questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.
La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.
Al termine, chiedo se è piaciuta e la riposta finora è stata sempre affermativa: «Bella!… Molto bella!». Anche le maestre confessano la loro approvazione. Quindi rileggo una seconda volta e poi una terza. «Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice».
La classe-barca assorbe la vernice-poesia. Ho la sensazione netta che l’incontro tra le menti vive dei ragazzi e le parole lette e pronunciate si stia verificando e stia producendo i suoi piacevoli effetti.
Di cosa parla questa poesia? «Della primavera» è la riposta collettiva. Bene. Come ne parla? Cosa vuol dire questo titolo tratto dall’ultimo verso? Perché «i lampi della magnolia»? Sapete cos’è la magnolia? Sì, è una pianta. L’avete mai vista? Risposte incerte: forse, sì, no, non so… Sono sicuro che l’avete vista. Ce ne sono due nel giardino della villetta a fianco al cortile della scuola. In questi giorni sono fiorite. Hanno fiori rosei o bianchi a coppa. Aprite gli occhi! Se andate in giro per Cologno, oltre a queste, ne incontrerete sicuramente altre.
Comunque, cosa significa «I lampi della magnolia»?, qual è il contenuto di questa metafora? I lampi sapete cosa sono. Fulmini, momenti di luce, flash come quelli di una macchina fotografica. La fioritura della magnolia viene paragonata ad una breve ed intensa illuminazione, ad un momento di luce. Va bene.
Leggi tu il primo verso: «Vorrei che i vostri occhi potessero vedere». Cosa vuol dire? Il poeta esprime un desiderio. Vorrebbe che i nostri occhi di lettori potessero vedere quello che vede lui. Desiderio, perciò, di condivisione di una visione.
Adesso, leggi tu il secondo verso: «questo cielo sereno che si è aperto». Facile, no? Vuole condividere con noi la visione di un cielo sereno. Perché scrive «che si è aperto»? Perché non c’è il grigio delle nuvole, l’orizzonte plumbeo dei temporali, le bufere di neve dell’inverno. È un cielo azzurro, sereno, primaverile.
Continua tu col terzo verso: «la calma delle tegole, la dedizione». Le tegole dei tetti sono tranquille, immobili perché non c’è vento, pioggia, neve, tempesta invernale. La dedizione. Cos’è la dedizione? Il prendersi cura, l’offrirsi, il darsi tutto ad una persona, ad una situazione, ad un ideale. Qualcosa di simile a ciò che avviene nei rapporti d’amore. Avete presente quando si dice che una persona si dedica totalmente ad un’altra? Ma in questa poesia chi si dedica a chi?
Vai avanti tu col quarto verso: «del rivo d’acqua che si scalda». Avete capito? Sapete cos’è un «rivo d’acqua»? Sì, è un ruscello, un piccolo torrente, un fiumiciattolo. Si offre totalmente al sole che ora, dopo il freddo invernale, lo scalda. Dedizione, amore, offerta di sé naturale.
Riassumendo. Da quali sostantivi e attributi è caratterizzata la visione che il poeta desidera condividere con noi: cielo sereno, calma delle tegole, dedizione del rivo d’acqua. Quindi, serenità, calma, tranquillità e abnegazione, offerta di sé, amore.
A questo punto mi fermo e rivolgo loro una domanda. È un po’ difficile, aggiungo, ma sono certo che saprete rispondere. Provate, comunque! È un paesaggio classico o romantico? La maggioranza risponde quasi sempre romantico. Ed io chiedo perché. Per i sentimenti (serenità, calma, dedizione) raffigurati. E vi sembra che un romantico sia così?… Ma no, miei cari, i romantici – le maestre lo sanno e voi lo saprete quando andrete alle scuole medie superiori – sono quelli dello Sturm und Drang; due parole tedesche che significano tempesta e assalto. Romantici sono i mari in tempesta che si abbattono sugli scogli, i cieli plumbei squarciati da fenditure di luce, le vette che si stagliano sugli abissi. Questo di Fortini è un paesaggio classico, armonico. Classico non vuol dire privo di sentimento. Può significare, come ha detto, il vostro compagno, «antico». Ma anche gli antichi avevano sentimenti.
