non hanno vissuto”.

Colpisce come la poesia di Gugolev nasca e tragga alimento da un terreno che definirei organico e proprio attraverso la percezione sensoriale porti all’intersecarsi dei piani immaginativi che aprono spazi di autoriflessione.

Anche gli odori sanno nuotare,
alcuni arrivano molto lontano,
come una bolla, una cannuccia e una scarpa di betulla,
un motivo, Sulikò, per esempio…

Prendi la mensa. Fra gelatina e ricotta,
e tutti gli altri mangerecci,
d’improvviso hai voglia di obitorio,
di cloro, di pino non essiccato…

Oppure, vieni a congedarti dal cadavere,
e lo senti, lo percepisci appena,
strano, vicino all’obitorio odora di minestra,
splende il sole, frusciano le foglie…

Così come l’olfatto, il senso che più rapidamente sa restituire la vividezza di un ricordo, predispone alla libera associazione sinestesica, le immagini di Gugolev ci riportano spesso a una sensibilità primordiale, quasi un viaggio a ritroso nel tempo che permette di passare oltre le declamazioni, l’onore della divisa, la convivialità ritualizzata di padri e nonni che altro non è che la menzogna condivisa a coprire la realtà. Corpi nudi ai bagni Sanduný, l’elegante e storico complesso di sauna russa nel centro di Mosca, dove però il processo liberatorio della promiscua nudità si trasforma nella grottesca galleria di corpi deformi e mutilati, sussunti in quel potente «stožopoe ono», una intraducibile voragine zeppa di centinaia di sederi «verso il quale mi conducono per il vapore del Sandunovskij padri-torturatori e nonni in combutta», a ripetere, nell’intontimento dei vapori e della birra, i gesti della tradizione maschile, incapace di guardare alla realtà con lenti diverse da quelle del patriottismo di stato. Ma, guadagnando una nuova prospettiva snebbiata, la voce lirica si interroga sull’inganno di una generazione menzognera:

E la tinozza per noi sono i nonni e i padri.
Che razza di adulti, sono bugiardi!
Altrimenti a che cosa gli servirebbe,
che un uomo sebbene non viva

sotto l’effetto di birra e vobla (puro olio di pesce!)
se ne stia seduto a sudare e a starnazzare con loro:
com’è buono! Com’è bello questo mondo!
a esclamare che bontà! il mondo che meraviglia!

Fino alla conclusione che non lascia uno spiraglio di luce:

– Ehi, Julik, ma perché non bevi?!
E nonno Arkadij, tracannando la Žiguli,
starnazza imperterrito. E la bugia guida il mondo.

In modo simile culmina il monologo della Matta del bus M-8, nella quale solo una donna deragliata dai binari delle convenzioni sociali, una pazza, «sorta di Cassandra, o di Erinne del nostro tempo», è ancora in grado di vedere e dire la verità, e di denunciare, nella sua pietas sciamannata, l’uccisione in guerra, accomunando nella tragedia i morti su entrambi i fronti:

per la vostra bugia vi verrà la scabbia.
Che anche in terra non vi diano posto
le lingue sparite del nord-est,
gli uomini dispersi del sud-ovest.

Si asciuga la pozza di nero inverno.
Si innalza verso il cielo il fumo grigio.
Quanto orrore ci sia al mondo,
ognuno lo decida per conto suo.

I versi di Tutto avviene contemporaneamente inanellano una serie di scatti colti dal marciapiede che suscitano interrogativi a mostrare che il conflitto in atto intorbida della sua ombra anche i più minuscoli, e apparentemente incontaminabili, frammenti di realtà, mentre l’ultimo emistichio menziona le ceneri che genereranno vendetta:

Passano alcune donne anziane.
Portano con sé bambini altrui.
Chissà di chi sono, nostri, non nostri…
[…]
Il gattino miagola? Il cagnolino abbaia?
Il neonato sgambetta nella culla?
La patria ascolta, la patria sa…
Char’kov brucia. La cenere picchia.

L’altro tema ricorrente riguarda la pervasività delle tecnologie della comunicazione che, in un’illusione di avvicinamento alla realtà, non fanno che allontanarla e falsarla: «come ribolle la vita online / come cova la morte da remoto».

La realtà filtrata dalla infosfera, manipolata sui social, genera sensi di colpa e di impotenza che di nuovo affrontiamo a distanza:

Se ancora non hai tirato le cuoia,
se sei in grado di alzare le chiappe,
inizia la tua mattina con i podcast,
la sera misurala a bicchierini.

Se per te ormai è proprio un tormento
manda qualcosa con PayPal,
immaginando a quante persone subito
nei rifugi andrà molto meglio.

Oppure:

Chiediti: allora, vigliacco,
il tuo acuto giudizio e il tuo strazio
a qualcuno sono serviti?

E cercando la postura più idonea da assumere di fronte all’orrore:

bruciando di vergogna,
assumi un atteggiamento corretto,
ardono le case altrui dalla periferia
e la piazza in città brucia.

I versi conclusivi insistono sul fuoco che brucia dentro e fuori di noi, e che viene guardato anche da: quegli occhi «per cui il pianto e il sangue altrui / sarà sempre rugiada divina».

In Le vedi quelle luci lontane? l’ansia della precarietà è innescata dal fissare, nel dormiveglia, delle crepe nel soffitto e nelle pareti, con il sottofondo delle sirene delle ambulanze che sfrecciano nella notte, e culmina il giorno successivo durante il viaggio in campagna quando nel fischio del treno si insinua il ricordo della musica di un funerale militare, la ritualizzazione della morte al fronte, iconizzata da centinaia di film americani.

Proprio quel giorno noi andiamo
con i cani dagli amici alla dacia!
E là, sopra i quadratini delle dacie,
il fischio del treno ci schiaffeggia in viso,
come il pianto acuto, malinconico
dello zampognaro di Arlington.

Se la guerra mostrata da remoto genera angoscia e senso di colpa, la verità della guerra è stata interiorizzata dai sensi che credono di scorgerne i segni ovunque. Così la macchia bruna che permane sul fazzoletto a dispetto dei lavaggi:

Queste macchie guardano come occhi.
Non è più una macchia, ma un marchio.
Tutta la notte l’ho tenuto a bagno,
pensavo, di mattina andrà via da solo.

Non è andato via, ho strofinato, non è sbiadito,
e striscia lungo il mio braccio.
E il gusto salato del ferro è
nel cielo, nell’aria, sulla lingua.

Ora che in Russia le voci non allineate sono nuovamente sottoposte alla censura, e un poeta può come niente essere messo al bando in quanto «agente straniero», qualunque cosa significhi, e le opere letterarie collettanee fra i cui autori figurino soggetti colpiti dalla fatwa devono riportare la dicitura «Questa edizione contiene materiale prodotto dall’agente straniero», segue nome e cognome, il fenomeno del tamizdat, cioè le edizioni in russo all’estero di opere sgradite al regime, ha ripreso su larga scala. Questo è il caso di Gugolev la cui voce poetica, oramai estromessa dai circuiti editoriali nazionali, è diventata anche un atto di resistenza civile. E in un’epoca in cui da questa parte dell’Europa ogni cosa russa è guardata con sospetto se non aperta ostilità, la pubblicazione in traduzione di opere come le poesie di Gugolev getta luce sulle dolorose contraddizioni di un mondo che priva i suoi figli della libertà di espressione.