Ora andiamo avanti. Leggi tu il quinto verso: «La parola è questa: esiste la primavera». Dimmi, cosa sta succedendo?
Dal desiderio di farci condividere una visione, da un «vorrei», il poeta passa ad una pronuncia dal tono serio, solenne, da rivelazione imminente. Come se dovesse formulare chissà quale verità o darci chissà quale consiglio, ammaestramento: «La parola è questa». Cosa vi ricorda una simile espressione? In quali luoghi avete sentito o letto formule così congegnate? In chiesa, quando vengono letti brani delle sacre scritture. Bravi. «La parola è questa» è una formula che sta per «il discorso è questo», «la verità è questa», «l’insegnamento è questo». E qual è l’insegnamento? «Esiste la primavera». Avevate forse dei dubbi? Lo sapevate o no che esiste questa stagione? Sì che lo sapevamo. E allora che suggerimento è, che verità è?
Nulla. È come se il poeta intendesse rafforzare ciò che già sappiamo. È come se ci suggerisse: non abbiate dubbi, la primavera esiste. Ed esiste suscitata proprio da quella visione condivisa di serenità, tranquillità, apertura, dedizione. Esiste come tempo ciclico delle stagioni, ma esiste anche, voi lo sapete, una primavera della vita. Siete voi la primavera. Voi la state vivendo. Io, invece, sto vivendo l’autunno. Ma il tempo delle stagioni, la primavera che ritorna, stimola in me voglie di rinascita e rifioritura. Il rinnovamento, la rigenerazione sono sempre possibili. Non dobbiamo essere pessimisti: dobbiamo pensare che tutto ciò sia nell’ordine delle cose. Esistono «lampi di magnolia» così, esistono visioni simili. Non dimenticatelo: «esiste la primavera»…
Ora vai avanti tu col sesto verso: «la perfezione congiunta all’imperfetto». Avete capito?!… Cos’è la perfezione? Quando diciamo che una situazione, un momento, una visione è perfetta? Quando tutti gli elementi sono al posto giusto; quando non vi sono errori, difetti; quando viviamo situazioni di compiutezza. Perfetto!, diciamo, meglio di così non si può. Il poeta ci dice che questa perfezione esiste; ma non da sola. Essa è congiunta, unita all’imperfetto. Si presenta sempre insieme al difetto, all’errore, al non finito, all’incompiuto. Questo è il suo modo d’esistere. La perfezione in assoluto non esiste e neanche l’imperfezione. Esse vanno sempre a braccetto, accoppiate, messe in stretta relazione. È proprio la visione della primavera, la sua esistenza ad insegnarci questa verità.
Continuiamo la lettura. A te il settimo verso: «Il fianco della barca asciutta beve». Oplà! Ecco un verso che richiede un discorsetto. Cosa ha di diverso, ad esempio, un verso come questo rispetto al quinto? Mi riferisco a quello che recita: «La parola è questa: esiste la primavera». Il settimo è “spezzato”, il quinto no. Bravo! Tu vuoi dire che il quinto ha in sé tutto il significato, mentre il settimo si può capire soltanto leggendo l’ottavo.
Allora, leggi ancora tu: «Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice, il ragno trotta». Perché il ragno trotti, non ci vuole molto a capirlo. Chi ha visto questo animale, sa che si muove velocemente; mentre cos’è questa storia del fianco della barca che assorbe l’olio della vernice? Trascorso l’inverno, i pescatori ridanno la vernice ai fianchi della barca per proteggerli ed evitare che vengano corrosi. È la stessa cosa che fanno i vostri genitori con le imposte delle finestre, dei balconi, con i cancelli perché non si screpolino e non si formi la ruggine. Quindi, il poeta richiama questa operazione per dire che durante la primavera si svolgono molte attività “rigeneranti”. Non rifiorisce solo la natura, rifiorisce un po’ tutto. D’accordo.
Ora vai avanti tu col nono verso: «Diremo più tardi quello che deve essere detto». Ecco un verso completo, privo di “spezzature”. In realtà, ragazzi, queste “spezzature” vengano chiamate enjambement da critici e poeti. Ma torniamo a noi. Che cos’è «quello che deve essere detto»? Ci sono i doveri della parola. Attenti, però. Nel primo verso, il poeta parlava in prima persona. Diceva «Vorrei». Adesso usa la prima persona plurale: «Diremo». Questo vuol dire che attraverso la poesia si è compiuto un movimento: dal singolare al plurale, dall’io al noi. Ciò che è connesso al dovere della parola, lo enunceremo più tardi.
Ma cos’è questa storia del dovere? Cosa significa dovere? Obbligo, compito, rispetto, obbedienza. Ho capito. Ditemi qual è la parola opposta a dovere. Piacere. Bravi!… Ora cerchiamo di capire meglio cosa evocano queste due parole. Il dovere ha a che fare col giusto e l’ingiusto. Noi sappiamo che studiare può costarci fatica. Ma sappiamo che è giusto e lo facciamo. Sappiamo che è giusto aiutare chi è in difficoltà, chi è più debole. E lo facciamo. Sì, lo so, che oggi in giro c’è l’esaltazione del più forte. Ma voi, che siete la primavera della vita, sapete che aiutare i deboli è giusto. Il dovere è in relazione con il nostro senso di giustizia. Sapete qual è la disciplina che studia questi problemi?… Facce perplesse e smarrite. Etica, suggerisco. Non dimenticatelo: è l’etica.
Invece, il piacere è in relazione col bello e col brutto, con ciò che ci attrae e ci incanta, ci appaga e ci diletta e ciò che è sgradevole e ci ripugna. La disciplina che si interessa di questi problemi della nostra sensibilità è l’estetica.
Tornando al nono verso; quando Fortini scrive: «Diremo più tardi quello che deve essere detto» è come se volesse farci capire che fra etica ed estetica esistono tempi diversi. «Diremo più tardi… / Per ora guardate». Cosa dobbiamo guardare?
Leggi tu gli ultimi due versi: «per ora guardate la bella curva dell’oleandro / i lampi della magnolia». L’oleandro sapete cos’è. Ha fiori bianchi o rosei. I cespugli sono speso usati per dividere le corsie autostradali. Da qui forse l’espressione «la bella curva». Sulla metafora che dà il titolo alla poesia, sapete il necessario.
A questo punto, stringiamo sull’obiettivo della comprensione e riassumiamo i movimenti del testo.
1) Il poeta esprime in prima persona il desiderio di condividere con noi una sua visione. Questo verso suggerisce che la poesia nasce spesso da un desiderio primaverile di nascita, di apertura. Ricordatelo: chi scrive, scrive per condividere, per esser letto.
2) Secondo movimento: il poeta offre gli elementi e gli attributi della sua visione. È un paesaggio classico, armonico, antico: col cielo sereno e i tetti calmi, immobili. L’offerta di sé è naturale come quella di un ruscello rispetto al sole. Il desiderio di apertura si realizza contemplando la visione. È come se si suggerisse: il desiderio del poeta tende alla primavera e quando la realizza raggiunge la serenità, la calma, la calda dedizione. Detto in altre parole, il soddisfacimento poetico calma, acquieta, intensifica l’offerta amorosa di sé. Per le maestre: Freud chiamava questo movimento “sublimazione”.
3) Dopo aver contemplato e condiviso la visione classica realizzata, ecco il terzo movimento. Riflessivo, questa volta, e detto con formule da nuovo testamento: la verità è questa. La primavera esiste ed esiste, nello stesso tempo, perfettamente e imperfettamente. Il suggerimento è: non sbagliatevi, ragazzi! Non c’è la poesia perfetta da un lato e quella imperfetta dall’altro. Ogni primavera, ogni nascita è simultaneamente perfetta-imperfetta. Mettetevelo bene in mente: sbagliano quelli che nella vita vedono soltanto difetti, errori, incompiutezze, sbagliano; ma sbagliano coloro che vedono soltanto perfezione. Poesia e non poesia, verità ed errore, perfezione e imperfezione vanno a braccetto.
4) Assorbito «l’olio di vernice» di questa verità, come fianchi di barca, possiamo sentirci rigenerati e possiamo trottare come ragni sulle nostre ragnatele poetiche.
5) Avendo condiviso con noi la contemplazione della sua visione, l’insegnamento e rinnovamento che ne deriva, ora il poeta può parlare in prima persona plurale. Come noi è consapevole dei doveri della parola, ma sa anche che questa pronuncia etica segue un tempo diverso da quello dello sguardo-coscienza estetica. È un tempo successivo («diremo più tardi») al presente. Per ora, l’invito che egli ci rivolge è di guardare «la bella curva dell’oleandro» e «i lampi della magnolia». Oltre che renderci consapevoli della non-identità tra etica ed estetica e della loro diversa temporalità, il suggerimento sembra essere questo: nella crescita della consapevolezza di ognuno di noi l’ora dell’estetica è il presente, quella dell’etica è il tempo successivo, il più tardi. Appunto per le maestre! Non vorrei sbagliarmi, ma in questi versi si sente forse l’eco del pensiero kierkegardiano che notoriamente distingue tre stadi dell’esistenza: l’estetico, l’etico e, infine, quello religioso.
Una poesia non basta parafrasarla. Per comprenderla davvero nelle sue molte facce, bisogna anche esplorarne la “manifattura”. In parole povere, occorre capire come è fatta. Questo compito, sono sicuro, vi divertirà. Cominciamo, allora, con le cose più semplici. Quante sono le strofe e quanti i versi?… Tre ed undici… Bravi! Bene. Ora prendete la matita e a sinistra del foglio numerate i versi.
Tu dimmi il verso 4: «del rivo d’acqua che si scalda». Bravo!… Tu dimmi il verso 9: «Diremo più tardi quello che deve essere detto». Bravo!… Qual è il più lungo? Il verso 9. E come fai a capirlo? Perché occupa più spazio sul foglio. Ah, così si misurano i versi? Si considera lo spazio che occupano su foglio? Siii!… Nooo!… No! Si guarda il numero delle parole. Allora se un verso è fatto da una sola parola: “mare”, ad esempio, e un altro da “coraggiosamente” hanno la stessa lunghezza?
No!… Si contano le sillabe. Ecco, bravi!, proprio così. Si contano le sillabe.
Cominciamo allora a contare le sillabe del primo verso. Quante sono? Sedici!… Tredici!… Quindici!. Quattordici!… Chi ha detto quattordici?… Io!… Bravo! Contiamole insieme. Scrivo alla lavagna il verso: «Vorrei che i vostri occhi potessero vedere». Sbarro le sillabe col gesso: «Vor/re/i / chei / vos/trioc/chi / po/tes/se/ro / ve/de/re». Attenzione! Quando una parola termina con una vocale e la successiva comincia con una vocale, si uniscono come, ad esempio, in «chei» e in «vos/trioc/chi».
Adesso, ditemi, quanto è lungo il verso 2? Tredici!… Dieci!… Dodici!… Undici!… Tu hai detto undici. Bravo! Contiamo le sillabe insieme. Scrivo alla lavagna e sbarro col gesso: «ques/to / cie/lo / se/re/no / che / sièa /per/to». Ricordatevi il discorso delle vocali che si uniscono! Ora, attenti! Quello che sto per dirvi è molto importante: un verso di undici sillabe si chiama endecasillabo. È il più importante della metrica italiana. Quando parliamo, spesso, spontaneamente, sulle nostre labbra si formano degli endecasillabi. Ciò è dovuto alla melodia della nostra lingua, alla sua particolare musicalità. Voi sapete che ogni lingua ha una sua musica? Sapete che ogni parola ha un accento?
Facce perplesse. Facciamo l’esempio della parola «sereno». Dov’è l’accento tonico? Sulla seconda «e». Bravi! E la parola «tegole»: su quale sillaba cade l’accento? Sulla «e» di «te». Bravi! Che differenza c’è tra queste due parole? Silenzio. Lo dico io?… Siiii!… “Sereno” è una parola piana, «tegole» è sdrucciola. Ma andiamo avanti. La maestra vi spiegherà meglio queste cose. L’importante è che voi abbiate capito che noi siamo costretti a pronunciare le parole secondo il loro accento tonico e questo fatto produce una certa musicalità. Vi faccio un esempio. Ascoltate le prime due strofe di questa poesia di Rodari:
salivo in ascensor
e per combinazione
trovo il commendator.
Commendator, lei sale?
No, grazie, pepe sol.
Lo sale mi fa male
e l’insalata duol.
Un ritmo così si chiama «giambico». Ovviamente vi sono altri ritmi dovuti proprio al modo di disporsi delle sillabe toniche e àtone. Ma lasciamo stare!… Ne parleremo un’altra volta. Non devo farvi un corso di metrica.
Oltre alle rime conclusive, sapete dirmi quanti sono lunghi i versi di Rodari? Silenzio. Allora torno a recitare la poesia e conto sulle dita della mano sinistra: «Il / dì / del/l’Ascen/sio/ne»… Sette!…
«Sa/li/voin/Asc/en/so/re»… Sette!… «E / per / com/bi/na/zio/ne»… Ancora sette! «Tro/voil / Com/men/da/to/re»… Ancora sette. Tutti settenari.
Torniamo alla poesia di Fortini: i versi sono tutti della stessa lunghezza? No! Il primo è di 14 sillabe, il secondo di 11, il terzo di 13, il quarto di 9. Gli altri ve li contate da soli. Adesso, però, voglio farvi notare un fatto importante. Tu!, torna a leggere il primo verso e stai attenta a dove ti fermi. La bambina legge. Mi fermo ad «occhi». D’accordo. Segnate con una doppia sbarra «Vorrei che i vostri occhi // potessero vedere». Ogni verso, lo capite?, ha una sua pausa interna che si chiama cesura. Ora, leggi tu e dimmi, dove fai pausa nel secondo verso: «questo cielo sereno…» . Dopo «sereno». Bene. Segnate con la doppia sbarra: «questo cielo sereno // che si aperto». Ora provate a contare sulle dita le sillabe dei segmenti di versi fino alle pause interne:
potessero vedere
questo cielo sereno
che si è aperto
Ma torniamo alle rime. Ce ne sono altre? «dedizione… perfezione». Sì, bravo! Poi?… «beve… deve». Bravissimo!… «asciutta… trotta». No. Questa, come vi dicevo prima, è un’allitterazione. Attenti, ragazzi! Tutta la poesia è piena di allitterazioni, a cominciare dal primo verso. Avete notato quel «vo» di «Vorrei» e di «vostri»? E tutta quella linea musicale di «o», «e», «i»? Sembra che Fortini voglia riempirci di meraviglia: «Vorrei che i vostri occhi potessero vedere».
Suona la campanella. I bambini rimangono in silenzio. Ma capisco che è ora di concludere. Anche per me l’intervallo era sacro.
Ragazzi, il tempo è volato in fretta. Per finire, posso dirvi che se, con l’aiuto della maestra, prestate attenzione a come questa poesia è fatta, scoprirete che ha una bella musicalità, un’armonia tutta classica, attenta a ripetere suoni e a variarli, a mostrare contraddizioni e a comporle: l’io singolare del «vorrei» e il noi collettivo del «diremo», il presente del «per ora» e il futuro del «più tardi», il piacere della visione e il dovere della verità.
La forma e il contenuto, il come dire e il cosa dire vi appariranno in relazione strettissima come la «perfezione congiunta all’imperfetto», che penso sia uno dei messaggi più importanti, ormai l’avete capito, di questi bellissimi versi. Ora che ci siamo avvicinati a questa poesia e che un po’ l’abbiamo compresa, ve la torno a recitare. Mi raccomando!: dovete impararla a memoria come ho fatto io. Vi farà compagnia nella vita.